di Roberto Bertoni.

A nessun leader politico, neanche a Berlusconi probabilmente, abbiamo mai concesso e perdonato ciò che abbiamo concesso e perdonato negli ultimi quattro anni a Matteo Renzi. E non mi riferisco solo al suo partito, ormai ridotto nelle condizioni che tutti sappiamo e con una rappresentanza parlamentare composta, per lo più, da suoi fedelissimi, dopo che sono stati passati a fil di spada non solo gli esponenti delle minoranze ma persino coloro che semplicemente non volevano altre avventure ed eccessi; mi riferisco soprattutto al nostro mondo, quello dell'informazione, dove l'uomo di Rignano viene ancora presentato come l'unica alternativa possibile ai tremendi populisti che ormai, con buona pace di una certa intellighenzia liberal, nel palazzo ci sono entrati con tutte le scarpe.

Mi riferisco, poi, ai corsivisti dei grandi giornali, i quali ancora non sembrano essersi accorti del fatto che non è stato mandato a casa il 4 dicembre 2018 e definitivamente salutato con una prece lo scorso 4 marzo solo perché antipatico e arrogante, che pure non sono difetti da poco, ma perché le sue politiche si sono rivelate sbagliate e dannose per il Paese.

Mi riferisco a un certo mondo dei salotti televisivi, composto per lo più dagli stessi che scrivono sui giornaloni, il quale continua a rammaricarsi per la difficoltà di riuscire a formare un governo, il che tradotto significa: peccato che non possa nascere un altro bell'esecutivo di larghe intese fra PD e Forza Italia, partiti ormai contigui e complementari, per non dire pressoché identici.

Mi riferisco all'accondiscenza di quanti ancora si ostinano a compiere dotte analisi sulla stagione che si è appena conclusa (si spera) senza partire dal presupposto che si è trattato di un sostanziale fallimento: nel metodo, nei risultati e per le conseguenze che essa ha provocato all'interno della sinistra italiana e nel Paese.

E allora delle due l'una: o siamo al cospetto di un personaggio ipnotico, in grado di sopire ogni critica e di addormentare anche la più piccola forma di protesta o siamo in presenza di un sortilegio. Non si spiega altrimenti questa sorta di Sindrome di Stoccolma che si è impadronita da anni della sinistra italiana o di quel che ne resta: un personaggio che ha sbagliato tutto ciò che c'era da sbagliare, che si è alienato le simpatie di sindacati, minoranze interne, società civile e di tutti gli innumerevoli ambienti un tempo vicini e ben disposti nei confronti del fronte progressista, questo soggetto è ancora oggi sulla breccia, pronto a dettare legge e a proporre i nomi dei suoi sodali per le poche cariche cui può ambire il PD dopo il disastro cui lo ha condotto il nostro eroe nel quadriennio in cui è stato segretario.

L'idea, poi, di chiudere pregiudizialmente all'ipotesi di un dialogo con il M5S, puntando sullo sfascio del Paese o, peggio ancora, su un'alleanza fra la compagine guidata da Di Maio e la Lega di Salvini è oltre i limiti dell'assurdo: qualcuno spieghi cortesemente allo stratega toscano e al suo entourage che, piuttosto che accettare una prospettiva del genere, Di Maio farebbe saltare il banco, tornerebbe alle urne e a quel punto, probabilmente, avrebbe i numeri per governare da solo mentre del PD non rimarrebbe nemmeno il simbolo.  

Quanto all'idea di un partito renziano à la Macron, purtroppo, non è da escludere, data la nota concezione di sé che ha il personaggio in questione: qualcuno che gli vuole bene, tuttavia, dovrebbe  metterlo al corrente del fatto che lo schema che ha condotto il giovane enarca francese alla guida dell'Eliseo può funzionare solo in un sistema presidenziale o semi-presidenziale e, soprattutto, solo se i soggetti cosiddetti "anti-sistema" non sono due bensì uno, come per l'appunto avviene in Francia, perché altrimenti è ovvio che si saldino (come si verifica puntualmente in tutti i ballottaggi delle Amministrative, in cui il PD perde ormai con regolarità svizzera) o che si alleino implicitamente, dando vita ad un nuovo bipolarismo fra di loro e confinando le sedicenti forze riformiste ai margini.  

