Il mito di Procne che per vendetta uccide il proprio figlio.
di Maria Pellegrini.
La cronaca racconta troppo spesso di bambini uccisi da chi ha dato loro la vita, il più intollerabile dei crimini nell’immaginario collettivo. Eppure le statistiche dicono che in media, nel nostro paese, avvengono dieci infanticidi l’anno, nel 90 per cento dei casi a uccidere sono state le madri.
Da anni psicologi, psichiatri, sociologi si interrogano sul perché si arrivi a compiere un atto che più di tutti desta sconcerto, orrore, ripugnanza: depressione, vendetta, rabbia, disperazione, disagio psicologico? In questa sede non vogliamo affrontare tale delicatissimo problema, ma considerare che il figlicidio è un delitto ricorrente nel mito.
Proprio per questo atto criminale, tanto odioso, Medea è diventata il personaggio del mito greco più noto e coinvolgente, di cui poeti tragici e scrittori di ogni epoca e civiltà hanno lasciato vari ritratti: infanticida, strega, semidea, barbara, donna tradita, donna fatale, femminista ante litteram. Non mancano le analisi degli psicanalisti che la considerano il prototipo della donna combattuta tra il rancore per il tradimento del proprio uomo e l’amore per i figli, rancore sfociato nel desiderio di vendetta fino al punto di punire il padre attraverso l’uccisione delle sue stesse creature. Si è già parlato di Medea su Umbrialeft (L’amore fatale di Medea, 17/11/2016)
Meno noto è il mito di Procne (chiamata anche Progne) che si macchia non solo dell’uccisione del figlio, Iti, avuto dal marito Tereo, re di Tracia ma compie - per vendicarsi di un’azione ignobile compiuta dal marito - anche un atto di cannibalismo. Infatti dopo aver ucciso e fatto a pezzi il corpo del bambino lo imbandisce e ne dà in pasto le carni all’ignaro padre. Quale il motivo di tanto odio e di tale crudele vendetta? Procne, dopo cinque anni di matrimonio e la nascita del figlio, confessa al marito che vorrebbe rivedere la sorella Filomela che vive ad Atene nella reggia paterna. Tereo si offre di recarsi presso il re Pandione, suo suocero, e comunicargli il desiderio della figlia, sua sposa, sperando di ottenere da lui il permesso di condurre con sé in Tracia la giovane sorella. Mentre fa la richiesta al re, appare Filomela sfoggiando abbigliamenti splendidi e in tutta la sua folgorante bellezza. Appena la vede, Tereo s’infiamma, «come quando si mette il fuoco sotto le stoppie bianche /o si bruciano le foglie secche e le erbe dentro il fienile», scrive Ovidio nelle “Metamorfosi” narrando questo mito. A nome di sua moglie il barbaro tracio supplica il re con tale insistenza da ottenere che Filomela s’imbarchi con lui alla volta della Tracia per esaudire il desiderio della figlia lontana, ma al momento della partenza il genitore aggiunge una preghiera:
«Io te l’affido e ti prego, per il tuo onore e la nostra / parentela e per gli dei, di proteggerla con amore paterno / e di rimandarmela a consolare la mia vecchiaia / prima che potrai: per me l’attesa sarà sempre lunga».
Seguiamo il racconto di Ovidio:
«Quando Filomela si fu imbarcata sulla nave dipinta / e i remi battevano il mare e la terra si allontanava, / Tereo gridò: “Ho vinto, con me viene il mio desiderio!” / Esulta quel barbaro e con rammarico rimanda / il proprio piacere, ma da lei mai un attimo distoglie gli occhi».
