La sinistra ha abbandonato i lavoratori. E le conseguenze si vedono quotidianamente nell’ambito sociale, politico, culturale. Ma anche sanitario. Perché i numeri inquietanti di morti e infortuni sul lavoro, nonché di malattie professionali, sono il risultato di un processo storico che dagli anni ‘80 del Novecento ha subito un’inversione nella dinamica del conflitto di classe che, dopo decenni di conquiste sociali e politiche, ha visto una reazione organizzata e estremamente efficace del padronato.

La soluzione, secondo l’ex Presidente della Camera dei Deputati Fausto Bertinotti, è una: ridare centralità alle istanze dei lavoratori. Perché migliorare le condizioni di lavoro e migliorare la qualità della vita e delle relazioni all’interno della società è un tutt’uno, come dimostrano le grandi conquiste sociali e politiche (si pensi al divorzio, all’aborto, alla legge Basaglia) ottenute nel nostro paese nel momento di massima forza del movimento dei lavoratori.

Cogliendo l’occasione della pubblicazione in Italia di Sfidare il capitalismo, l’ultimo libro di Bernie Sanders (qui la nostra recensione), abbiamo intervistato Fausto Bertinotti, che di quel libro ha scritto la prefazione. Sindacalista, segretario del Partito della Rifondazione Comunista dal 1994 al 2006, Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008, voce autorevole, lucida e critica della sinistra italiana, Bertinotti non ha perso l’occasione per ribadire la necessità di un ritorno alla centralità del lavoro e dei lavoratori per poter affrontare, con soluzioni progressiste, le sfide esistenziali che la nostra società è chiamata ad affrontare. Secondo i dati INAIL in Italia nel 2023 ci sono stati 1041 morti sul lavoro e 585.356 infortuni. Di questi numeri si parla troppo poco e ancora meno si fa per evitarli. Ma c’è un altro dato di cui invece non si parla proprio: 72.754 patologie di origine professionale denunciate, in aumento del 19,7% rispetto all’anno precedente. Questi numeri, peraltro, sono in costante aumento negli anni: nel 2003 erano poco più di un terzo rispetto a ora. Questo fenomeno secondo te rappresenta un progresso (maggior consapevolezza che fa emergere patologie prima passate inosservate) o un fallimento (incapacità di fare prevenzione a fronte di sempre maggiori conoscenze) per la medicina del lavoro?

È evidente che, mettendo a confronto i dati allarmanti relativi ai decessi sul lavoro con l’incidenza delle malattie professionali e analizzando l’evoluzione di questi fenomeni negli ultimi trent’anni, si ottiene un quadro drammaticamente esplicativo. Infatti, abbiamo assistito a un significativo calo dei decessi sul lavoro a partire dagli anni ’70 fino alla prima metà degli anni ’80. Successivamente, si è verificato un incremento delle morti in ambito lavorativo, che coincide con un aumento delle patologie professionali. Tale correlazione persiste anche ammettendo che i numeri possano essere stati influenzati da una maggiore capacità di rilevazione.  

La tendenza attuale mostra un preoccupante aumento sia dei decessi sul lavoro sia delle patologie professionali. La domanda sorge spontanea: perché questo incremento? Luciano Gallino ha offerto una spiegazione incisiva, identificando un radicale cambiamento nella dinamica del conflitto di classe. Dagli anni ’80 in poi, abbiamo assistito a un capovolgimento: se prima il conflitto di classe era caratterizzato dalla lotta dei lavoratori contro i padroni, in questo nuovo contesto la situazione si è invertita. Su questo ritornerò a breve, per ora basti ricordare che attraverso una fase di transizione iniziale, seguita da un vero e proprio rovesciamento, il conflitto di classe è ora dominato dall’azione dei padroni nei confronti dei lavoratori.

Questo capovolgimento ha avuto come conseguenza diretta un aumento significativo sia delle patologie professionali sia dei decessi sul lavoro. Ci troviamo di fronte a un’inversione drastica della tendenza, con numeri che non solo sono drammaticamente elevati, ma che portano con sé un profondo significato politico e sociale. È proprio questo il cuore della questione: l’aggravarsi delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro non è un fenomeno isolato, ma il risultato visibile di dinamiche socio-economiche e di potere profondamente radicate.