Capisco che il nostro sia un vedovo inconsolabile dell'Italicum e del pateracchio di riforma costituzionale in cui ogni tassello si teneva, fino a comporre uno stravolgimento dell'assetto politico e istituzionale del nostro Paese che, per fortuna, abbiamo sventato; capisco che, da quel momento in poi, sia accecato da un desiderio di rivincita senza confini; capisco che provi invidia per i coetanei Tsipras e Macron che, a differenza sua, si sono messi in gioco anziché arrivare al potere tramite una manovra di palazzo; comprendo il suo dramma umano ma sarebbe anche ora che si desse una calmata.

L'accordo fra il M5S e un PD derenzizzato costituisce, infatti, l'unico argine possibile al dilagare di un centrodestra a trazione lepenista, a un governissimo con tutti dentro che, non vedendo praticamente nessun partito all'opposizione, renderebbe difficile persino far partire le commissioni parlamentari e varare le nomine degli organi di garanzia e a un rapido ritorno alle urne che rischierebbe di far sprofondare il nostro Paese in una spirale weimariana che, se un po' ho imparato a conoscere Mattarella, è lo spettro peggiore per l'inquilino del Colle nonché l'incubo che farà di tutto per scacciare.

Affinché si creino le condizioni per un accordo che abbia alla base il reciproco buonsenso e l'accantonamento dei punti più urticanti e, sinceramente, demagogici delle due compagini, tuttavia, è necessario che i renziani si prendano in blocco una lunga pausa di riflessione, che comprendano di aver smarrito il contatto con la Nazione e che la smettano di perseguire una linea politica che conduce dritti al disastro, in una sorta di "tanto peggio, tanto meglio" di leniniana memoria.

Quanto agli altri esponenti del centrosinistra, è bene che si liberino anche della sindrome di "Ecce bombo" che sembra averli colpiti. Perché va bene che ricorre il quarantesimo anniversario dell'uscita del capolavoro di Moretti, va bene che ha segnato una generazione e anticipato molti dei temi che hanno caratterizzato i quattro decenni successivi, va bene tutto, ma quest'indeterminatezza, questo "vado o non vado e se vado sto in disparte", questo non sapere mai che pesci prendere, questo "faccio cose, vedo gente", questo intreccio fra cinismo insulso e tardo gruppettarismo con i capelli ormai bianchi, insomma questa mancanza di nerbo e di passione civile e politica hanno francamente stancato. La sinistra, o quel che ne rimane, deve assumersi le proprie responsabilità, far tesoro della montagna di errori commessi negli ultimi venticinque anni, chiedere umilmente scusa per i cedimenti e il degrado morale che l'hanno contraddistinta, rinnovare in maniera radicale la propria classe dirigente senza lasciarsi prendere da smanie nuoviste e rottamatorie, studiare molto e in maniera approfondita, cosa che oggi quasi nessun dirigente sembra fare più, e partire dal presupposto che per tornare a governare, dopo i disastri combinati negli ultimi cinque anni, ci vorrà tempo. Chi punta, al contrario, su un rapido esaurirsi del bipolarismo anomalo venutosi a creare lo scorso 4 marzo, spiace dirlo, ma è meglio che non sia della partita, in quanto significa che non ha capito nulla dei rivolgimenti occorsi nella società italiana nell'ultimo decennio.

Infine, e questa è la "conditio sine qua non", servirà un partito solido, strutturato, dotato di sedi, mezzi d'informazione autonomi, una scuola di formazione e una sana gavetta per i futuri quadri; servirà, inoltre, un'ideologia, un pensiero moderno e autorevole e una sintesi più avanzata, e in grado di vivere in un rapporto dialettico maturo, fra la cultura cattolica e quella socialista. Il PD appartiene ormai al passato: non poteva funzionare e non ha funzionato, e se non si archivia alla svelta quest'esperienza niente potrà rinascere o avere ancora un senso, se non la mera gestione della crisi di un mondo e di quello che Moro definiva "lo sfascio del Paese". Sarà, in poche parole, una vittoria sulle macerie, se non l'ennesima, amarissima sconfitta.

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