di Leonardo Caponi

PERUGIA - Chi l’ha detto che il governo Monti è il governo delle banche e dei banchieri? Tutto falso, quello di Monti è il governo dell’equità e del rigore per tutti, che lavora senza sosta per la ripresa generale del Paese e i suoi interessi diffusi. Ne dubitate?! Basta guardare come affronta la questione economicamente d’attualità dei ritardati pagamenti e dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese private (specie le piccole che sono le più a soffrirne).

Ora, a parte la drammatizzazione di un problema “storico”, che è la crisi a rendere materialmente più acuto, ma che sembra scoperto solo ora ed è mediaticamente sovaesposto; a parte, quindi, il fatto che viene indicato come fondamentale un problema che fondamentale non è, forse per oscurare altre emergenze più “vere”, perché metterci di mezzo le banche? E perché il governo consente che le banche, che non fanno niente contro la crisi, ci guadagnino addirittura sopra?!

Cerchiamo di documentare queste affermazioni critiche, per non farle apparire arbitrarie. Punto primo: quello dei ritardati pagamenti è un problema reale dell’intero sistema economico italiano e delle imprese, non solo attribuibile alla pubblica amministrazione. Anzi, si può dire che la parte riguardante lo Stato e le altre istituzioni o enti pubblici costituisce, per vari motivi, la parte “minore” del problema: perché i privati fornitori del “pubblico” quando assumono commesse o stipulano contratti sono consapevoli di cosa li aspetta; perché il più delle volte “scaricano”, con le revisioni prezzi o altri sistemi di maggiorazione dei costi, gli oneri derivanti dai tempi lunghi delle riscossioni; perché preferiscono comunque lavorare con l’ente pubblico perché, come si dice, sono soldi sicuri anche se arrivano tardi. Perché infine in un Paese come l’Italia (e in particolare in certe sue aree) la spesa e gli investimenti pubblici sono una componente assolutamente decisiva del ciclo economico, che, senza di essi, sarebbe rimasto e rimarrebbe in uno stato atrofico.
Il problema vero dell’Italia è la subfornitura. Il 60% delle piccole e medie imprese (che rappresentano più dell’80% della struttura economica del Paese) lavora per imprese, italiane o in alcuni casi straniere, più grandi di loro, legate a queste ultime da un rapporto, appunto, di subfornitura, un legame che consente all’impresa committente (in genere una grande impresa) di sottoporre l’azienda fornitrice a condizioni veramente jugulatorie. Queste riguardano, non soltanto e forse non tanto i tempi di pagamento ritardati (uguali o maggiori di quelli del pubblico), quanto la assoluta “flessibilità” che è richiesta al fornitore in termini di tempi ravvicinati degli ordini, assenza di contratti scritti e quindi violazioni unilaterali, modifiche improvvise alla tipologia ed ai quantitativi di prodotto richiesto ecc. E’ questo tipo di rapporto (sul quale, tra parentesi, è per gran parte fondato il “miracolo del nord est”) che costringe, in molti casi, le Pmi italiane a quello stato di “nanismo” denunciato dalle associazioni di categoria, obbligate come sono da questa condizione di soggezione alla grande impresa, a lavorare dovendo ricorrere al credito bancario e senza la possibilità di “capitalizzarsi” abbastanza. La legge sulla sbfornitura, approvata dal Parlamento alcuni anni fa (per spinta fondamentale di Rifondazione Comunista), che raccoglieva le aspirazioni dei piccoli imprenditori, è stata sabotata ed è sostanzialmente rimasta inapplicata.

Se è così, perché le associazioni imprenditoriali hanno assecondato il governo nel porre sotto accusa un problema tutto sommato secondario rispetto a quello principale? La risposta è semplice: Confindustria è dominata dalla grande impresa, vuole “glissare” sulle responsabilità di quest’ultima e, insieme al governo, intende ideologicamente “criminalizzare” il “pubblico” per motivare le politiche di privatizzazione e liberalizzazione. Le associazioni dell’artigianato e della piccola impresa sono “ricattate” dal bisogno indotto dalla stretta economica e creditizia e sono piegate a mendicare qualche soldo per i loro associati a qualsiasi costo.
Ma, il bello, per così dire, di questa vicenda, si scopre nella modalità scelta e proposta dal governo per, come dicono, dare “una boccata di ossigeno immediata” alle imprese creditrici dello Stato e degli enti pubblici. La soluzione avrebbe dovuto e potuto dovrebbe essere semplice e lineare, come tutti possono comprendere, anche coloro che non hanno esperienza di governo: la pubblica amministrazione estingue il debito che ha con i privati attribuendo loro un corrispettivo in termini di credito fiscale, cioè consentendo ad essi (siamo peraltro vicini alla denuncia dei redditi di primavera) di ridurre o annullare, per una o più rate, il pagamento delle tasse. E’ stato proposto dalle associazioni di categoria e farebbe la felicità degli imprenditori, che non passa giorno che non si lamentino dell’insopportabilità del “carico fiscale”.

Se così non si vuol fare o se non fosse nell’immediato sufficiente, lo Stato potrebbe autorizzare la Cassa Depositi e Prestiti e, in accordo con le Regioni, gli istituti di credito pubblici regionali ad intervenire subito con assegnazioni e sovvenzioni a favore delle imprese creditrici, salvo poi a rimborsare questi istituti. Facile, no?!
E invece niente di tutto questo. Si mettono in mezzo le banche private. In base all’accordo tra associazioni bancaria (Abi) e imprenditoriali, proposto e imposto dal governo, saranno gli istituti di credito ad acquisire i crediti verso lo stato, acquistandoli dalle imprese per poi rivalersene con la parte pubblica. Che lo facciano col sistema del pro soluto o del pro solvendo (le associazioni delle piccole imprese sono molto ostili a questa seconda soluzione), a rimanere “fregate” saranno sempre le imprese (e anche lo Stato). Perché nel primo caso, in cui il creditore “vende” solo l’”esistenza” del credito, la banca lo acquista a prezzo inferiore al suo reale valore, mentre nel secondo caso il creditore prenderà una cifra simile al credito vantato, ma sarà tenuto a rispondere anche della eventuale insolvenza del debitore (da qui la protesta delle imprese). E poi, siamo sicuri che le banche non chiederanno e percepiranno dalla pubblica amministrazione un congruo interesse per il tempo che dovranno aspettare per esigere la risoluzione del debito? E le stesse benamate banche con quali soldi acquisteranno i crediti delle imprese? Con quelli avuti all’irrisorio tasso dell’1%, gentile regalo della Banca Centrale europea e, di conseguenza, anche se non voluto, di tutti noi contribuenti, che faranno fruttare con diversi punti di maggiorazione di interesse rispetto a quello di acquisizione?
Insomma, a conti fatti, a fare il vero affare saranno le banche. Chi l’ha detto che quello di Monti e Passera è il loro governo?!

 

 

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