di Massimo De Angelis(*) - ComuneInfo.

La storia dimostra che la difesa dai microparassiti che abitano i nostri corpi è sempre intrecciata con la resistenza ai macroparassiti, coloro che sono in alto e sfruttano, schiavizzano, umiliano. La storia mostra anche come gli effetti dei virus sono spesso utilizzati dai macroparassiti per disciplinare le moltitudini. Tuttavia, ricorda Massimo De Angelis, possono essere usati anche dal basso contro i macroparassiti, come accaduto con la peste nera nel XIV secolo. La crisi attuale può dunque migliorare qualcosa? Sì, se sapremo fare tesoro, ad esempio, della solidarietà emersa nei collettivi condominiali e negli ospedali, ma anche dei comportamenti più sobri e di cura verso noi stessi e gli altri che abbiamo cominciato a praticare.

n questi giorni è circolata sui social network una vecchia recensione di Peter Linebough di un libro del 1976 di William McNeill, Plagues and Peoples, pubblicato nello stesso anno e tradotto in italiano come La Peste nella Storia (Einaudi 1981). La cosa che mi interessa qui di mettere in rilievo dell’approccio di McNeill è la struttura generale del suo ragionamento storico, che parte dalle società preistoriche per arrivare alla fine del 1700.

McNeill nota che la nostra sopravvivenza dipende dalla resistenza a due tipi di parassiti, i microparassiti che abitano i nostri corpi (batteri, virus) e i macroparassiti (le classi dominanti) che in diversi contesti sfruttano, tassano, uccidono, schiavizzano, umiliano, ristrutturano dall’alto delle loro ragioni economiche. Qualsiasi tipo di parassita dipende dal suo ospite, dalla sua vitalità, e quindi è interesse del parassita non indebolire il suo ospite fino alla morte. Invece, un bilanciamento deve essere ottenuto e all’ospite deve essere permesso di vivere nella misura in cui produce un surplus per il parassita, micro o macro che esso sia.

Ci sono chiaramente molte differenze tra questi due tipi di parassiti. Per esempio, per il microparassita il corpo da attaccare è in primo luogo quello dell’individuo, mentre per il macroparassita, il corpo è in primo luogo quello composito e sociale. Ma nonostante questa e altre ovvie differenze, questa immagine pone le nostre vite e la nostra sopravvivenza nel mezzo di due campi di forza, uno a una scala superiore e uno a una scala inferiore, formando due contesti di azione e reazione, cioè di relazione, tra noi e due tipologie di parassiti. Nel mezzo di questi due campi di forza, ci sono le soggettività della moltitudine, le tante soggettività che si muovono vis-á-vis con questi due parassiti in determinate fasi storiche, coi loro tempi di ricomposizione e (re)azione, negli spazi e nelle reti che sono state in grado di produrre, seguendo i propri immaginari di vita e intagliando prospettive di sopravvivenza.

Così, se si guarda alla storia, una pestilenza può avere generato come conseguenza lo spostamento dei rapporti di forza a vantaggio delle classi subalterne (come per esempio in Europa dopo la Peste Nera nel XIV secolo, dalla quale nel 1381 scaturì in Inghilterra la rivolta dei contadini che produsse una crisi storica del feudalesimo). Al contrario, le epidemie portate dai conquistatori europei nelle Americhe hanno contribuito all’indebolimento della resistenza di popolazioni indigene sterminate da agenti patogeni mai sperimentati sui loro corpi come il vaiolo, il morbillo e l’influenza. Tra il 1492 e il 1600, è morto il 90 per cento delle popolazioni indigene nelle Americhe, cioè circa 55 milioni di persone, a causa sia della violenza dei conquistadores che degli agenti patogeni mai sperimentati prima dai corpi indigeni.

La lotta contro i macroparassiti

Il punto che vorrei sottolineare è che gli effetti dei microparassiti possono essere usati dalle moltitudini contro i macroparassiti, o al contrario possono essere usati dai macroparassiti per disciplinare le moltitudini. Chiamiamo questo, l’uso politico dei parassiti. Questo uso può avvantaggiare le moltitudini a lottare per vivere in un mondo migliore, o i parassiti a sopravvivere in un ambito dove meglio possono adattarsi e continuare a fare i parassiti.