Compiuto il viaggio e approdato nella sua terra, Tereo trascina la ragazza pallida e tremante in un capanno isolato tra i boschi; lei chiede dove sia sua sorella, ma l’infame manifesta subito le sue intenzioni. La giovane, invoca invano suo padre e gli dei. Preferirebbe morire piuttosto che subire la violenza di quel bruto, trema, ma non ha scampo «come un’agnella azzannata da un lupo» o «una colomba tra gli artigli di un rapace». Poi dopo lo stupro si strappa i capelli, grida: «Che cosa hai fatto barbaro crudele!» e pronuncia parole che annunciano la futura vendetta per un crimine commesso contro ogni rispetto dei vincoli familiari:
«Ma se i celesti scorgono tutto ciò, se il loro potere /conta qualcosa, se non tutto col mio onore è perduto, / un giorno ne sconterai tu la pena. Gettato al vento il pudore, / io stessa racconterò le tue gesta; se concesso mi sarà, / andrò tra la gente; se prigioniera sarò tenuta nei boschi, / lo griderò ai boschi e i sassi chiamerò a testimoni. / Il cielo udrà la mia voce e l’udranno gli dei, se lì ve ne sono! »
Queste parole esasperano la ferocia dello stupratore che comincia a temere che si diffonda notizia del suo crimine, allora sguaina la spada e taglia quella lingua che continua a pronunciare parole di disprezzo e indignazione. Non la uccide perché intende continuare ad abusare di lei.
Nonostante l’efferato atto compiuto, Tereo ha il coraggio di tornare alla reggia e raccontare che Filomela è morta durante il viaggio e avvalora con il pianto quella notizia. Addolorata, Procne si veste a lutto, innalza un sepolcro che rimane vuoto, offre alla morta sacrifici espiatori, piange per la sventurata sorella.
Trascorre un anno, Filomela è sola, è muta, non può neanche parlare con la serva che provvede ai suoi bisogni. Muri di pietra sono stati innalzati intorno alla capanna per impedirle di uscire, una guardia sorveglia l’ingresso. Ma l’infelice benché distrutta dal dolore trova il modo di comunicare la violenza subìta, tessendo con filo rosso sul bianco di una rozza tela la sua denuncia. La serva si presta a farla recapitare alla sorella, credendo sia un semplice dono.
Ricevuto il messaggio Procne frena l’ira alla presenza del marito e medita vendetta. Una notte, approfittando di una festa notturna in onore di Bacco, esce fingendo di partecipare a un’orgia di donne, corre nei boschi, sfonda la porta della prigione e porta con sé Filomela camuffandola, coprendole il viso con fronde d’edera secondo le usanze di una festa bacchica, e la introduce segretamente nel suo palazzo. Procne consola la sorella che piange e giura chiamando a testimoni gli dei di aver subìto una violenza, non di aver accondisceso al tradimento:
«Non è tempo di lacrime» dice, «questo è il tempo di agire / col ferro o con qualcos’altro, se ti viene in mente, più duro / del ferro. Quanto a me, sono pronta a qualsiasi empietà. / Mi sento di mettere a fuoco con le torce il palazzo reale, / e di gettare nel rogo Tereo, l’autore del crimine, …»
Procne continua a dire tutto ciò che di orribile si sente pronta a compiere, ma l’arrivo del figlioletto Iti imprime la svolta decisiva ai loro progetti. Privare il padre dell’unico figlio è la vendetta più atroce ed è ciò che quel bruto si merita. È molto patetica l’uccisione del bambino che tende le braccia verso di lei, ma Procne non ha nessuna esitazione e non distoglie nemmeno lo sguardo. Ferisce mortalmente il figlio con una lama ma Filomela lo colpisce anche alla gola. Vuole essere complice della sorella nella vendetta. Con crudo realismo Ovidio narra quello che le due sorelle compiono dopo:
«Dilaniarono le membra ancora vive che conservavano / un po’ di respiro. Una parte bollì nei crateri di bronzo, / una parte cigolò sugli spiedi; la casa gronda di sangue. / A questa mensa Procne invita l’ignaro Tereo, / fingendo che fosse un rito della sua terra, a cui soltanto il marito / può accostarsi, e perciò allontanò servi e amici».
