di Giulio Calella - Jacobin Italia.

Appena uscito dalla sfibrante crisi seguita al risultato delle elezioni politiche, il Pd ha la sua grande occasione per rinnovarsi e far parlare di sé con le primarie a segretario del partito, che si svolgeranno in primavera subito prima delle elezioni europee.

Al momento ci sono ben sette candidati tra cui almeno tre – dopo il voto preliminare tra gli iscritti – arriveranno al voto finale aperto anche ai non aderenti al partito. Un fiorire di candidati che in realtà pare fatto apposta per garantire che nessuno ottenga il 51% dei consensi e abbia la possibilità e l’autorevolezza di poter dirigere il partito. Tantomeno che emerga un progetto chiaro di opposizione al governo Salvini-Di Maio.

Ma l’uomo forte scelto da oltre cinquecento sindaci e cento parlamentari del Pd – oltre che in sordina dall’ex premier Matteo Renzi – per rilanciare la sinistra e scongiurare questo rischio è Marco Minniti, ex Ministro dell’interno che con ogni probabilità sfiderà, nel voto finale a tre, il segretario uscente Maurizio Martina e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.

Per rifare la sinistra servono parole di destra

«La parola ‘Spezziamo-le-braccia-ai-migranti’ non possiamo lasciarla alla destra. Se noi non picchiamo i neri, vince la destra che vuole picchiare i neri».

Maurizio Crozza fa una caricatura ma, come spesso capita al comico genovese, coglie un punto politico, anticipando le tesi che ritroviamo nel libro di Marco Minniti appena uscito per Rizzoli: Sicurezza è libertà.

Il leitmotiv è proprio quello: non lasciare alla destra parole e politiche che sembrano proprio di destra. Tale refrain riflette del resto ciò che l’ex ministro ha fatto in ogni sua esperienza di governo degli ultimi vent’anni.

Il libro inizia parlando della paura che attraversa la società, senza azzardare alcuna analisi sociale o politica sulle cause, ma identificandola come un fatto a cui non può rispondere solo mostrando che negli ultimi trent’anni tutti i reati di strada sono diminuiti. E si chiede: «Se viviamo in un mondo ossessionato [dalla paura], e lo sappiamo, qual è il compito della sinistra riformista, qual è la sua funzione storica per arginare questa ossessione? […] Ignorarla, far finta che non esista? Oppure affrontarla e provare a vincerla?».

Per vincerla, è la tesi del libro, la priorità risiede nella parola “Sicurezza”, l’unica a contenere in sè anche la parola “libertà”, che deve diventare centrale nel vocabolario della sinistra italiana ed europea perchè – sostiene – quella paura va ascoltata e solo attraverso quella magica parola la sinistra può dare risposte ai soggetti più deboli.

Se Öcalan ti cambia la vita

All’elaborazione sulla centralità di questo concetto Minniti è arrivato col tempo. In realtà, racconta, «non c’era nulla nella mia formazione che alludesse alle politiche di sicurezza». Aveva studiato filosofia, poi era divenuto militante e poi funzionario del Partito comunista italiano prima nella Federazione giovanile, poi dirigendo la sezione di Gioia Tauro e successivamente la federazione calabrese del partito. Era entrato nella segreteria nazionale nei primi anni Novanta, dopo il cambio di nome in Partito democratico della sinistra, divenendo deputato e successivamente sottosegretario alla presidenza del consiglio del governo presieduto da Massimo D’Alema, al quale in quel periodo era assolutamente fedele. Ed è solo allora che – spiega – «mi sono trovato a svolgere un ruolo senza sapere perchè».

Il caso che senza un perché lo porta ad appassionarsi al tema della sicurezza è quello di Abdullah Öcalan, il leader marxista rivoluzionario curdo che ancora oggi ispira dal carcere le lotte del suo popolo, recentemente giunte agli onori della cronaca del nostro paese perchè in prima linea nella battaglia sul campo contro l’Isis, ironia della sorte proprio l’organizzazione terroristica che Minniti utilizza come espediente per giustificare le attuali politiche securitarie.

