di Roberto Bertoni.

Non si è visto mai, neanche all'Asilo Mariuccia, un dibattito più insulso, bambinesco e autoreferenziale di quello che sta caratterizzando questa fase della vita politica italiana. Lasciamo perdere i singoli leader, le loro ansie da prestazione, le loro legittime aspirazioni politiche, le loro ambizioni e i loro proclami che, specie in questi giorni, lasciano il tempo che trovano e andiamo ad analizzare questa delicata fase storica nel suo complesso.

In pratica, dalle elezioni di domenica scorsa non è uscita alcuna maggioranza, il che era ampiamente previsto e prevedibile, visto che il Rosatellum è stato congegnato da cotanto statista e dal suo estimatore di Rignano sull'Arno proprio per rendere impossibile la formazione di una maggioranza politica omogenea. Ne sono scaturiti, di fatto, due poli: il centrodestra e il M5S, con Liberi e Uguali quasi fuori dai giochi, gli inesistenti alleati del PD che sostanzialmente esistevano solo in alcuni salotti della buona borghesia e sui giornali che ad essi fanno capo e il suddetto PD ridotto da Renzi ad essere, ben che vada, il junior partner di una coalizione di centrodestra.

Salvini è il vero vincitore di questa tornata elettorale: qualunque esecutivo dovesse formarsi, non potrà prescindere da lui e dalla Lega. Ha lanciato un'opa sul centrodestra, intuendo che la stagione berlusconiana volgeva ormai alla conclusione, è stato più abile e caparbio della Meloni nel perseguire quest'obiettivo, ha sfidato lo scetticismo di Bossi e Maroni circa la nazionalizzazione in senso sovranista di un soggetto nato come federalista e regionalista, una sorta di "sindacato del Nord", ed è arrivato ad un'incollatura dal PD renziano in caduta libera: politicamente parlando, un capolavoro di tattica e strategia cui, pur non stimando il leader del Carroccio, non si può rimanere indifferenti.

Di Berlusconi abbiamo già detto: ormai farebbe meglio a ritirarsi. La riabilitazione postuma e immeritata l'ha già ampiamente ottenuta, un nuovo Nazareno non è possibile, almeno non nelle modalità che sognavano lui, Renzi, Gianni Letta, Confalonieri e i vertici del gruppo Mediaset, e la prospettiva più probabile è che, in un futuro prossimo, prevalga la linea del governatore della Liguria Toti, ossia che una parte consistente degli esponenti forzisti vada a baciare la pantofola di Salvini.

Quanto a Di Maio, siamo al cospetto di un altro capolavoro politico. Strabattuto da Renzi il M5S delle origini, con le sue ambiguità, le sue scie chimiche, i suoi eccessi e la sua ingenuità francamente eccessiva e, a tratti, snervante, è evidente che questo soggetto, nella sua nuova versione in giacca e cravatta, moderata, centrista, post-democristiana e meno incline all'Aventino rispetto al passato, sia stato premiato dal voto di persone che, finché Grillo straparlava di processi mediatici da svolgersi sulla rete, se ne tenevano lontane come i vegani dalla bistecca.

Il punto adesso è capire se il fortunato, e diciamo anche abile, leader campano saprà costruire una maggioranza in grado di governare o continuerà, al contrario, a ripetere la litania senza senso del "tutti dovranno venire a parlare con noi".

Diciamo meglio: che un governo senza il M5S non dovrebbe nascere, in questa legislatura, è un fatto politico conclamato. Tenerli ancora una volta fuori dai giochi, infatti, significherebbe far dilagare nel Paese la rabbia che finora questa compagine ha saputo arginare e tenere lontana da forze ben più estremiste e pericolose, pertanto va riconosciuta ai pentastellati la medesima funzione democratica che svolgeva un tempo il PCI e di cui Moro, indimenticabile statista democristiano di cui ricorre quest'anno il quarantesimo anniversario della scomparsa, aveva compreso l'importanza.

Non a caso, alla base del ragionamento del grande statista pugliese c'era il rifiuto del "Fattore K" e della "conventio ad excludendum", cosciente com'era del fatto che una democrazia è tanto più forte e autorevole quanto più sa essere inclusiva e comprensiva delle mutevoli esigenze di un "Paese - sono parole sue - dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili".

Per nostra fortuna, l'attuale inquilino del Quirinale è uno degli ultimi esponenti di quel filone dossettiano e moroteo di cui l'Italia è stata privata la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Sfidare il M5S, convincerlo ad aprirsi e a dare il meglio di sé, includerlo all'interno della struttura democratica e delle istituzioni e placarne la rabbia senza pretendere di normalizzarlo o di smorzarne un ardore che potrebbe costituire una ventata d'aria fresca e pulita per il nostro asfittico sistema: chiunque abbia a cuore la tenuta del tessuto sociale e civico del Paese non può che porsi questi obiettivi.