Quando Tereo ha consumato il suo orrendo pasto, cerca il figlio e chiede dove sia. Le risponde Procne: «L’hai dentro, quello che chiedi». In quell’istante davanti all’uomo che non ha ben compreso la risposta appare Filomela con la testa del bambino ucciso. Tereo urla vorrebbe squarciarsi lo stomaco per eliminare la carne ingoiata, poi piange e chiama se stesso «sepolcro del figlio», infine si scaglia con la spada contro le due sorelle che improvvisamente gli dei salvano mutandole in due uccelli: una rondine e un usignolo, Secondo la tradizione greca, Procne diventa l’usignolo che lamenta l’uccisione del figlio Iti, mentre Filomela si trasforma nella rondine che con la lingua tagliata può emettere soltanto un suono sgradevole. Tereo subisce la mutazione in upupa, uccello dal becco smisurato come la punta di una lancia. Nella letteratura latina, invece, Filomela è l’usignolo e Procne la rondine.
Ovidio che ha narrato questo mito nel libro VI delle “Metamorfosi”, non dà indicazioni su quale uccello ognuna delle due figlie di Pandione è mutata, dice semplicemente:
«L’una fuggì nel bosco (l’usignolo), l’altra sotto il tetto (la rondine)».
Questa di Procne e Filomela è una leggenda cupa ed atroce. Il mito è molto antico e ha subìto continue riscritture in contesti e generi letterari differenti. Fin dai testi più antichi, quelli di Omero, si parla di un infanticidio, ma si accenna a una sola madre che poi si muta in uccello dal canto lamentoso. Nessuna traccia di una sorella, e dunque di una tragedia familiare, né del banchetto in cui la donna avrebbe imbandito al marito le carni del figlio.
Con Igino nelle “Favole” troviamo la presenza delle due sorelle, con una diversa storia: Tereo finge che Procne sia morta, la nasconde, la tiene prigioniera, poi chiede al suocero di poter sposare Filomela. Quando Procne viene a scoprire l’inganno, le due donne si coalizzano e uccidono il figlio Iti. Con Igino c’è l’introduzione dell’orrido banchetto e quello della solidarietà tra donne nel momento della vendetta.
Anche Sofocle nella tragedia “Tereo”, narra che le due sorelle, dopo aver ucciso Iti, ne imbandiscono le carni all’ignaro Tereo in un banchetto. Ma Sofocle condanna tutti i personaggi del dramma. Leggiamo in un frammento:
«Lui, è un folle! Ma esse hanno agito anche più follemente, punendolo
per mezzo della violenza. Poiché qualsiasi mortale che sia infuriato per i propri torti e usi un farmaco peggiore del male è un medico che non comprende la malattia».
Dopo Sofocle molti altri autori greci e latini ricordano queste vicende con accenni più o meno diversificati fino ad arrivare ai nostri massimi poeti Dante e Petrarca che non raccontano la vicenda nel suo aspetto più atroce, ma accennano soltanto alla trasformazione delle due sorelle in uccelli.
Dante nel nono IX del “Purgatorio” si attiene alla versione di Filomela mutata in rondine:
«Nell’ora che comincia i tristi lai / la rondinella presso alla mattina / forse a memoria de’ suoi primi guai… »
e qualche canto più avanti, mentre si trova davanti a esempi di iracondia (“ira mala”), si attiene alla versione di Procne mutata in usignolo, ma designa l’atto orribile compiuto da lei «empiezza»:
«Dell’empiezza di lei, che mutò forma / nell’uccello che a cantar più si diletta»
Il Petrarca rievoca le due tristi sorelle in uno dei suoi sonetti più noti, il XIII del “Canzoniere”. Il poeta sembra qui vedere Procne trasformata in rondine e Filomela in usignolo dal canto triste e lamentoso:
«Zefiro torna e il bel tempo rimena /e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia, /e garrir Progne e pianger Filomena / e primavera candida e vermiglia».
Nota: nell’immagine Procne e Filomela mostrano la testa del figlio a Tereo di Paul Rubens, Museo Del Prado (Madrid)
Recent comments
12 years 5 days ago
12 years 5 days ago
12 years 5 days ago
12 years 6 days ago
12 years 6 days ago
12 years 6 days ago
12 years 6 days ago
12 years 6 days ago
12 years 1 settimana ago
12 years 1 settimana ago