Non dimenticherò mai una conversazione che ebbe luogo a Marcinelle, teatro dell’immane tragedia che vide centinaia di minatori italiani perdere la vita nel crollo di una miniera di carbone. Durante una commemorazione, uno dei sopravvissuti si avvicinò a me per riflettere sulla ricostruzione degli eventi. Mentre si discuteva delle cause, spesso attribuite ad un presunto cortocircuito nel montacarichi, egli mi disse: “Non credere anche tu a quella storia dell’incendio nel montacarichi, come se fossero state le manovre tecniche a causare il disastro. Non lasciarti ingannare. I nostri compagni non sono morti a causa di un incidente; sono stati sacrificati sull’altare del profitto, che è stato ritenuto più prezioso delle loro vite”.

Qui risiede l’essenza della questione: se ignoriamo il concetto di profitto, se trascuriamo le dinamiche di classe tra lavoratori e imprese, se omettiamo di considerare i cicli politici che determinano l’ascesa o il declino del mondo del lavoro, allora perdiamo completamente la capacità di comprendere la realtà. Se ci limitiamo a un approccio puramente tecnico, perdendo di vista le questioni fondamentali, come il fatto che il profitto sia posto al di sopra della vita dei lavoratori, allora non riusciamo a cogliere l’essenza del problema. Ciò che abbiamo di fronte è il risultato di una contro-riforma legislativa che ha alimentato la precarietà, smantellato l’organizzazione tradizionale del lavoro e delle imprese attraverso un processo di esternalizzazione sempre più marcato. Questo ha portato a una progressiva deresponsabilizzazione delle aziende, creando una catena in cui la responsabilità aziendale si è progressivamente attenuata, insieme alla diluizione dei controlli effettivi. Se non si comprende questa dinamica, si perde di vista il nocciolo del problema, perché i decessi sul lavoro rappresentano la manifestazione più tragica e estrema di come si è evoluto il conflitto di classe. La precarizzazione del lavoro e l’esternalizzazione di molte funzioni aziendali, compresa la catena di appalti e subappalti spesso condotta sotto la pressione di una concorrenza al ribasso, hanno indubbiamente creato una condizione sociale disastrosa che richiede un’azione decisiva.

Voglio essere esplicito: non sostengo affatto che le specifiche tecniche o il ruolo cruciale della medicina del lavoro debbano essere trascurati. Anzi, è essenziale che le analisi e gli approcci proposti dalla medicina del lavoro, in collaborazione con le esperienze dirette dei lavoratori, siano utilizzati per rafforzare le pratiche di monitoraggio e intervento. Tuttavia, affinché questi sforzi siano veramente efficaci, devono inserirsi in un contesto più ampio che preveda un cambio di paradigma nel conflitto di classe, accompagnato dalla creazione di una legislazione che non solo ponga fine, ma anche inverta la tendenza delle leggi sfavorevoli ai lavoratori. Senza un cambiamento radicale come questo, temo che continueremo a lamentare vittime di incidenti sul lavoro.

Negli anni, innumerevoli tragedie legate alla morte sul lavoro sono state seguite da grandi mobilitazioni, alzando il grido di ‘mai più’ contro le cause che le avevano generate. Anche io ho unito la mia voce a quel grido, tante volte, senza però che ciò portasse al cambiamento sperato. Quel grido, però, simboleggiava la speranza in una svolta possibile, attuabile attraverso la lotta, una speranza che oggi sembra sfuggirci. Perché si rivela troppo limitata la capacità della politica e del conflitto sociale di affrontare e risolvere le vere cause. Prendendo ad esempio l’ultima tragedia avvenuta a Firenze (il crollo nel cantiere di un supermercato Esselunga, che ha causato la morte di 5 operai il 16 febbraio 2024, n.d.r.), sembra che il dolore e la commozione suscitati colpiscano profondamente la coscienza collettiva del paese, ma rimangano confinati in una sorta di bolla. Questi sentimenti, per quanto nobili, non riescono a tradursi in azione politica, in riforma, in un reale potere di cambiamento. Siamo ancora molto distanti dal fornire una risposta adeguata a questa tragedia, che ha un profondo significato politico e sociale.

