di Maria Pellegrini.

Una leggenda d’amore fra due giovani, Ero e Leandro, fra le più suggestive che la storia antica abbia tramandato, fiorisce in un braccio di mare chiamato nell’antichità Ellesponto, (ora stretto dei Dardanelli) che mette in comunicazione il Mar Egeo con il Mar di Marmara. Sulle sue opposte rive tra le numerose e antiche città vi erano Abido sulla costa europea dove vive Leandro, e Sesto sull’opposta costa asiatica (celebre per il ponte di barche costruito da Serse nel 480 a.C. per farvi transitare l’esercito ed invadere la Grecia) dove vive Ero, sacerdotessa di Afrodite. Questi luoghi fanno parte ora dell’attuale Turchia. I due giovani s’innamorano, li divide non solo un braccio di mare ma per lei, sacerdotessa di un tempio, incombe anche il divieto della passione amorosa. Per questo i loro incontri avvengono di nascosto.

Ogni notte Leandro attraversa a nuoto lo stretto tra Abido e Sesto, guidato da una fiaccola che Ero agita da una torre. Una volta, durante una tempesta, la fiaccola si spegne e Leandro, persa la direzione dell’approdo, annega tra le onde. All’alba il suo cadavere giace sul lido ed Ero, disperata dopo una notte insonne, si getta dall’alta torre e muore accanto a lui.

La leggendaria vicenda si diffonde in tutta l’antichità greca e romana perché l’amore, specialmente quello con esito tragico, è uno dei più fecondi e sempre attuali temi della letteratura e poesia di ogni età. A questa storia accenna anche Virgilio nel terzo libro delle “Georgiche” quando si sofferma sugli effetti distruttivi dell’amore che rende furiosi gli animali, la sua potenza domina tutte le creature, anche gli uomini e qui il poeta porta in esempio Leandro ed Ero: «Che farà un giovane, allora, se un amore senza tregua gli accende questo fuoco nelle vene? A nuoto, nel cuore della notte, passa lo stretto sconvolto da uragani; sul suo capo tuona l’immensa porta del cielo e le onde rotte dagli scogli risuonano d’echi; non possono trattenerlo i genitori in pena o l’amata che lo seguirà nella stessa morte crudele» (III, 258-263). Nel poeta mantovano la visione negativa dell’amore deriva dal pensiero epicureo, noto attraverso Lucrezio. Ovidio in tre sue opere cita questa antica leggenda: nell’“Arte di amare” prende a esempio la passione di Leandro per dimostrare a quale imprudenza sia pronto un uomo innamorato: «O Leandro, avresti potuto talvolta startene lontano dalla tua donna; ma tu a lei giungevi sempre a nuoto perché potesse leggere ben dentro il tuo animo».(II, 249-50); negli “Amori” ricorda l’infelice storia dei due giovani attribuendo la sventura al caso che ha voluto impedire al giovane di trovare la giusta direzione: «Spesso per raggiungere Ero, il giovane Leandro aveva attraversato a nuoto le onde; anche quella notte le avrebbe attraversate, ma il consueto cammino si ottenebrò» (II, 16, 31-32); nelle “Eroidi” ha tratteggiato le vicende amorose di alcune eroine del mito attraverso immaginarie lettere da loro scritte all’uomo amato che è lontano o si è volutamente allontanato, indifferente di fronte alla loro disperazione. Le più note sono Penelope, sposa in attesa del ritorno di Ulisse, Didone abbandonata da Enea, Arianna lasciata su una spiaggia da Teseo, nonostante l’aiuto da lei dato all’eroe per uscire dal Labirinto. Soltanto in tre storie Ovidio immagina che anche gli uomini scrivano alle donne amate. Tra queste c’è la lettera che Leandro invia a Ero perché da sette giorni a causa del mare agitato egli non può avventurarsi fra le onde e raggiungerla, e quella della ragazza che scrive chiedendo il motivo del ritardo, nonostante una fiaccola accesa brilli come sempre dall’alto di una torre per guidare il suo cammino. Forse sono storie che rispecchiano amori infelici della società del primo impero, che Ovidio «cantore di teneri amori» come egli stesso si definisce, può aver osservato e trasferito in vicende del mito. «Sotto i nomi del mito» scrive Ettore Paratore «palpita soprattutto la vita amorosa dell’Urbe, in tutta la sua raffinata perversione».

