di Maria Pellegrini

Sullo schermo televisivo scorrono le immagini di Inácio Lula ex presidente del Brasile che ha tenuto in Campidoglio una lectio magistralis dal titolo “Partecipare per cambiare: impegno civile contro la povertà e la disuguaglianza”. Nel suo appassionato intervento il Presidente ha ricordato quanto la partecipazione civile e la mobilitazione di cittadine e cittadini, a partire dai giovani, sia necessaria per ogni cambiamento. Gli è stata consegnata la “Lupa Capitolina” come riconoscimento da parte della città di Roma per la sua esemplare battaglia volta a combattere povertà e fame in Brasile. Mentre seguo con ammirazione le parole di Lula e penso che si dovrebbe dare molto spazio sui media al suo discorso, sono distratta dalla straordinaria forza evocativa della statuetta con la Lupa che allatta i gemelli. Rappresentata in ogni forma artistica, nei bassorilievi, negli affreschi, nelle sculture, nelle monete, in tutte le epoche fino ad oggi, è l’emblema più conosciuto per la città di Roma, concepito come allegoria  della fondazione della città .

Il premio “Lupa capitolina” è la massima onorificenza romana assegnata a personaggi illustri particolarmente meritevoli, ai quali è consegnata una riproduzione in miniatura della statua originale.

L’originale è una scultura di bronzo, custodita nei Musei Capitolini, a dimensioni approssimativamente naturali. Era tradizionalmente considerata di fattura etrusca, secondo studi più recenti si tratterebbe, invece, di un bronzo di epoca medievale. Fu donata insieme a un gruppo di altre opere da Sisto IV alla città di Roma nel 1471, e in quegli anni sarebbero stati aggiunti i due gemelli, probabilmente opera di  Antonio del Pollaiolo

Tutti noi, romani e non, conosciamo fin dalla scuola elementare il racconto mitico dei due gemelli abbandonati sulla riva del Tevere, ma voglio riproporlo riportando un passo “d’autorità” dello storico augusteo, Tito Livio, nel primo libro della sua Storia di Roma:

”Credo che rientrassero in un disegno del destino tanto la nascita di una simile città quanto l’inizio della più grande potenza del mondo dopo quella degli dèi. La Vestale Rea Silvia, vittima di uno stupro, diede alla luce due gemelli. Sia che fosse in buona fede, sia che intendesse rendere meno turpe la propria colpa attribuendone la responsabilità a un dio, dichiarò Marte padre della prole sospetta. Ma né gli dèi né gli uomini riescono a sottrarre lei e i figli alla crudeltà del re: questi dà ordine di arrestare e incatenare la sacerdotessa e di buttare i due neonati nella corrente del fiume.[   ] Tutt’ora è viva la tradizione orale secondo la quale, quando l’acqua bassa lasciò in secco la cesta galleggiante nella quale erano stati abbandonati i bambini, una lupa assetata proveniente dai monti dei dintorni deviò la sua corsa in direzione del loro vagito e, accucciatasi, offrì loro il suo latte con una tale dolcezza che il pastore, capo del gregge reale - pare si chiamasse Faustolo - la trovò intenta a leccare i due neonati. Faustolo poi, tornato alle stalle, li diede alla moglie Larenzia affinché li allevasse”.

Il racconto prosegue fino a quando i due gemelli Romolo e Remo, divenuti adulti “furono presi dal desiderio di fondare una città in quei luoghi in cui erano stati esposti e allevati […] Su questi progetti si innestò poi un tarlo ereditato dagli avi, cioè la sete di potere, e di lì nacque una contesa fatale dopo un inizio abbastanza tranquillo […] Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ucciso aggiungendo queste parole di sfida: ‘Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura’. In questo modo Romolo si impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. […] Nel frattempo la città cresceva e dalle popolazioni confinanti, andò a riparare in essa una massa eterogenea di individui - nessuna distinzione tra liberi e schiavi - avida di cose nuove […] Ormai soddisfatto, Romolo provvede a dotarli di un’assemblea. Elegge cento senatori, sia perché questo numero era sufficiente, sia perché erano soltanto cento quelli che potevano ambire a una carica del genere. In ogni caso, quest’onore gli valse il titolo di Padri, mentre i loro discendenti furono chiamati Patrizi”.

In questo racconto due sono i passi più significativi: il fratricidio e la nascita di una monarchia, oggi diremmo costituzionale, dove il potere del re è affiancato dal Senato.

Machiavelli nella sua opera “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” ( una serie di riflessioni sulla storia di Roma antica ispirate dall’opera del grande storico latino) giustifica il fratricidio perché aveva come fine il bene comune e non quello personale: “che quello che fece (Romolo) fusse per il bene comune, e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere quello, ordinato subito uno Senato, con il quale si consigliasse, e secondo la opinione del quale deliberasse. E chi considererà bene l’autorità che Romolo si riserbò, vedrà non se ne essere riserbata alcun’altra che comandare agli eserciti quando si era deliberata la guerra e di radunare il Senato. Il che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de’ Tarquini, dove dai Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non che, in luogo d’uno Re perpetuo, fossero due Consoli annuali; il che testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere stati più conformi a uno vivere civile e libero, che a uno assoluto e tirannico”.

Sant’Agostino è di tutt’altro parere. Leggiamo nella sua opera “La città di Dio”: “Le prime mura di Roma furono bagnate di sangue fraterno. Roma infatti ebbe origine con un fratricidio. […] Chi voleva raggiungere la fama con l’esercizio del potere avrebbe avuto minor potere se la sua autorità fosse diminuita da un compartecipe vivo”.

