La discussione che la redazione di Volerelaluna assai opportunamente ci propone concerne la relazione fra l’Europa e la sinistra. Ovviamente questa è oltre modo necessaria, forse persino un po' tardiva, se si tiene conto che tra il 6 e il 9 giugno 2024 si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo. Tuttavia sarebbe sbagliato e riduttivo prendere l’argomento dal lato elettorale, perché confinerebbe immediatamente la riflessione entro l’ambito angusto delle alleanze da combinare per cercare di scavalcare l’asticella del quorum. Per cui tralascio completamente, almeno per ora, questo aspetto del problema.
E’ invece indispensabile chiarire che cosa si intenda per sinistra. Non per postulare categorie definitive, ma almeno per capirsi tra noi. Quando penso alla sinistra, nel nostro paese come nel più ampio contesto dell’Unione europea, prendo in considerazione quelle forze politiche che, al di là delle loro denominazioni, si pongono sul terreno di un’alternativa al sistema capitalista o quantomeno mantengono tale prospettiva nel loro bagaglio teorico e programmatico, anche se con gradualità e qualche approssimazione di troppo. Ne consegue che escludo da questo quadro quei partiti o formazioni politiche che quella prospettiva l’hanno abbandonata da un pezzo, evidenziando la loro fuoriuscita da quell’orizzonte anche attraverso il cambiamento di denominazione. Riferirsi al Pd è d’obbligo, quale caso di specie, poiché il suo travagliato percorso, segnalato anche da mutamenti di nome, ha evidenziato certamente una crisi di identità tuttora irrisolta, ma soprattutto la fuoriuscita dalla storia politica del movimento operaio. La definizione di partito socialdemocratico non si presta a precisare la natura di questa forza mancandone molte delle condizioni che storicamente hanno contrassegnato la storia della socialdemocrazia europea, in primo luogo un consistente radicamento tra la classe operaia del rispettivo paese. Il che non è più per quanto riguarda il Pd. Piuttosto si può assumere un termine usato da Riccardo Bellofiore, quello del socialliberismo – cosa ovviamente del tutto diversa dal liberalsocialismo – che si caratterizza non certo per promuovere il superamento del capitalismo, ma casomai per regolamentare il mercato, compreso quello finanziario, in un quadro, spesso contradditorio con il precedente obiettivo, di liberalizzazioni che comprimono lo spazio pubblico fino a costringerlo alla marginalità o a una funzione ancillare rispetto al capitale privato interno e internazionale, con una priorità posta sul pareggio di bilancio dello stato, fino ad averne promosso la costituzionalizzazione – come nel caso italiano, con la modifica dell’art.81 Cost. – con evidente riduzione dei margini per la spesa pubblica e sociale. Insomma una sorta di ordoliberismo, appena ammorbidito, ove l’intervento pubblico, quando c’è e se c’è, assume i criteri di quello privato e viene finalizzato allo sviluppo di quest’ultimo.
Precisato quale è il campo d’osservazione, va subito detto che le condizioni nelle quali si trova la sinistra d’alternativa sono a dire poco demoralizzanti. Le sue più forti formazioni non solo sono in crisi di idee e di risultati politici, ma addirittura vittime di scissioni e di evidenti cali di consenso. Basti pensare a Syriza, o alla Linke, o allo stesso Podemos per rendersene conto. La crisi di queste forze non poteva certamente aiutare il percorso del Partito della Sinistra europea che non solo non è riuscito ad emergere dallo stato di partito-contenitore, ma ha visto i suoi principali supporters e punti di appoggio deperire. Malgrado ciò la sua proiezione parlamentare ha mostrato recentemente segni di vitalità che meritano di essere ricordati, vista l’importanza dei temi sui quali si sono manifestati. Mi riferisco, ad esempio all’emendamento presentato da Manon Aubry e Josè Gusmao a nome del Gruppo della Sinistra che proponeva l’abrogazione del Patto di Stabilità, del Fiscal Compact, degli “stupidi” (copyright: Romano Prodi) parametri di Maastricht. O a quello avanzato da Marc Botenga, sempre del Gruppo della Sinistra, che voleva introdurre nel Trattato sull’Unione europea (Tue) un articolo simile all’articolo 11 della Costituzione italiana che prevede il ripudio della guerra. Ovviamente nessuna delle due iniziative ha avuto successo. Anche l’aula di Strasburgo non fa eccezione, ovvero si vota più per appartenenza politica, di gruppo e di nazionalità, che per reale convinzione e conoscenza della materia in oggetto.