Nel contesto attuale, l’uso politico dei parassiti passa in primo luogo per l’emergenza, che è legata alle forme di governance della nostra sopravvivenza. Ma in questo clima che ci vuole blindare anche necessariamente nel circuito casa-lavoro-consumo è importante attivarsi per ripensare la “normalita’” del post-emergency, contro quindi l’istituzionalizzazione dell’emergenza, ma anche contro le vacua speranza che il ritorno a ritmi e modalità di lavoro e consumo delle classi medie siano una normalità accettabile dal punto di vista sociale ed ecologico. Per cominciare a ragionare sul post-emergency, dobbiamo soffermarci ancora un po’ su ciò che questa emergenza ha messo in rilievo.

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Il coronavirus ha fatto sul modo di osservare la società quello che un evidenziatore fa sulla carta stampata: evidenzia differenze e relazioni.

Mentre il capitalismo neoliberista pone le responsabilità unicamente sugli individui, il coronavirus (così come altri casi di emergenza di salute, economica ed ecologica) rende ovvio l’impatto multiscalare differenziato sul corpo sociale, e il fatto che al neoliberismo, che in questi decenni ha intensificato la stratificazione sociale, ha ristrutturato ospedali riducendone le risorse e aumentandone i costi per i pazienti, le ragioni della cura non interessano molto. Nella normalità di oggi, l’impatto di riprodurre il corpo sociale non è distribuito in maniera equa. Così come non c’è equità negli effetti del coronavirus su diverse sezioni della popolazione. Ma questa mancanza di equità non è dovuta solo alla differenziazione qualitativa del corpo sociale che distribuisce iniquamente probabilità di contagio, guarigioni o morte (giovani e anziani, infermieri o cybernautici), ma anche nella differenziazione di accesso a risorse sociali e di quella di esistenti modalità relazionali.

I primi a essere contaminati sono nelle aree più globalizzate, a differenza di quelle meno globalizzate e interconnesse, ponendo in questione il dogma della globalizzazione neoliberale. Quelli che muoiono di più sono persone anziane, a differenza dei giovani, una differenza che si fa stridente nel momento in cui il medico deve decidere chi può vivere o morire assegnando la priorità dell’unico ventilatore polmonare per la rianimazione rimasta. Le categorie più deboli, come i precari della gig economy, sono i più colpiti nel reddito e nella sicurezza economica a seguito della misure restrittive al movimento prese dal governo. Per chi non gode della libertà e vive nelle prigioni sovraffollate, queste misure restrittive sono l’ultima goccia di una situazione da tempo insostenibile, vuol dire non poter vedere i propri cari, e, grazie al sovraffollamento, essere maggiormente esposti al virus. E via dicendo. Inoltre, bisogna ricordare che la governance di questa pandemia si fonda in gran parte sul lavoro (pagato male o non pagato) di molti lavoratori che assicurano la sopravvivenza del corpo sociale.

E se cambiamo contesto?

L’altra cosa evidenziata da questa emergenza è che la prevenzione e il contenimento della diffusione del virus dipende dall’essere consapevoli dei nostri contatti col mondo, con altre persone, cioè delle nostre relazioni sociali. L’enfasi sulla modalità delle relazioni sociali da intrattenere nel contesto di questa emergenza – stai a distanza, lavati le mani ecc. – è misura del virtuosismo del nostro stare al mondo insieme agli altri, nel contesto dato. Usciamo dall’emergenza, cambiamo dunque contesto, ed entriamo in quello di altre emergenze del nostro tempo: cambio climatico, giustizia sociale, precarietà, migrazioni. Cosa vuol dire in questi contesti concentrarsi sui rapporti sociali, e scoprire nuovi virtuosismi relazionali tra le persone e con la biosfera?

C’è dunque un grande bisogno di soggettività dirompente e creativa che si metta nella prospettiva di ricostruire la “normalità” sul principio relazionale di cura (per il corpo degli individui, per il corpo sociale e per ricomporre le sue stratificazioni, e il corpo politico, responsabile negli ultimi decenni di aver fatto man bassa di diritti acquisiti con lotte passate). La domanda che ci si pone è dunque questa: come può una nuova “normalità” essere costruita alla luce della crisi presente e nell’anticipazione urgente della necessità di affrontare le altre crisi, quella ecologica e quella sociale, che fanno più vittime di quella corrente in una prospettiva relazionale e di cura? Voglio sottolineare un nodo in particolare evidenziato dall’allerta del coronavirus. Il nodo della necessità di una narrativa sulla ridondanza.