Ciò che temo farà Renzi sarà, invece, l'esatto opposto. Il dimissionario segretario del PD, le cui dimissioni sono più apparenti che reali, insieme ai suoi fedelissimi e agli ispiratori della strategia masochista che ha condotto il centrosinistra ad un passo dall'estinzione, sono lontani anni luce dalla concezione dossettiana e morotea della democrazia. Moro sosteneva che "è la flessibilità e non il potere a salvare la democrazia"; a loro, da sempre, interessa unicamente il potere, esercitato in tutte le forme e in tutti i modi possibili e immaginabili. Il potere per il potere, la propria ascesa personale a scapito della collettività, sempre e comunque: lo si capì il giorno in cui il nostro eroe si presentò alla Direzione del partito per costringere alle dimissioni Enrico Letta e lo si è visto nel corso dei mille, tristissimi giorni che ha trascorso a Palazzo Chigi.

Se dovessi puntare i miei due centesimi, direi quindi che il dibattito in corso in queste ore nel centrosinistra, fra la candidatura di Zingaretti e le speranze riposte dai padri nobili in Calenda, è un processo surreale, una sorta di dadaismo comico o, per meglio dire, tragicomico. Ciò che accadrà, secondo me, è che alla fine Di Maio non ce la farà, in quanto non avrà i numeri per formare una maggioranza coesa, e Mattarella, viste le condizioni in cui versa il Paese e la sua concezione della politica e della democrazia, difficilmente affiderà il mandato a un leader non in grado di assicurargli una maggioranza stabile. Gli affiderà un primo mandato esplorativo, una volta espletata la pratica delle presidenze delle Camere, questo senz'altro, ma poi dovrà prendere atto della realtà, e la realtà a me sembra lampante: un pezzo del PD, non so quanto consistente ma di certo non esiguo, ha già scelto la destra. Del resto, è con i voti di Forza Italia e Lega che il PD ha votato il Rosatellum e l'ipotesi più probabile è che la vasta pattuglia renziana preferisca concedere un appoggio esterno a un luogotenente di Salvini, giusto per salvare l'apparenza, piuttosto che tentare di dare un nuovo corso alla vita politica del Paese.

Il renzismo, difatti, benché presentatosi con il volto arrembante della rottamazione e del nuovismo spinto all'estremo, altro non è, come si evince da ogni passaggio degli ultimi anni, che una forma neanche troppo gentile di gattopardismo. Il renzismo non concepisce la novità, la freschezza, lo slancio vitale, la propensione per l'ignoto, la ricerca di nuovi equilibri e quella maieutica dossettiana volta a far germogliare la politica dal grembo della società. Come detto, è mera gestione del potere per il potere, dunque chi meglio di questa Lega, sovranista e istituzionale al tempo stesso, maledettamente furba in entrambe le vesti, può garantirgli la conservazione dello status quo?

A quel punto, non è da escludere che il Partito Democratico si spezzi, che gli Orlando, gli Emiliano e le loro sparute rappresentanze parlamentari si aggreghino a quel che resta di Liberi e Uguali e provino a ricostruire un embrione del centrosinistra e dell'Ulivo che furono. Un'opposizione dura e implacabile al disegno governista di Renzi potrebbe aiutarli a rigenerarsi, anche se ci vorranno anni di pensiero, azione e, soprattutto, coerenza per riemergere dalle secche in cui li ha fatti sprofondare la sequela di fesserie che hanno compiuto soprattutto a partire dal 2011 e dal sostegno acritico ed eccessivo al governo Monti. È un errore che, almeno all'inizio, ho commesso anch'io: ne prendo atto e me ne scuso.

Quanto al soggetto macronnista di Renzi, non andrà da nessuna parte: alle Europee del prossimo anno, l'impressione è che l'"Europa dei carini", tutta chiacchiere, liberismo e slogan strumentali e privi di significato, verrà travolta dell'ondata nazionalista e xenofoba che si sta alzando in tutto il Vecchio Continente, al punto che in Germania pare che Alternative für Deutschland abbia ormai superato, nei sondaggi, la fu SPD delle riforme Hartz e dello spostamento al centro, per non dire proprio a destra, iniziato con il prode Schröder sul finire degli anni Novanta.

A quel punto, con un M5S dirompente e irrefrenabile, lo schema gattopardesco di Renzi e della destra salvusconiana che vediamo all'opera, potrebbe pure entrare in crisi e non sarebbe da escludere un ritorno alle urne nell'arco di uno-due anni.

Una cosa, tuttavia, è certa: o ci liberiamo dai leader puerili, da coloro che vogliono prevalere a prescindere, finanche a scapito del buonsenso e della logica, e torniamo ad essere una forza popolare di massa, radicata anche al di là della cintura aurea dei primi municipi, o non ci resterà che pregare che Raggi e Appendino resistano e che Di Maio sappia governare, poiché saremo ridotti alla lotta clandestina.

La sfida grillina, per quanto a tratti fastidiosa, smodata, un po' volgare e antitetica rispetto ai pranzi di gala cui siamo abituati, va saputa cogliere: con meno di questo, non ci sarà più una sinistra e potrebbe venir meno pure il concetto stesso di democrazia, in questo Paese straordinariamente bello, per molti aspetti sorprendente ma oggi sfiduciato e debole, troppo debole per guardare al futuro con l'ottimismo necessario per rilanciarsi.

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