di Vincenzo Vita.

Ieri (n.d.r. 3 maggio 2021) si è celebrata la giornata delle Nazioni unite sulla libertà di stampa, chiamata ancora così dall’istituzione avvenuta nel 1993, in epoca analogica dominata dalla carta stampata.

Purtroppo, è stata una celebrazione amara e tutt’altro che gioiosa. Nella stagione dei sovranismi, della compressione delle rappresentanze democratiche e della crisi del bilanciamento dei poteri, l’esercizio del diritto disegnato solennemente dalle Carte internazionali e dall’articolo 21 della Costituzione italiana è sotto attacco.

Non si tratta di un temporale passeggero, bensì di una vera e propria tendenza. In un contesto che si tinge di moderni autoritarismi venati vuoi dai populismi vuoi dalle tecnocrazie, la libertà di comunicare senza censure è condannata al purgatorio o direttamente all’inferno. Per un verso, i condizionamenti di un mercato reso ancor più concentrato e brutale con l’entrata in scena delle piattaforme digitali. Gli oligarchi della rete fanno il resto. Per un altro dai colpi diretti al cuore della conoscenza.

L’Italia è al quarantunesimo posto nella classifica mondiale ed è la maglia nera d’Europa. E’ stato ben sottolineato dalla federazione della stampa e dall’associazione Articiolo21 nell’incontro tenutosi ieri con il presidente della camera dei deputati Fico. Nota dolorose: c’è ancora nell’ordinamento la pena del carcere per i giornalisti, il ricorso alle querele temerarie è una modalità utilizzata per imbavagliare croniste e cronisti impegnati in inchieste rischiose, le intercettazioni divampano, il precariato riguarda ormai ben oltre la metà della categoria e la pur timida leggina sull’equo compenso non è mai stata applicata. Non solo. Si è passati ormai alle minacce fisiche, come è accaduto in numerose occasioni, e numerosi sono coloro che si vedono costretti a chiedere la scorta. Insomma, difendere attivamente un così basilare principio di civiltà vuol dire mettere in gioco la propria vita. Basti ricordare, tra le tante e i tanti, Daphne Caruana Galizia, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Peppino Impastato, Mauro rostagno, Giancarlo Siani, Antonio Megalizzi, Anna Politkovskaja. I casi terribili non si contano in Europa e nei paesi del villaggio globale. Almeno un centinaio, numero peraltro sottostimato.

Ad aggravare definitivamente la situazione vi è, poi, il tema enorme della violenza online contro le donne giornaliste. Già ne hanno parlato Silvia Garambois e Paola Rizzi nel libro ‘#StaiZitta giornalista!’ uscito con le edizioni All Around nella collana Studi della Fondazione Murialdi nel generale contesto dell’odio e degli insulti maschilisti.

Ed è stato reso noto il dettagliato rapporto dell’Unesco contro le croniste, cui segue la campagna Journalist too. Si legge nell’introduzione che non vi è nulla di virtuale nella violenza veicolata dai social. Anzi, si tratta della nuova frontiera di una lotta asperrima, che segna una stagione attraversata da misogenie, omofobie, volgarità inaudite. 2.500 postazioni analizzate, 15 paesi interessati, differenti tipologie indagate: bianche, nere, indigene, ebraiche, eterosessuali, bisessuali, lesbiche. Su queste ultime e sulle donne nere si riversa la grande maggioranza delle contumelie criminali. Ne spiega le caratteristiche una delle autrici, la minacciata professionista filippino-americana, Maria Ressa.

Contro le donne, dunque, si esercita una doppia violenza: l’attacco alla libertà di espressione e l’oppressione di genere.

Un rapporto agghiacciante, che dovrebbe essere letto e divulgato, divenendo la premessa per iniziative adeguate.

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