Il caso di Firenze che hai menzionato era proprio ciò a cui stavo pensando. Quel tragico evento, accaduto solo pochi mesi fa, ha scosso l’opinione pubblica come una fiammata improvvisa. Tuttavia, proprio come una fiammata che si estingue rapidamente, anche l’attenzione mediatica su questo dramma si è dissolta in fretta, sopraffatta dal frenetico ciclo delle notizie di oggi. Così, se non nell’immediato coinvolgimento delle famiglie sconvolte da quelle vite spezzate, la risonanza di questa tragedia si è persa, scomparendo quasi completamente dal discorso pubblico.

Esattamente, viviamo in una sorta di bolla mediatica, dominata dal mondo della comunicazione. Guy Debord parlava di “società dello spettacolo”, descrivendo un contesto in cui lo spettacolo sostituisce e divora la politica. In questa realtà, sembra che tutto si riduca alla comunicazione. Come hai sottolineato, l’attenzione mediatica su un evento dura soltanto per un breve lasso di tempo, forse un giorno o una settimana, prima di svanire completamente. Allo stesso modo, la commozione e l’indignazione suscitate da questi eventi si esauriscono rapidamente, lasciando spazio al prossimo spettacolo mediatico, in un ciclo continuo che minimizza e marginalizza la realtà e i suoi problemi più gravi.

Certamente, emozioni come commozione e indignazione sono necessarie, ma da sole non bastano. È essenziale che queste si trasformino in motori di un’azione sociale, politica e culturale. La mia visione è questa: dobbiamo ricollocare al centro del dibattito la liberazione del lavoro da ogni forma di sfruttamento e alienazione, come chiave per la ricostruzione della democrazia e del tessuto politico.

Sottolineo nuovamente l’importanza cruciale della democrazia, la quale non può fiorire in assenza del ruolo attivo dei lavoratori: è un principio imprescindibile. È essenziale interrogarsi sul motivo per cui il 50% degli elettori sceglie di astenersi dal voto. Questo disimpegno dalla democrazia rappresentativa riflette forse un senso di alienazione, un segnale che le esigenze e le condizioni di vita delle persone non trovano più spazio né voce all’interno dell’arena politica e democratica, inclusi i processi legislativi e le attività governative?

Le forze lavorative hanno affrontato una battuta d’arresto significativa che non può essere trascurata: una sconfitta storica verificatasi alla fine del secolo scorso e all’alba del nuovo millennio, che ha segnato la conclusione di quello che lo storico Eric Hobsbawm ha chiamato “Il Secolo Breve”.

Questo periodo si è chiuso con il declino del movimento operaio, un evento che rappresenta una delle cause principali dell’attuale marginalizzazione del mondo del lavoro dal dibattito politico. Sebbene esistano episodi di resistenza, come le lotte dei lavoratori della Whirlpool o della GKN, tali casi rimangono eccezionali. Nonostante questi lampi di resistenza, il processo di ristrutturazione capitalista procede inarrestabile, assorbendo e trasformando in senso regressivo le condizioni specifiche del lavoro.

Io sono un vecchio sindacalista, e ho imparato che esiste un indicatore chiave che riflette l’evoluzione della lotta di classe, segnando l’ascesa o il declino del movimento operaio: l’andamento dei salari. Dimmi dove vanno i salari e io ti dico la posizione del lavoro nel contesto della società capitalistica odierna. In Italia, come ben sappiamo, i salari sono in difficoltà da circa un quarto di secolo e i lavoratori sono stati compressi nella tenaglia della competizione, dove spesso il confronto si è basato sul minor costo della forza lavoro, piuttosto che sulla sua qualità. Questo ha portato a una perdita significativa del potere d’acquisto, che nell’ultimo quarto di secolo si è ridotto del 20-30% rispetto a quello dei lavoratori in Germania e Francia.

Questa drammatica situazione sociale trova riscontro nella qualità della vita lavorativa, un aspetto meno immediato da cogliere rispetto a un grafico sull’andamento dei salari. Tuttavia, proprio riflettendo sui dati che hai menzionato all’inizio, anche considerando una maggiore capacità di rilevare le condizioni patologiche, l’evoluzione del numero di morti sul lavoro si rivela un indicatore terribilmente eloquente di ciò che è accaduto.

