di Leonardo Caponi.

E' in atto il lamento dell'impresa. Respingere la massiccia offensiva al riaprire tutto subito di Confindustria, delle associazioni di categoria e di una parte consistente del mondo politico, a cominciare dalla destra, che, avendo mobilitato tutto lo schiacciante arsenale informativo di cui dispongono, assume anche toni demagogici e sguaiati, non è impresa facile, perché, tra molte mistificazioni, poggia su qualche fondo di verità. Si tratta di trovare un punto di equilibrio tra le ragioni, inviolabili, della salute e quelle del benessere economico sociale, senza le quali la salute serve a poco. A volersi togliere qualche sassolino dalla scarpa, la questione potrebbe essere liquidata in fretta. E' il mercato, bellezza! A indicare il fatto che gli imprenditori e le loro associazioni, fanatici dell'economia di mercato, dovrebbero sapere che l'anarchico modello economico, che hanno voluto, ha delle leggi, la prima delle quali è che, nel corso delle ristrutturazioni post crisi, c'è chi vive e chi muore. Quindi, di che si lamentano?
La sfacciataggine mascalzona con cui, di fronte al suo fallimento tragico, viene riproposta la teoria del “meno stato più mercato”, ha dell'incredibile. Il loro "lasciateci lavorare" o la lotta alla "burocrazia" è mirata, in realtà, ad una deregulation egoista, dissennata e insensata che, in un Paese come l'Italia già devastato da irregolarità e speculazioni di ogni tipo, provocherebbe una catastrofe, senza rimuovere le cause vere della crisi che non sono rappresentate dalla burocrazia. Il sistema delle imprese ha marciato, in Italia, sostanzialmente assistito dallo Stato alla media di 40mila miliardi di lire l’anno in passato e di decine di miliardi oggi per il finanziamento di leggi di incentivo o aiuti diretti. Se ci si aggiungono, come è giusto, i soldi per la cassa integrazione, che hanno dissestato l’INPS arricchendo gli imprenditori e gli appalti per le opere pubbliche (lo Stato è stato di gran lunga il maggiore investitore), si va a montagne di danaro trasferiti dal bilancio pubblico alle imprese (altro che spesa per le pensioni!). Oggi, quelle stesse grandi imprese del manifatturiero, che hanno lautamente usufruito di questo sistema e trasferito le loro sedi legali in Olanda, Montecarlo, Lugano o in altri paradisi fiscali per eludere ed evadere il fisco, si lamentano dello “Stato vessatore”; una faccia come il culo! Penso che venga rappresentata anche una sovrastima dei danni del fermo per il coronavirus. Ogni impresa chiude o rallenta la produzione per ferie, per periodi più o meno lunghi. Qui si tratta, in fin dei conti di due mesi. Il capitalismo italiano vede un intreccio e una ramificazione molto stretta tra industria e finanza (e informazione), per cui gli imprenditori sono nel contempo industriali e detentori di quote di banche e assicurative, si autofinanziano, spartiscono gli interessi e tengono legate a se le imprese piccole e medie col sistema della subfornitura, diffusissimo in Italia. A tal proposito ci si lamenta dei ritardati pagamenti dello Stato (ma quelli sono soldi sicuri) e non si dice una parola sui tempi di pagamento delle grandi imprese committenti, che sono il vero cappio al collo delle piccole imprese.
Questa cornice generale va tenuta presente nell’affrontare il tema dei finanziamenti alle imprese manifatturiere alle quali, escludendo le più grandi (perché i soldi non basterebbero e hanno canali propri di finanziamento), vanno distribuiti sulla base di progetti industriali seri e verificabili e sul calcolo delle ricadute occupazionali.
Il problema vero sono le imprese dei servizi (turistici, di ristorazione, alberghieri) e i piccoli esercizi commerciali e imprese artigiane. Anche in questo caso non serve un innaffiamento a pioggia, ma la concessione di aiuti rapidi ma ben calibrati, in modo tale che i soldi dello Stato, quindi di noi tutti, sia devoluto a buon fine.

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