Tra la costruzione di una sinistra europea e la definizione di una sua visione del futuro dell’Europa e conseguentemente di un profilo programmatico adeguato vi è un rapporto ormai inscindibile. Simul stabunt simul cadent. Di fronte al crescente disordine internazionale, o meglio al potente tentativo del capitale globale di uscire dalla crisi di quella fase di globalizzazione che abbiamo conosciuto dagli anni novanta in poi, emerge con forza rinnovata il tema della pace, tanto da porsi, non solo nella attuale drammatica contingenza, ma per sempre, come obiettivo determinante per qualificare idealmente e programmaticamente la sinistra a livello internazionale e nei singoli paesi. Non l’internazionalismo che abbiamo conosciuto e praticato all’epoca delle grandi e vittoriose lotte anticoloniali, quando si trattava di esprimere con ogni mezzo la solidarietà concreta verso popoli in lotta contro la potenza che li opprimeva e invadeva il loro territorio nazionale. Si tratta di qualcosa di più e di assai più complesso: si tratta di salvare il pianeta dalla possibilità purtroppo non irrealistica, che la sessantina di guerre attualmente in corso che costituiscono la terza guerra mondiale a pezzetti – secondo la celebre definizione di papa Francesco - si tramutino in un conflitto generalizzato su scala mondiale con il possibile uso di armi nucleari. Bisogna passare dal solidarismo per quanto generoso ad un protagonismo attivo che veda nella pace il proprio obiettivo irrinunciabile e allo stesso tempo il terreno più favorevole per lo sviluppo del conflitto sociale.
Non bastano, pur essendo indispensabili, i grandi movimenti di massa, come non bastò quello oceanico che si diffuse il 15 febbraio del 2003 in ogni angolo del globo, a fermare la guerra in Iraq, pur avendo lasciato una traccia indelebile nelle coscienze di tanta parte dell’umanità. Oggi una simile forza non si riesce a metterla in campo. Almeno per ora. Più complicata è l’individuazione dell’avversario, più segmentati, ma non per questo meno interessanti, i movimenti sociali. La cultura della pace deve necessariamente muovere dalla contestazione radicale che le due principali guerre in corso, quella in Ucraina e quella in Palestina, possano essere rappresentate come uno scontro fra Occidente e Oriente, come una contesa fra libertà e dispotismo, fra democrazia e autocrazia, come già scriveva nel 1953 Ernst Junger. Anche perché, come ha rivelato persino una recente indagine Ipsos, il deterioramento della democrazia fino alla sua dissoluzione è un processo più che aperto nel conclamato Occidente. I punti focali della guerra sono oggi due. L’Ucraina e la Palestina. In entrambi i casi i rischi di un trascinamento verso scenari di guerra più ampi e letali sono all’ordine del giorno. Se in Ucraina la situazione è per ora di stallo dal punto di vista militare – condizione tutt’altro che rassicurante, perché può preludere a un salto di qualità della guerra dal punto di vista delle forze e degli armamenti in essa implicati – in Medioriente i fronti si stanno allargando su scala più che regionale. Al genocidio della popolazione palestinese e all’urbicidio di Gaza, si aggiunge la situazione potenzialmente esplosiva sul confine di Israele con il Libano, mentre nel Mar Rosso si apre uno scontro bellico di proporzioni imprevedibili, con l’intervento contro gli assalti Houthi di un task force statunitense, di cui fanno parte due navi italiane. Il nostro paese è trascinato in guerra su tutti i fronti, non solo tramite l’invio incontrollabile dal Parlamento di armi in Ucraina, ma anche con la presenza di unità navali in quel mare così importante per i commerci internazionali su cui prospera il capitale globale.