Eppure in Italia abbiamo avuto esperienze all’avanguardia in materia di salute e ambiente di lavoro: penso al “modello operaio” propugnato dalla fine degli anni Sessanta da Gianni Marchetto alla FIAT di Mirafiori. Cosa dovremmo recuperare – magari attualizzandolo – di quel modello?

Quell’esperienza si è sviluppata negli anni ’70, un periodo in cui le figure dell’operaio comune di serie e dello studente di massa hanno rappresentato l’ultima grande spinta verso il cambiamento in Italia. Gli anni ’70 sono spesso ricordati come gli “anni di piombo”, una narrazione che distorce la realtà con l’intento, piuttosto evidente, di minimizzare l’importanza delle lotte operaie e del loro impatto trasformativo, focalizzandosi esclusivamente sul terrorismo. Ma ciò che ha realmente caratterizzato quegli anni è stata l’ascesa del conflitto di classe, con operai e studenti uniti in una lotta concreta, non solo come slogan, ma come pratica diffusa che ha portato a cambiamenti significativi tanto nella fabbrica quanto nell’università. Quest’ultima è diventata accessibile ai figli dei lavoratori, mentre in fabbrica si è sviluppato un vero e proprio contropotere operaio in risposta al dominio aziendale.

Hai fatto bene a ricordare un vecchio amico e un caro compagno come Gianni Marchetto, con cui abbiamo condiviso tante esperienze, anche quando i nostri punti di vista divergevano. Ciò nonostante, ci legava una profonda amicizia, frutto di anni di lotte comuni. Come sottolineava Gianni, la lotta di classe non si è esaurita nei conflitti a Mirafiori e nelle grandi fabbriche, nella mera durezza dello scontro. È stata anche l’occasione per l’invenzione di forme originali di potere e controllo, una dimostrazione di intelligenza operaia che ha saputo applicarsi al cambiamento del regime di fabbrica. Si è verificato, infatti, un fenomeno che andava oltre la semplice rivendicazione di maggiori salari, dignità sul lavoro, controllo operaio e riconoscimento dell’intelligenza collettiva e individuale dei lavoratori. Questo movimento ha anche promosso la creazione di nuovi modelli organizzativi, lanciando una critica incisiva al fordismo e al taylorismo. La contestazione del modello produttivo fordista-taylorista e l’applicazione di alternative a tale modello hanno segnato una vera e propria transizione nelle grandi fabbriche italiane e non solo, transizione che tuttavia ha trovato la sua sconfitta all’alba degli anni ’80. Emblematici di questo periodo sono stati i 35 giorni della Fiat, le battaglie dei minatori inglesi e le lotte dei controllori di volo negli Stati Uniti.

In ognuno di questi episodi, il padronato ha sfruttato l’occasione per una grande rivincita: si è ritirato dall’arena negoziale, dove aveva risentito della pressione esercitata dai lavoratori e della loro capacità di proporre nuovi modelli organizzativi. Abbandonando il terreno del dialogo, ha optato per uno scontro frontale, riuscendo infine a prevalere. Come ha osservato Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi e influenti del mondo, la lotta di classe non solo esiste, ma è stata vinta dai ricchi. Ma prima di questa vittoria, o meglio, di questa rivincita nei confronti del ciclo di conquiste dei lavoratori, vi è stato un periodo di significativi progressi operai. In Italia, questo si è tradotto in importanti riforme che hanno interessato vari ambiti, dalla sanità all’istruzione, dalle pensioni ai diritti civili, come il divorzio e l’aborto, segnando una fase di grande trasformazione sociale e legislativa. Quello è stato un ciclo in cui il protagonismo sociale di classe si è trasformato in cultura politica e ha innescato cambiamenti significativi nelle fabbriche. In molte di esse è nata un’idea di protagonismo dei lavoratori che ha trovato in quello che è stato chiamato “modello ambiente” una delle sue espressioni più raffinate, intelligenti e coinvolgenti. Figure intellettuali di spicco hanno lavorato a stretto contatto con l’esperienza sociale dei lavoratori, come Ivan Oddone a Torino, che non solo è entrato nella segreteria della Camera del Lavoro, ma è stato anche un punto di riferimento fondamentale nella definizione del “modello” dell’ambiente lavoro, e Giulio Maccacaro a Milano. Questi due rappresentano i pilastri di un dialogo tra intellettuali e operai, mediato dall’esperienza sindacale, senza precedenti nella storia.

