di Giuseppe Castellini

Ho scoperto che, siccome la nuova legge elettorale è un’altra di quelle cervellotiche, viziata da piccoli calcoli di bottega e da opportunismi più che dalla volontà di dare uno strumento equilibrato ed efficace alla democrazia italiana, sulla scheda troveremo scritte le istruzioni per l’uso. E, poiché c’è da spiegare parecchio ciò che alla normale logica delle persone sfugge, queste istruzioni saranno piuttosto lunghe.

Insomma, un altro pastrocchio che dà l’ennesimo colpo alla credibilità delle istituzioni, indebolisce l’autorevolezza della democrazia italiana, getta altro discredito sul ceto politico, allontana i cittadini dalle istituzioni e di conseguenza allarga il fossato tra Paese reale e Paese legale.

Questo vezzo dell’uso scandalosamente partigiano delle leggi elettorali, prodotte a getto continuo a livello nazionale e nelle Regioni (una follia aver dato queste ultime il potere di farsi ognuna la propria legge elettorale e di cambiarla a piacimento quando vuole) a seconda degli interessi della maggioranza, anche quando questa è risicata, è anche un vulnus ai meccanismi fondanti della democrazia costituzionale. Questo perché la legge elettorale a mio parere rientra a pieno titolo in quei fattori di regole comuni che creano forza delle istituzioni e coesione sociale e quindi è strumento da maneggiare con una certa delicatezza, su cui occorre cercare di ottenere ampie maggioranze affinché le regole del gioco siano condivise nel modo più ampio e non affrontate con furbizie di bassa lega.

Si prenda ad esempio quanto avvenuto in Umbria. La legge elettorale regionale, dopo la sconfitta del centrosinistra al ballottaggio alle comunali di Perugia, è stata cambiata a pochi mesi dalle elezioni a colpi di maggioranza solo perché si aveva timore che alla Regione, analogamente a quanto avvenuto a Perugia, col ballottaggio il centrosinistra perdesse le elezioni. Paura fondata e legittima (tutti sanno che sarebbe andata così e i risultati delle urne, con la presidente Marini vincente col 42% circa, con soli 3 punti di distacco sul candidato di centrodestra Ricci, lo hanno confermato), ma che non giustifica un cambiamento delle regole a pochi mesi dal voto, senza alcun reale dibattito e senza favorire alcuna partecipazione da parte dei cittadini.

Forse anche per questo la debolezza dell’attuale consiliatura regionale, e ancora di più la debolezza della giunta regionale e della presidente Marini che non riescono a ‘passare’ nell’opinione pubblica, nascono anche da qui. Aver compiuto quel gesto, in quel modo e così a ridosso delle urne, ha determinato un colpo alla legittimità reale – non formale, che invece c’è tutta - di quel risultato e quindi alla legittimità reale del governo regionale. Non solo, è stato un esempio di spregiudicatezza ‘Cicero pro domo sua’ che è apparso un atto di autorefenzialità su un tema che riguarda le regole del gioco. Autorefenzialità che poi si paga dopo, perché è come se si tagliasse l’albero su cui le forze politiche stanno sedute: l’autorevolezza, che significa la fiducia nel fatto che le istituzioni politiche, battagliando, mirino al bene comune inquadrando i propri legittimi interessi di rappresentanza e di potere nell’interesse più generale del Paese, in questo caso della Regione. Facendo in modo diverso, si crea intorno alle istituzioni una cappa di sfiducia, di sospetto, di disincanto, di disinteresse. Uno stagno in cui sguazzano in pochi, che interessa poco, che in tanti guardano distrattamente perché è roba di ‘lor signori’.

Insomma, è anche così che si uccide il buon funzionamento di una democrazia. E che proprio chi assesta questi colpo finga poi di stracciarsi le vesti cercando di dare rispettabilità a quello che per primi si è violentato, accentua ancora di più l’inadeguatezza, la furbizia sciatta, l’opportunismo di un ceto dirigente politico che nel complesso (con le dovute eccezioni) appare tra i peggiori nella storia della democrazia repubblicana.

Se le forze politiche e il ceto dirigente che dettero forma al regionalismo umbro fossero stati del livello che vediamo oggi, l’Umbria avrebbe avuto una storia ben più miserevole, uno sviluppo socio-economico ben minore. Quel ceto dirigente si legittimò con i fatti, con le idee e con le scelte. Talvolta sbagliando, ma in buona fede. Lo spettacolo che vediamo oggi tutti i giorni è il quadro di una regione inadeguatamente governata, di un ceto dirigente autoreferenziale.

Quando tra 30 anni si scriverà la storia di questi anni dell’Umbria, il giudizio sulla situazione complessiva e sui protagonisti temo sarà severo. Come oggi è severo sul complesso del governo dell’Umbria, almeno a partire dal 2000. Emerge infatti in tutta la sua evidenza l’inadeguatezza di un ceto dirigente che, a forza di nascondere i reali problemi, ha permesso che l’Umbria entrasse già malata nella recessione senza però che ne fosse consapevole. Il disastro che ne è seguito è frutto di quella inadeguatezza, fatta peraltro di conformismo il cui clima non fece emergere, e tantomeno promosse, un dibattito vero e largo la cui esistenza determina sempre e comunque, per aspro che possa essere, una lettura il più possibile condivisa e quindi la mobilitazione delle energie che altrimenti restano sopite e disperse.

E qui si apre il tema del ‘tradimento dei chierici’, ossia dei ceti – politici e non - più avvertiti e consapevoli che, per conformismo e per timore, non hanno svolto quel ruolo di critica e di stimolo che sarebbe stato necessario, pagando magari qualche prezzo per il fatto di ‘disturbare il manovratore’. La devastante crisi che ha colpito e che colpisce l’Umbria è frutto anche della loro incapacità di esercitare il proprio ruolo, talvolta scomodo. È anche per questo che la forza e l’autorevolezza delle forze sociali, politiche, accademiche e istituzionali, la loro capacità di essere ascoltate dalla pubblica opinione in Umbria è precipitata, salvo qualche eccezione, più di quanto non sia avvenuto nel Paese. Ma d’altronde, come diceva Don Abbondio, se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare.

 

Condividi