di Amedeo Gasparini

(Pubblicato su theWise Magazine)

 

L’intento di Tempesta (Rizzoli 2024) di Antonio Funiciello è di presentare Giacomo Matteotti come “uomo vivo”, piuttosto che ricordo o oggetto di un caso, si dice, mai veramente chiuso. Raccontare cioè il sindacalista, l’amministratore locale e il leader socialista, profondamente legato ai principi e alla legalità, un riformatore. La memoria di Matteotti è spesso relegata a quella di un martire, immerso in un antifascismo prematuro e sfortunato. Funiciello inizia con il delineare Matteotti come una persona critica su molti fronti, sempre insoddisfatta. Attraverso una serie di brevi capitoli, l’autore esamina episodi chiave e momenti significativi della vita del politico socialista. Con l’arrivo della guerra, la notorietà di Tempesta – era noto con questo nome – crebbe notevolmente. Era così contrario alla partecipazione militare che suggeriva l’idea di insurrezioni popolari come protesta contro l’entrata nel conflitto. «Alla violenza degli eserciti borghesi pensò d’opporre quella rivoluzionaria del proletariato», ricorda Funiciello.

Alle volte Matteotti è visto e ricordato come un emarginato o un escluso. Tuttavia, è stato un uomo di grande successo sia nella vita personale che politica. Giocoso, appassionato della vita e del suo lavoro, oltre ad essere un abile pubblicista e propagandista. Viaggiava in tutta Europa, parlava diverse lingue e aveva una vasta rete di contatti a livello continentale. La sua reputazione ha subito l’influenza del ritratto di Piero Gobetti, spesso citato da Funiciello nel libro, che lo dipinse come un estraneo nel suo stesso paese, un socialista non amato dai suoi compagni. Funiciello contrasta questa tesi, presentando Matteotti come un uomo affabile, rispettato e pieno di amici. Era un turatiano, con vedute riformiste e gradualiste. Amava l’arte, il teatro e il cinema. I socialisti di sinistra, inclusi i massimalisti da cui sarebbero emersi alcuni futuri fascisti come Benito Mussolini, lo criticavano per la sua visione del buon governo.

Filippo Turati lo aveva scelto come suo delfino. «Ridurlo a un santino senz’anima dell’antifascismo, dimenticando o nascondendo il suo pensiero dietro mille frasi fatte, è un’altra offesa alla sua intelligenza, prima ancora che alla sua memoria […]. La sua intransigenza non è moralistica […]. Matteotti è un riformista perché incontentabile è la sua fame di riforme». Matteotti aveva fede nel potere delle istituzioni democratiche e nel rispetto delle regole tipiche dello Stato liberale, ereditate dal progetto risorgimentale. Aveva una forte avversione per i demagoghi e i populisti, detestava chi cambiava posizione con facilità e condannava i fascisti e pure i comunisti. Funiciello sottolinea che Matteotti era ossessionato dai fatti, dai bilanci e dall’integrità. Nonostante la sua vita fosse stata breve, è stata così ricca di esperienze da sembrare quasi una vita intera. Funiciello esplora anche la figura familiare di Matteo Matteotti, mentore e primo amico di Giacomo.

La sua morte precoce fu una perdita devastante per Giacomo. La ricchezza della famiglia divenne un punto di attacco da parte dei nemici politici per screditare il leader socialista. Si noti che Gobetti ammirava profondamente Matteotti, ma tra i due c’erano notevoli differenze in termini di formazione, convinzioni e maturità. «Matteotti non fu mai popolare», scriveva Gobetti su Rivoluzione Liberale nel 1924. Nonostante però Matteotti assumesse spesso posizioni chiare quanto divisive, godette di un grande consenso personale durante la sua carriera. Apprezzava la politica a livello locale e aveva un affetto genuino per gli italiani, trascorrendo più tempo tra i polesani che a Roma. Nei suoi ultimi cinque anni, Matteotti era più riconoscibile come figura politica a Rovigo che nella capitale. Il Polesine era una delle regioni più povere d’Italia, con un tasso di analfabetismo che toccava oltre il sessanta per cento.

Matteotti scelse di dedicarsi attivamente alle lotte tra i braccianti e gli agrari della sua zona. «Anche Matteotti nel Biennio rosso compirà errori, sottovalutando il terrore prodotto dalle pratiche violente di lotta politica adottate a sinistra», ricorda Funiciello. In continuazione con il laburismo inglese, Matteotti sfidava i governi conservatori nella gestione dello Stato e nell’ambito di maggiore efficienza. Secondo l’autore, l’efficienza è fondamentale per sviluppare una proposta politica alternativa. Matteotti promosse la lotta contro i monopoli, criticò le tariffe doganali che limitavano gli scambi commerciali e propose riforme per potenziare la competitività dell’economia italiana. Matteotti «vede lo Stato borghese infiacchirsi e sfibrarsi non solo nella sua capacità di competere e accrescere la ricchezza nazionale, ma anche nella sua indolenza ad affrontare riforme sociali essenziali». Nelle sue battaglie parlamentari, Matteotti si dedicò con determinazione alla lotta contro l’analfabetismo, all’estensione dell’obbligo scolastico e alla costruzione di nuove scuole.

Funiciello ricorda che l’antifascismo matteottiano è anzitutto una reazione legalitaria. Ma è vero anche che «l’antifascismo di Matteotti è la reazione di un socialista riformista che vede annichilite, nel terrorismo fascista e nel dispotismo mussoliniano, non solo la prospettiva socialista che gli è cara, ma anche la prassi liberaldemocratica e tutte le libertà costituzionali entro le quali ha accettato di collocarla». All’avvento del fascismo la maggior parte dei liberali si lasciò placidamente catturare dalla rete del suo disegno criminoso. «Tutt’altro che moralistica, l’intransigenza verso il fascismo di Matteotti è invece legalitaria, perché centrata sulla difesa dello Stato di diritto». L’antifascismo legalitario, centrato sul primato della legge, sarà la base sulla quale i padri costituenti avrebbero poi costruito la nuova Repubblica nel Dopoguerra. In questo senso, Matteotti può essere considerato un padre della patria.

«Sarebbe impossibile pensare la nostra Repubblica senza il giubbotto di salvataggio dell’antifascismo e Matteotti è, forse, il primo a trasformare quel giubbotto in una specie di seconda pelle […]. L’eredità perduta di Giacomo Matteotti è quella del suo socialismo riformista. Se la sua grande vittoria è l’affermazione dell’antifascismo costituzionale, la sua grande sconfitta è l’annichilimento della sua proposta politica». Oggi, i pessimisti dicono che il pensiero politico di Matteotti però è andato perduto. «Altre culture politiche a sinistra hanno, nel dopoguerra, occupato la scena: quella comunista, anzitutto, e quella cattolico democratica; quella socialista è riuscita a competere in fantasia e intelligenza con le due maggiori solo quando ha recuperato il respiro autonomista e l’inquietudine liberale di Turati e Matteotti. Non avere avuto, a sinistra, un Partito socialista dominante, come ovunque in Europa, è stata la grande anomalia della storia d’Italia e il segno di maggiore debolezza culturale della nostra democrazia».

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