Nell’ambito della lotta contro i fattori nocivi, lo studio condotto presso Mirafiori, a cui hai fatto riferimento nella domanda, identifica quattro principali gruppi di fattori di rischio. Ogni gruppo viene esaminato dettagliatamente, dalle condizioni domestiche a quelle specifiche del luogo di produzione, fino alle nuove forme di nocività come la ripetitività delle operazioni e la loro frammentazione, nonché i fumi e i gas. Tuttavia, l’analisi non si limita a questi aspetti fisici; abbraccia anche l’intera dimensione dell’alienazione prodotta specificamente dall’organizzazione capitalistica del lavoro. Queste lotte e il modello proposto sfidano radicalmente tale sistema, ponendo le basi per una revisione critica e profonda delle condizioni lavorative e della salute dei lavoratori.

Credo che nella controffensiva del padronato si sia delineata una strategia chiara: porre fine a un’esperienza che sfidava il loro controllo incontrastato sul mondo del lavoro. L’élite imprenditoriale, intimorita, ha cercato con ogni mezzo di sopprimere questa fase di eccezionale originalità e innovazione. Non posso affermare che sia un capitolo esclusivamente italiano, dato che gli ispiratori di questo modello attingevano da fonti internazionali, come la sociologia critica, la psicanalisi e la psicologia, ma un’originalità italiana è sicuramente rintracciabile. Dunque, ci troviamo di fronte a un contesto estremamente ricco, dove l’interazione tra esperienza operaia, intellettualità e ricerca emerge come un pilastro strategico per il cambiamento.

Trump si è ricandidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America, chiudiamo allora con uno sguardo oltreoceano. Nella tua prefazione al libro di Bernie Sanders, Sfidare il capitalismo, scrivi che «sinistra […] è diventato sulla scena della nostra politica un termine pressoché insignificante» perché ha perso il suo rapporto con i lavoratori. Se a questo aggiungiamo i venti di guerra che soffiano sempre più prepotentemente, la sfida posta dai cambiamenti climatici – che a mio parere è la grande assente nel libro di Sanders -, l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze, un sistema economico e finanziario sempre più disfunzionale e un progresso tecnologico che, a partire dall’Intelligenza Artificiale, promette (o minaccia) di sconvolgere le nostre vite quotidiane, quali sono a tuo parere le fondamenta su cui bisognerebbe ricostruire una sinistra all’altezza delle sfide che abbiamo davanti?

Le tue osservazioni sul libro di Sanders sono certamente interessanti e condivisibili. Tuttavia, ritengo che l’aspetto più promettente di quest’opera, anche per noi europei che spesso fatichiamo ad adattarci a un modello di pensiero come quello proposto da Sanders, risieda proprio nella sua essenzialità, o se vuoi schematicità.

Hai menzionato il ritorno di Trump, e come ben sai, Sanders interpreta il successo della destra americana attraverso una tesi che, pur essendo parziale, racchiude in sé un significato profondo. Sanders sostiene che Trump abbia vinto perché la sinistra ha abbandonato i lavoratori. Questa è la tesi e secondo me è una tesi fondata. Personalmente, appartengo a quella generazione che ha cercato, nei modi possibili, di ampliare l’orizzonte del conflitto di classe, anticipando concetti moderni come l’intersezionalità, oggi giustamente enfatizzati dalle femministe.

La questione ambientale che hai menzionato, ovvero il legame tra la lotta proletaria, la lotta di classe, e la necessità di un nuovo modello di sviluppo capace di reinterpretare il rapporto tra produzione, natura e riproduzione sociale, è stata una delle prime connessioni che abbiamo esplorato. Successivamente, l’incontro con i movimenti femministi ha arricchito ulteriormente la nostra comprensione, portandoci a riflettere in termini diversi sulla natura stessa del conflitto. E poi c’è il tema della pace, oggi dolorosamente attuale, nel momento in cui ci ritroviamo nuovamente in un’era di conflitti e in una cultura bellicista.