Ovidio non racconta tutta la storia dei due amanti Leandro e d Ero, molto nota al pubblico dei lettori del suo tempo, ma ne coglie un momento drammatico che anticipa l’epilogo tragico. Il poeta immagina che ognuno dei due giovani scriva una lettera. Leandro è sulla riva del mare pronto ad attraversarlo, ma una tempesta tarda il suo quotidiano viaggio a nuoto per raggiungere l’altra riva. Seduto su una roccia, in preda alla tristezza, fisso lo sguardo alla riva e con il pensiero, arriva dove lui non può arrivare e si dispera: «Là c’è la mia fiamma; in quella riva c’è la mia luce, quanto preferirei che la mia mano nuotasse, piuttosto che scrivere, e mi trasportasse con slancio attraverso le acque ben note!» Affida una lettera a un barcaiolo per rassicura l’amata chiarendo il motivo del suo ritardo: «Vedi tu stessa il cielo nero più della pece, e lo stretto sconvolto dai venti impraticabile anche per le concave navi. Non posso imbarcarmi, tutti mi vedrebbero e sarebbe tradito l’amore che vogliamo tenere segreto». Il giovane ripensa ai suoi notturni viaggi e la felicità quando Ero, la cui bellezza è inferiore alla sola Venere e alla stessa luna, lo accoglie sulla spiaggia, lo abbraccia e contraccambia baci che «valgono la traversata d’un mare». Ma poi ricorda «i lamenti per la durata breve delle notti», e torna a disperarsi: «O la mia audacia avrà fortuna e io sarò salvo, o la morte sarà la fine di un amore tormentato. Pregherò tuttavia di essere scaraventato sulla tua riva e che il mio corpo di naufrago raggiunga il tuo porto. Certo piangerai per essere stata la causa della mia morte». Il poeta anticipa quella che sarà la fine di questo amore, ma si limita a immaginare le lettere che i due giovani si scambiano in attesa di incontrarsi.

Ero che non lo vede arrivare, a sua volta pensa: «Ormai certamente, è per mare e muove le braccia con regolarità, facendosi strada fra le acque». E scrive con passione: «Sulla mia bocca non c’è altro, se non il nome di Leandro». Poi con pensieri pieni di angoscia è presa da gelose fantasie e nella sua lettera chiede: «Stai forse trascorrendo il tempo in ozio, sedotto da qualche rivale che posa le sue braccia le braccia sul tuo collo? Ah, vorrei morire, piuttosto che essere ferita da questo oltraggio!» Ero inganna il tempo dell’attesa dedicandosi a lavori femminili e prega gli dei che un vento propizio renda facile la traversata. Una volta che la notte è quasi interamente trascorsa nella vana attesa, riesce ad addormentarsi, sogna l’arrivo dell’amato e il suo abbraccio, ma si tratta di un vano e breve piacere che svanisce appena si sveglia. Le due lettere mostrano la grande sensibilità di Ovidio nell’interpretare il sentimento d’amore, ma anche quella di raffigurare l’universo femminile chiuso, privo di relazioni con il mondo e quindi più incline ad accogliere la passione d’amore e a farne l’unica ragione di vita. Infatti fa scrivere ad Ero: «Voi uomini cacciando o coltivando il suolo fecondo, occupate gran tempo con varie attività: o vi trattiene il Foro oppure i premi dell’odorosa palestra, o anche curvate col morso il collo al destriero in maneggio, talora prendete gli uccelli col laccio, talora i pesci con l’amo; poi messo il vino in tavola, si prolunga per voi l’ora più tarda. Da tutto questo io sono esclusa, a me da fare non resta nulla solo l’amare».

Questa sentimentale storia ispira nel V secolo d. C. un breve poemetto di Museo, autore che alcuni hanno creduto di poter identificare con il poeta grammatico e greco. È un piccolo romanzo amoroso in versi, definito dai critici «l’ultima rosa del giardino ellenico delle Muse» nel quale si canta l’amore come destino, passione fatale che conduce a morte. Ne riproduciamo gli ultimi versi: «Venne l’Aurora ed Ero non vide lo sposo. / Allungava gli occhi da tutte le parti sul vasto dorso del mare, / se mai riusciva a vedere il suo sposo vagare, / dopo che s’era spenta la luce, e quando lo vide / ai piedi della torre, morto, straziato / dagli scogli, si stracciò sul petto la bella veste / e si gettò a capofitto dall’alta torre. / Così Ero morì assieme allo sposo morto, e godettero / l’uno dell’altra anche nell’ultima sorte». (Museo, “Ero e Leandro”, vv. 336-343)

Dante, riprende il mito nel XXVIII canto del Purgatorio, (vv. 70 sgg.) e grande fortuna ha avuto anche nel mondo moderno, a partire dai romantici. Lord Byron imita l’impresa di Leandro attraversando a nuoto quello stretto braccio di mare, senza che lo attenda una donna innamorata, e impiega esattamente un’ora e dieci minuti dimostrando, così, che quella struggente vicenda può corrispondere a verità. La storia ha ispirato anche poeti, artisti e musicisti di ogni età.

Nota: nell’immagine “Ero e Leandro” di Salvator Rosa, (Napoli 1615-Roma 1673) Inghilterra, collezione privata.

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