di Anselmo Pagani.

Niccolò Macchiavelli: “Sono tanto semplici li uomini e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare”

Questa amara considerazione, risalente a circa mezzo millennio fa, risulta attuale anche ai tempi nostri, a conferma di quanto sia immutabile la natura umana.
A scriverla fu Niccolò Macchiavelli, nato a Firenze il 3 maggio del 1469 e giustamente considerato il “pater” della scienza politica moderna.
Di lui, Francesco Guicciardini disse che era "sempre stato ut plurimo extravagante di opinione dal comune et inventore di cose nuove et insolite", riconoscendogli dunque libertà ed originalità di pensiero, da interpretarsi qui in senso etimologico come “predisposizione ad uscire dagli schemi comuni”.
In un periodo di cambiamenti epocali che vedevano il passaggio dal Medioevo al Rinascimento con la conseguente riscoperta dell'Uomo che, quale "faber fortunae suae", tornava finalmente ad influire sul corso degli eventi, Machiavelli osservò le grandi innovazioni in campo politico, diplomatico e militare del suo tempo, analizzandole alla luce delle lezioni del passato e traendone insegnamenti politici universalmente validi, poi ripresi con grande successo nei secoli successivi.
A lui che aveva svogliatamente seguito i corsi di legge, abbandonandoli però alla vigilia della laurea, gli affari dello Stato fiorentino, diviso da sempre dalle lotte di fazione, interessavano molto più di codici e massime giurisprudenziali. Pertanto, quando gliene si presentò l’occasione nel 1498, accettò con entusiasmo la carica di segretario della neonata Repubblica.
Quel lavoro gli risultava congeniale perché lo metteva a stretto contatto coi più alti magistrati statali, col Gonfaloniere e i diplomatici stranieri, permettendogli di studiare col suo occhio smaliziato tutti i documenti riservati che quotidianamente finivano sul suo tavolo, tanto che col passare del tempo i maggiorenti repubblicani iniziarono a consultarsi con lui prima di prendere qualsiasi decisione importante, il che ne fece uno degli uomini più influenti della Firenze d’inizio Cinquecento.
Purtroppo per lui però, contestualmente col rientro in città dei Medici avvenuto nel 1512, la dura legge della spartizione della cariche impose non solo la sua rimozione dall’incarico, ma anche l’arresto perché sospettato di far parte di una congiura anti-medicea.
In galera, il nostro fu sottoposto a tortura, come lui stesso testimoniò scrivendo: "con sei tratti di fune in su le spalle / con un romor che proprio par che 'n terra / folgori Giove e tutto Mongibello", in una lettera in cui, seppur in un contesto tanto doloroso, non mancò di dar prova della sua proverbiale ironia lamentando che nella sua cella "menon pidocchi queste pareti / bolsi spaccati che paion farfalle / né fu una tanto puzza in Roncisvalle / quanto nel mio sì delicato ostello".
Nei 14 anni trascorsi al servizio della Repubblica, la sua attività politica e diplomatica era stata instancabile, inviato come fu in ogni parte d'Italia e all'estero a rappresentare Firenze, in un continuo peregrinare fra le Corti sia della nostra Penisola, che estere.
Ma chi lo impressionò maggiormente fu lo spregiudicato figlio di papa Alessandro VI, Cesare Borgia detto “il Valentino”, che Machiavelli conobbe personalmente, seguendolo per circa tre mesi nella campagna militare che sul finire del 1502 gli avrebbe consentito di sbarazzarsi, facendoli strangolare a tradimento dopo averli invitati ad un banchetto a Senigallia, degli ideatori della fallimentare “Congiura della Magione”.
Il ricordo del Valentino ispirò Machiavelli anche nella seconda parte della sua vita, quando nella tranquillità dell’esilio agreste di San Casciano lo prese a modello del “despota perfetto” che deve farsi temere dai sudditi, negando loro la libertà, ma concedendone le apparenze, perché solo in questo modo ha possibilità di conquistare e conservare un suo Stato personale, anche a costo di macchiarsi di nefandezze, dal nostro considerate legittime se compiute per accrescere la potenza ed estendere i propri domini.
Di fronte ad una Penisola frantumata in un pulviscolo di mini-Stati sempre in lotta fra loro, Machiavelli, molti secoli prima del Risorgimento, individuò i due i motivi per i quali l’Italia “non sia in quei medesimi termini” di forti Stati nazionali quali Francia, Spagna ed Inghilterra.
In primis, la presenza sul nostro territorio della Chiesa col suo imperio temporale, che ha sempre fatto di tutto per mettere gli uni contro gli altri, in modo che nessuno Stato fosse abbastanza forte per fagocitarla.
Poi, la mancanza di un Principe “virtuoso”, aggettivo che però per il nostro non aveva nulla a che vedere con la morale, ma significava piuttosto astuto, ambizioso e senza scrupoli, perché per tenere a bada il popolo egli avrebbe dovuto “parere pietoso, fedele, integro, religioso, ed essere; ma stare edificato con l’animo in modo che, bisognando non essere, possa e sappia mutare al contrario”.
Il perfetto Principe deve infatti essere anche un gran “simulatore e dissimulatore”, capace di mascherare la sua vera natura proprio perché “colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare”.
Questo fu il filo conduttore del “Principe”, il più famoso degli scritti machiavelliani e uno dei primi “best-sellers” della Storia, tradotto in moltissime lingue, letto e citato da generazioni di politici, tanto che personaggi come Carlo V d’Asburgo, il Cardinale de Richelieu, Luigi XIV di Francia e Napoleone Bonaparte lo tenevano sul loro comodino.
Con cinismo Machiavelli teorizzò per primo che gli uomini, più che ad essere governati, sono propensi ad obbedire a chi, gabbandoli, propone rimedi spiccioli alle necessità del momento, piuttosto che progetti a più ampio respiro.
Come dargli torto?

Immagine:“Ritratto postumo di Niccolò Machiavelli” di Santi di Tito, 1550 circa, Museo Civico di Palazzo Vecchio, Firenze

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