Abbiamo cercato di ampliare i nostri orizzonti, tenendo fermi concetti quali la centralità del conflitto di classe o persino la centralità della fabbrica. Questi termini, sebbene possano sembrare limitati o riduttivi, miravano a identificare il fulcro delle dispute, da cui derivavano questioni di portata ben più ampia, come il rapporto con la natura, le dinamiche di genere e le interazioni culturali. Tuttavia, nell’intento di espandere il nostro campo d’azione, abbiamo talvolta diluito il nostro focus al punto che, sotto la pressione degli avversari, ci siamo allontanati dall’essenziale.

La prova di ciò che affermo risiede nel fatto che, quando abbiamo mantenuto quella centralità, abbiamo ottenuto vittorie significative in ambiti come la legge sull’aborto e sul divorzio, e siamo persino riusciti a smantellare le strutture manicomiali, seguendo gli insegnamenti di Basaglia. Contrariamente a quanto si tende a credere in modo riduttivo, la questione non era negare l’esistenza della malattia mentale, ma riconoscere che essa ha una profonda componente sociale, la quale non può essere superata senza un’adeguata riforma.

Quando esisteva una connessione chiara, riuscivamo a prevalere; perdendo questo legame e dimenticando i lavoratori, le altre tematiche hanno cominciato a galleggiare nell’ambito dell’opinione pubblica senza però tradursi in un’effettiva costruzione di soggettività, organizzazione del conflitto, o capacità di influenzare concretamente la realtà. Questo è il motivo per cui oggi il termine “sinistra” per me perde di significato, poiché questa sinistra politica sembra svuotata di contenuto nella grande contesa. 

Vorrei concludere con una citazione di Rossana Rossanda. Quando le fu chiesto se fosse di sinistra, Rossanda rispose: “Non lo so, so solo che sono comunista”. Questa affermazione non era intesa come una battuta, ma rifletteva la convinzione che il termine “sinistra” per avere un significato autentico, deve incarnare l’essenza della lotta di classe; deve affondare le proprie radici in una critica profonda al capitalismo. Pertanto, il monito di Sanders a “non aver paura di sfidare il nuovo capitalismo” rappresenta, a mio avviso, un punto di interesse vitale per chi, come noi, si trova in un contesto in cui gran parte della sinistra politica ha perso di vista questa fondamentale nozione.

Conclusioni

Ridare dignità, rappresentanza politica e forza sociale ai lavoratori – argomenta Fausto Bertinotti – è la conditio sine qua non per interrompere una spirale regressiva in termini politici, sociali ed economici, che ha preso il via nei primi anni ‘80 del Novecento e nella quale siamo tuttora immersi. Con l’aggravante, rispetto ad allora, dell’inasprimento delle crisi ambientali, delle violenze pandemiche e belliche, dell’inquietudine causata dall’imprevedibilità dello sviluppo delle nuove tecnologie. 

In una situazione caratterizzata dalla complessità e dall’interconnessione a tutti i livelli come quella che stiamo vivendo, allora, il lavoro (a partire dalla sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici, perché si possa finalmente lasciarci alle spalle la pagina tragica delle stragi sul lavoro) può e deve diventare un ambito di contesa generativo di relazioni e lotte comuni.  Perché oggi non si può difendere il lavoro senza pretendere la giustizia climatica, la fine delle discriminazioni di genere, la giustizia sociale e la sicurezza alimentare. E viceversa, naturalmente. Viene allora naturale pensare alle parole scritte da Luca Toschi per il suo contributo nel volume Eva, Adamo e l’albero della conoscenza. Si parla di un argomento apparentemente altro rispetto all’oggetto dell’intervista – la medicina genere-specifica – ma la logica è assolutamente sovrapponibile:

«Quella sindrome (l’ingiustizia storica che ha caratterizzato il genere femminile, n.d.a.), va detto con chiarezza, fu e in parte continua a essere una malattia di tipo sociale antica di millenni, che contagiò e continua a contagiare la nostra società. L’intero genere umano. Curare quella sindrome, di cui il femminile è la vittima per eccellenza, significa fare del femminile la cura, lo strumento di salute per l’intero sistema in cui viviamo. È la forza e la missione dei “deboli”, chiamati, battendosi per i loro diritti, a ridisegnare i diritti e i doveri di tutti».

 

Condividi