Narrazione della ridondanza e fare comune

La parola ridondanza è generalmente associata a elementi di sistemi che non offrono utilità. Per esempio, gli esuberi di personale nelle ristrutturazioni, al fine di conseguire l’efficienza economica, sono chiamati appunto redundancies in inglese. Tuttavia, secondo altre ragioni legate alla cura del corpo sociale, e dei corpi individuali, la ridondanza è quello che ci permette non solo di affrontare la normalità con meno stress (contribuendo a rafforzare il sistema immunitario dei singoli), ma anche quella di affrontare la crisi di qualsiasi natura con molta più serenità. Con la ridondanza di persone e di elementi in sovrappiù rispetto alle mere logiche di profitto si genera una flessibilità più alta di quella misurata con logiche economiche e contabilistiche, aumentando la resilienza dei sistemi. I sistemi con maggior ridondanza possono anche avere maggior capacità creativa, stabilire reti più estese e intense di collaborazioni e, quando nasce il bisogno, mobilitarle con più efficacia. Questo al contrario dei modelli burocratici delle gerarchie di controllo dove i lavori sono ben definiti con un minimo di ridondanza e flessibilità non economica. Nella crisi corrente, la ridondanza la si sta costruendo grazie alla partecipazione di molti in circuiti di solidarietà, dai collettivi condominiali che si organizzano per fare la spesa alle persone più anziane, fino al multitasking di operatori sanitari che non si sentono di dover essere confinati nelle loro funzioni. Il fare in comune che generalmente segue i momenti di crisi è il segno che il corpo sociale ha bisogno di ridondanza.

A una scala più alta delle singole realtà produttive il nodo della ridondanza significa anche due altre cose. In primo luogo, la necessità di un reddito minimo per tutti, cioè di un algoritmo sociale, un meccanismo automatico, volto a contrastare l’impatto negativo di ogni possibile crisi (sanitaria, ambientale ecc.) sulle figure più deboli che, di volta in volta, si vengono a profilare a seconda del tipo di emergenza e della distribuzione sociale e territoriale dei suoi effetti. Agli occhi della logica neoliberale e di molti macroparassiti, un tale reddito incondizionato dalla ricerca di lavoro, è sinonimo di spreco di risorse. Tuttavia, in una prospettiva di governance della crisi, tale reddito è necessario non solo per gestire una nuova normalità con maggiore serenità, meno stress e maggiori risorse da investire in una nuova ondata di fare in comune costitutivo, ma anche in caso di nuove emergenze, sapere dal primo momento che, almeno fino a una certa misura, tutti sono tutelati.

Infine, occorre anche pensare alla ridondanza come principio di apertura della politica alla partecipazione plurale che occorre incentivare e promuovere. La partecipazione qui non come mero momento consultivo, ma come potenza relazionale costitutiva che trasformi sempre più gerarchie di controllo in sistemi multiscalari partecipati dove vige il principio della sussidiarietà.

Questa crisi può migliorare qualcosa?

La crisi di salute pubblica attuale ci ha messo davanti l’importanza cruciale di stare attenti alle relazioni. Allo stesso tempo, ci ha fatto notare come il neoliberismo abbia aumentato la vulnerabilità di corpi individuali stratificati e del corpo sociale in generale. Ci ha fatto accettare una certa razionalità di comportamenti più sobri e di cura verso noi stessi e gli altri.

Questa crisi finirà, ma non migliorerà nulla se alla sconfitta di un microparassita, lasciamo continuare ai macroparassiti la governance delle nostre vite, magari proprio attorno a quelle tecniche di controllo sociale sperimentate per combattere i microparassiti. Una governance che guarda alle relazioni si deve basare sulla cura e rifondare la nostra socialità e produttività su di essa.

(*) Docente di Economia politica e sviluppo presso la University of East London, Massimo De Angelis vive tra l’Appennino modenese e Londra. È autore di un testo al centro della discussione mondiale sui commons: Omnia Sunt Communia: On the Commons and the Transformation to Postcapitalism. Ha aderito alla campagna di sostegno di Comune “Ricominciamo da 3“. Altri suoi articoli sono leggibili qui.

Immagine: “La giusta distanza”: olio e sabbia su tela. Dipinto di Valeria Cademartori

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