Era il 12 novembre del 1998, il nuovo governo D’Alema – il primo presieduto da un ex comunista – si era insediato da un mese quando Öcalan arriva in Italia e si consegna alla polizia, convinto di avere tutte le carte in regola per ottenere l’asilo politico nel nostro paese. Pendeva su di lui in Turchia il rischio di una condanna a morte, contraria alla nostra Costituzione. Il governo in cui convivevano quelle che Minniti chiama «le due C», ossia Armando Cossutta e Francesco Cossiga, entra subito in fibrillazione incalzato da sinistra a dare l’asilo politico e il sostegno alla lotta del popolo curdo e da destra a espellere l’ospite poco gradito agli amici turchi e statunitensi. D’Alema spera prima di togliersi la patata bollente grazie a un mandato di cattura proveniente dalla Germania (che però non fu mai notificato dall’allora primo ministro Gerhard Schröder per evitare tensioni con la numerosa comunità curda del proprio paese) e poi rifiuta di concedere l’asilo politico, nonostante il 16 dicembre ‘98 la quarta sezione della corte penale di appello definisca Öcalan un cittadino libero di muoversi nel nostro paese, revocando l’obbligo di dimora e il divieto di espatrio che gli era stato inizialmente imposto. Minniti accenna a non ben specificate pressioni internazionali «di tutti i tipi» e al conseguente impegno da parte del governo a far accettare allo scomodo ospite l’idea di lasciare volontariamente il nostro paese.

È in questa operazione che, con un orgoglio e un’eccitazione che non riesce a trattenere nelle pagine, Minniti racconta il ruolo centrale che si trova a ricoprire e l’ebbrezza per la sua prima missione segreta di sicurezza nazionale. Si incarica di gestire in prima persona l’operazione evitando qualsiasi fuga di notizie, senza avvisare nemmeno il presidente del consiglio sulla data e l’ora in cui Öcalan sarebbe stato imbarcato su un aereo per lasciare l’Italia, e mentendo con orgoglio anche al governo statunitense sulla non imminenza dell’operazione.

Il fatto che pochi giorni dopo il leader curdo sia stato catturato dagli agenti dei servizi segreti turchi in Kenya, abbia rischiato la pena di morte e da allora sconti un ergastolo in isolamento nel carcere di massima sicurezza nell’isola di Imrah in Turchia, è un fatto che viene citato solo marginalmente e attribuito a pura imprudenza di Öcalan.

Dopo questa appassionante operazione Minniti assocerà per sempre la sua immagine alla “sicurezza”. Nel 2000 ricopre il ruolo di sottosegretario al ministero della difesa del governo Amato, nel 2006 è viceministro dell’interno nel governo Prodi, nel 2013 sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri con delega ai servizi segreti nel governo Letta, nel 2014 ha lo stesso ruolo nel governo Renzi e infine nel 2016 è Ministro dell’Interno nel governo Gentiloni. È stato lui, come scrive orgoglioso nel libro, il primo ex comunista a occuparsi di intelligence nel nostro paese.

Colpisce però la rimozione di un elemento biografico macroscopico. Oltre alla formazione universitaria in filosofia – con una tesi su Cicerone – e a quella politica, Minniti ha avuto anche una famiglia. Per di più una famiglia molto numerosa, visto che il padre aveva ben otto fratelli maschi. Il papà era generale dell’Areonautica militare e tutti e otto i suoi fratelli – tutti e otto! – erano ufficiali dell’esercito. Probabilmente la famiglia gli ha solo lasciato la passione per gli orologi dell’aereonautica (di cui pare faccia collezione), oltre al desiderio di bambino di fare il pilota. Però dopo aver vissuto tutta la propria infanzia tra le divise dell’esercito ha continuato per tutta la vita a occuparsi di forze armate. E oggi può raccontarci la sua emozione per il picchetto d’onore riservatogli dai marines durante una sua visita al Pentagono.

I bei ricordi della guerra in Kosovo

Oltre al caso Öcalan, c’è un altro evento appassionante in quell’esperienza fondativa del governo D’Alema. «Una delle ragioni – racconta – per cui dopo la crisi del governo Prodi non si andò direttamente alle elezioni, come forse sarebbe stato più giusto fare, fu proprio garantire la possibilità di un’attività militare nei Balcani […] L’Italia diventò l’epicentro di un’iniziativa militare. La prima a cui il nostro paese partecipava dalla fine della Seconda guerra mondiale». Una guerra di cui Minniti ha tanti bei ricordi, tanto da definirla «una sorta di esame di laurea per il nostro approccio dipeace keeping nel mondo». Certo, marginalmente ammette che ci fu qualche «effetto collaterale» (leggi: morti civili) ma si consola subito con il fatto che non ne furono direttamente protagonisti i militari italiani. Una guerra giusta insomma, a differenza di quella condotta poi in Afghanistan e Iraq. Quell’intervento invece è definito un’«idea sbagliata» ma solo perché «frutto di un illuminismo radicale» che aveva giurato di portare i propri valori in Medio Oriente senza riuscirci.

