La manovra, i rating e l’opposizione di Alfonso Gianni
Politica e finanza sono con il fiato sospeso in attesa della fatidica data di venerdì 17. Non c’entra qui la scaramanzia, quanto il fatto che in quel giorno, oltre all’esito dello scontro fra il ministro dell’interno e Cgil e Uil sul mantenimento dello sciopero generale, è atteso il pronunciamento della statunitense Moody’s sulla sostenibilità del debito pubblico italiano. Finora S&P e Fitch non hanno peggiorato il loro giudizio sul nostro paese. Un respiro di sollievo per lo sventato pericolo – per ora – da parte del governo Meloni.
Eppure, se si leggono con attenzione le note che riportano l’outlook delle due agenzie, è più d’uno il motivo che non dovrebbe fare dormire tranquilli i nostri ministri. Dopo la clamorosa incapacità di previsione della più grande crisi economico-finanziaria del secondo dopoguerra - quella del 2008 - sembra che le agenzie di rating abbiano cercato di affinare un poco i loro criteri. Soprattutto ricorrendo a formule previsionali più caute e dubitative. Del resto, come diceva Niels Bohr, è molto difficile fare previsioni specialmente per il futuro. Conviene quindi mettere le mani avanti e scrivere, come fa S&P, che sarà possibile “abbassare i rating nel caso in cui la traiettoria di bilancio del governo si discostasse significativamente dai suoi obiettivi. Anche un’attuazione solo parziale delle riforme strutturali … in particolare quelle legate all’erogazione dei fondi Ue … eserciterebbe una pressione al ribasso sul rating”.
La decantata stabilità del giudizio è quindi minata da una profonda instabilità, che ha i suoi fondamenti, oltre che nel peggioramento del quadro economico europeo e mondiale, nelle scelte politiche del governo Meloni. La sua legge di bilancio non è inutile o fiacca, come si è sentito dire. Anche se solo si trattasse di questo vorrebbe dire che si iscriverebbe in un cammino prociclico lungo il quale accompagnerebbe le mosse dei mercati senza intralciarle. Ma è molto peggio. Accanto alla continuità neoliberista con le leggi dei precedenti governi pur di diverso colore, compare una particolare cattiveria sociale e una pervicacia nella distruzione di ciò che resta del nostro welfare state, oltre all’evidente e drammatico ritardo nell’implementazione del Pnrr.
Il riferimento d’obbligo è alla sanità cui il governo dedica solo 3 miliardi in più, di cui una parte per alimentare le convenzioni con il privato al fine di accorciare le insopportabili liste di attesa del pubblico, inchiodando la spesa ai tradizionali bassi livelli per i due anni successivi, metà della Germania. Non c’è da stupirsi se l’Istat rileva che i ricchi vivono di più potendosi permettere di pagare nel privato quelle visite che fronteggiano le cause di morte più frequenti tramite la prevenzione e le diagnosi precoci. Sulle pensioni si vede quanto siano distanti le promesse della campagna elettorale delle destre rispetto a quanto deciso che non cancella ma peggiora la famigerata legge Fornero. E questo, ci dicono gli ultimi sondaggi, comincia a generare insoddisfazione anche tra l’elettorato che aveva premiato le destre.
Per questo, in assenza di una forte opposizione politica, l’iniziativa di mobilitazione del sindacato è decisiva ed è temuta. Da qui la nuova minaccia della precettazione di Salvini. In attesa del prossimo pronunciamento vale la pena di ricordare che in quello dell’agosto 2022, Moody’s oltre ad abbassare l’outlook da “stabile” a “negativo”, aveva sollevato tre questioni: le solite riforme strutturali mancanti (e visto cosa si intende per riforme non è un male), l’aumento dei costi dell’energia e l’ingente ammontare del debito pubblico. Nessuna delle tre questioni è stata risolta e neppure avviata. Ci si ballocca sulla diminuzione del costo del gas, ci si dimentica, o meglio si finge, che – come afferma Jeffrey Sachs – basta ben poco, visto la distruzione di Gaza che nessuno in Occidente vuole realmente fermare, perché la guerra assuma dimensioni regionali e più e quindi i prezzi dell’approvvigionamento energetico salgano alle stelle. D’altro canto, visto appunto il carattere prociclico della manovra e il mantenimento di tassi elevati, con il rischio di ulteriori aumenti, il debito non può che crescere, essendo la spesa sociale compressa già all’inverosimile. In più, l’Italia, a differenza di altri paesi Ue, non ha approfittato dei tassi bassi per allungare la durata dello stock del proprio debito ed è ora particolarmente esposta alla speculazione. Questo governo, più che da una forza intrinseca, è sorretto da una legge elettorale truffaldina e dall’assenza di una sinistra.
Fonte: il manifesto
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