Il tema del fratricidio originario ripercorrerà come un ossessivo motivo conduttore la storia della civiltà romana. A questo archetipo è ricondotto ogni episodio di violenza tra consanguinei, lotte intestine, guerre civili.

Ma torniamo alla Lupa Capitolina la cui immagine era una delle preferite di Benito Mussolini, che aspirava a essere conosciuto come il fondatore della “Nuova Roma”. Inviò diverse copie della Lupa capitolina a città americane: a Cincinnati nell’Ohio,  alla città di Rome in Georgia e una terza copia a New York. Alla leggenda di Romolo e Remo, figli di Rea Silvia, allattati da una lupa, si ispiravano i “figli della Lupa” un’organizzazione ideata dall’Opera nazionale Balilla. Durante il ventennio fascista in Italia chiunque si iscriveva alla scuola elementare, ne faceva automaticamente parte. Un disegno che rappresentava la lupa nell’atto di allattare Romolo e Remo si trovava sul fez dei ragazzini e ragazzine “figli e figlie della Lupa” e sulla camicia si osservavano dei piccoli disegni che raffiguravano in maniera stilizzata due teste di lupa.

La volontà di far risplendere i simboli di Roma e la lupa della leggenda portò il 28 agosto 1872 alla bizzarra decisione di porre una lupa in carne ed ossa tenuta in gabbia alle pendici del colle Campidoglio. Il preventivo della spesa del relativo mantenimento era di lire 23.50 mensili.

La lupa, sostituita sempre con nuovi esemplari, rimase sempre lì, sempre più smagrita, sempre più sola e spelacchiata a fare avanti e indietro all’interno della sua stretta ed umida gabbia. Dalla cronaca degli anni ’50  sappiamo che “la sera del 28 giugno 1954 intorno alle 20.45 la lupa del Campidoglio, un esemplare di tre anni, dopo una breve agonia, muore”. La notizia apparsa sui giornali scatena un incredibile ed inatteso dibattito. Per la prima volta, infatti, da quel lontano 1872, la decisione di mettere sotto le pendici del Campidoglio una lupa in carne ed ossa, l’ultima era più in ossa che carne - ero bambina e la ricordo con tristezza - è oggetto di una contestazione. Un vespaio di polemiche portò a due veri e propri fronti, uno favorevole all’introduzione di una nuova lupa e uno totalmente contrario. La disputa finì addirittura sul giornale inglese il “Times” in seguito alle rimostranze di un cittadino inglese residente a Roma che chiedeva all’Amministrazione Capitolina di recedere dal proposito di reintrodurre, al posto della lupa morta di recente, un nuovo esemplare. sottolineando che “esporre la lupa è un atto dannoso, oltre che per il povero animale, anche per l’immagine della città eterna”. Ma l’allora sindaco di Roma, Salvatore Rebecchini, sordo a ogni polemica, supportato dalle numerose lettere di cittadini romani favorevoli alla necessità di rimettere la lupa nell’originaria gabbia in sostituzione dell’esemplare morto il 28 giugno, ribadì l’importanza simbolica che l’animale rivestiva nella tradizione millenaria di Roma. Il 15 novembre dello stesso anno, a poco meno di cinque mesi dalla morte della lupa, un nuovo animale, sfortunato erede della leggendaria madre putativa dei preziosi gemelli fondatori di Roma, tornò a fare triste mostra di sé. Le polemiche con il passare dei giorni si assopirono, e passeranno ancora molti anni, ma agli inizi degli anni settanta il Comune, dietro le insistenze degli animalisti, decise di metter fine ad un’usanza che in nome di un’antica leggenda costringeva un animale, che tradizionalmente vive in ampi spazi, a vivere in una stretta gabbia dove il suo andare su e giù nell’angusto spazio diventò proverbiale. In fatti per indicare una persona insofferente,  che si agita, camminando su e giù in continuazione, a Roma si usava, e qualcuno ancora usa questa espressione: “me pari ‘a lupa der campidojo !”

Ma la lupa continua a far parlare di sé. Sul Messaggero del 14 maggio 2015, ma anche su altri quotidiani, si ipotizza che “Roma Capitale ha deciso di cambiare il brand destinato al turismo. Via la Lupa capitolina sul capitello, ovvero il logo ufficiale che fino ad oggi ha identificato la città, stampato su magliette, cappelli e altri accessori, per far posto a qualcos’altro” Un romano dice: “Nutrice di Romolo e Remo, protagonista di primo piano nei libri di storia e in quelli di storia dell’arte, signora di calchi, statue, statuette, souvenir di carta, gesso, stoffa e quant’altro, sigillo di bandiere e magliette. Non che si abbia qualcosa contro i cambiamenti. Per carità. Ma con tutti i problemi che ce so’, proprio della Lupa ci dobbiamo preoccupare? Comunque, da romano, me faccio ’na domanda: cosa avremo al posto di mamma Lupa?... Siamo in attesa. Via la Lupa, via la colonna. E cosa andrà al posto loro? In altre parole, pane al pane: ditece quello che ce mettete”.

Battute a parte, credo che sarebbe doveroso preoccuparsi soprattutto di combattere il malaffare che da anni prolifica all’ombra del Campidoglio, come attestano gli scandali odierni che gettano una luce sinistra sull’amministrazione della nostra capitale, oggetto di stupore e critica su tutta la stampa internazionale.

 

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