Ciò che Minniti ricorda divertito di quei giorni è soprattutto il suo muoversi continuamente tra le «due C», cosa che «si rivelò una straordinaria scuola di politica e di esercizio dell’arte della mediazione. Anche se poi, con una delle due, Francesco Cossiga, si costruì un rapporto di stima e affetto destinato a durare nel tempo». Nonostante l’apparente radice comune insomma, non era tanto il vecchio comunista Cossutta ad attrarlo ma il vecchio democristiano ministro dell’interno negli anni Settanta, famoso per la repressione violenta dei movimenti e uomo forte degli apparati dello Stato per tutta la prima Repubblica. Non a caso proprio insieme a Cossiga, nel 2009, Minniti fonderà la Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis) luogo di analisi dei principali fenomeni connessi alla sicurezza nazionale interna ed esterna, all’evoluzione dei modelli di difesa militare e di intelligence nazionale. Fondazione a cui ha dato vita in compagnia di un altro personaggio che stima molto: Gianni Letta, lo storico braccio destro di Silvio Berlusconi che proprio in questi giorni ha presentato con lui il suo libro.

Sono per l’accoglienza ma…

È sempre stato scaramantico, ripete più volte Minniti nel libro, tanto da tentennare quando Enrico Letta (il nipote dell’amico Gianni) gli chiede di firmare l’incarico di sottosegretario proprio in un venerdì 17.

Ma la scaramanzia non gli impedisce di fare delle profezie: «Il futuro delle democrazie europee dipende dal controllo dei flussi demografici». Non si tratta per lui del timore della “sostituzione dei popoli”, nello stile dell’attuale Ministro Salvini, ma sempre di non lasciare le parole di destra alla destra, nemmeno quelle che delineano una guerra tra poveri, tra gli ultimi e i penultimi della nostra società. Anzi, uno dei punti chiave nel libro è il concetto per cui c’è «il diritto di chi è accolto e il diritto di chi sta accogliendo».

«Il 10 febbraio 2017 – scrive – presentai nel corso dello stesso consiglio dei ministri due decreti legge: uno sull’immigrazione e l’altro sulla sicurezza urbana. Quella contemporaneità non era casuale». L’obiettivo di accorciare i tempi per le risposte ai richiedenti asilo era per Minniti la risposta a «una violazione di un diritto dei richiedenti asilo, che meritavano tempi più ragionevoli, ma anche del diritto dei cittadini che li ospitavano nelle loro comunità, anche loro meritevoli di un orizzonte certo per la loro accoglienza». Minniti non osa mai mettere in discussione la redistribuzione della ricchezza e dei diritti, e non si sogna nemmeno di fare un gioco di parole e far diventare la “sicurezza” una “sicurezza sociale”. Non vuole disturbare chi occupa i piani più alti della società, devono essere messi in tensione i diritti degli ultimi e quelli dei penultimi: «Noi dobbiamo stare vicini a chi ha comprato una casa con i sacrifici di una vita o non può permettersi di pagare un affitto più alto in un quartiere più sicuro». Da qui l’idea di dare potere ai sindaci di applicare i Daspo urbani a chiunque venga considerato “indecoroso”, allontanando dai quartieri anche chi non ha commesso alcun reato.

Minniti del resto è a favore dell’accoglienza dei rifugiati ma non dei “migranti economici”, ossia dei poveri. Occorre rispettare «il gioco della domanda e dell’offerta di lavoro», aumentare i rimpatri di chi un lavoro non ce l’ha (che rivendica siano saliti del 19% durante il suo ministero), bloccare gli arrivi con accordi direttamente con la Libia (e qui il dato che rivendica è un calo dell’85%). Certo, di passaggio cita il problema dei centri di detenzione libici famosi per le violazioni dei diritti umani ma non può che rimandare la risposta a un altro momento: «Possiamo dire che da quel momento siano stati rispettati totalmente i diritti umani in Libia? È una questione delicatissima sulla quale nemmeno per un attimo abbiamo cessato di sentirci impegnati in prima persona». Punto e a capo.

Il libro chiude con i giorni di Macerata, quelli in cui il militante della Lega Luca Traini spara a casaccio su persone nere di passaggio dopo la notizia dell’omicidio di Pamela Mastropietro. «Avevo visto Traini all’orizzonte, per questo ho fermato gli sbarchi», dichiarò in quei giorni il visionario ministro. E provò a vietare la manifestazione antirazzista e antifascista in cui sfilarono comunque migliaia di persone.

Proprio quel corteo così esplicitamente antifascista, e non le politiche messe in campo fino a quel momento dal suo governo, fu per Minniti il presagio che alle elezioni avrebbe vinto la Lega.

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