In entrambi gli scenari di guerra l’obiettivo immediato è il cessate il fuoco, seguito da trattative di pace con la presenza attiva dell’Onu. Ma anche per obiettivi così immediati e vitali serve che sullo scenario mondiale, nel passaggio dall’unipolarismo al multipolarismo, si impongano soggetti istituzionali e statuali e non solo sociali. Gli ultimi mesi segnano una rinascita dei Brics e questo non può che essere un fatto positivo, al di là della diversità e della contradditorietà delle loro situazioni interne. Mentre l’Europa appare sempre più appiattita su un mortificante atlantismo. La costruzione di una sinistra europea passa in primo luogo da qui. Dallo sforzo, non semplice e non impossibile, di smuovere la Ue dalla cuccia dell’atlantismo verso un ruolo di pace sullo scenario mondiale. Pensare che un simile compito possa essere giocato dai singoli stati è contraddetto dal loro comportamento anche recente. Sia per quanto riguarda il suo ruolo politico nel mondo, sia per ciò che concerne i suoi assetti istituzionali e di governance, la via per svicolarsi dalla mediocre alternativa fra l’intergovernativismo della Merkel e l’appello ad una maggiore unità politica, fiscale e militare (con accento, ahimè, su quest’ultimo punto) evocate recentemente da un redivivo Mario Draghi, non è certamente la regressione all’Europa delle nazioni propugnata dalla Meloni, quanto appunto l’assunzione di un protagonismo nell’azione di pace.
Ma il mondo non è minacciato solo dalla guerra. Il sostanziale fallimento di Cop28 riaccende il segnale di pericolo sempre più estremo sull’alterazione del clima, mettendo in forse la sopravvivenza delle specie viventi. Il tema climatico si radicalizza e con esso anche le forme di lotta. Scriveva agli inizi del secolo Fredric Jameson che “oggi ci sembra più facile immaginare il deterioramento completo del pianeta terra e della natura che il crollo del tardo capitalismo” descrivendo ironicamente una pericolosa scissione culturale. Per una sinistra del XXI secolo la lotta contro le alterazioni climatiche non può che concretizzarsi contro la causa prima e ultima che le provocano, ossia il capitalismo globale nelle sue varie e multiformi espressioni, da quella estrattiva a quella cognitiva. Il legame di questo tema con quello della pace è racchiuso nel possibile fungo atomico. Non si tratta di scegliere l’esito della propria piccola comunità, come mi è accaduto recentemente di leggere (vero Bifo?), al contrario serve innervare il conflitto sociale di questi obiettivi, sapendo che il tema energetico in ogni caso si gioca a livello sovrannazionale, a cominciare da quello europeo.
Non esiste un sindacato europeo all’altezza di un simile compito. Ce lo spiegava tempo addietro anche Bruno Trentin. Ma esiste la possibilità concreta che su questo fronte si stabilisca una nuova alleanza fra generazioni, movimenti e componenti sociali, capace di influire o quanto meno condizionare le scelte anche delle istituzioni europee. E. nello stesso tempo, di superare positivamente la curvatura economicista che ha caratterizzato la concezione della lotta di classe per un lungo periodo della storia del movimento operaio. Anche sotto questo aspetto la lotta delle donne. dagli Usa alla Polonia, per citare casi, condizioni e modalità diversissime, ha dimostrato l’esistenza di quella che è stata chiamata l’internazionale femminista, quale soggetto portante e decisivo di una cultura e di una pratica anti patriarcali e anticapitaliste.
Non può esistere una sinistra senza un radicamento sociale, ovvero senza che strati di popolo non vedano in essa il punto di riferimento, le sintesi politiche dei loro bisogni, la difesa attiva e l’ampliamento dei loro diritti. Ma cercare la propria base sociale all’interno dei confini del proprio paese significa restare prigionieri della geopolitica dello stato-nazione, in contraddizione con le capacità di diffusione dei movimenti reali nella dimensione globale. Qui si impone un altro punto caratterizzante di una sinistra e un terreno d’azione concreto quanto immediato nello scacchiere europeo e mediterraneo. La difesa dei diritti dei migranti non è solo un fatto di elementare umanità oggi però messa arcignamente in discussione dal cinismo delle classi dominanti (“la pietà l’è morta”) è un punto strategico identitario di una sinistra che voglia agire in Europa. Nello stesso tempo va tenuta in conto la soggettività dei migranti, il loro portato di cultura e di sentimento nei processi di attraversamento dei vari confini o di integrazione nei tessuti sociali dei singoli paesi. Sono insomma parte di quel più grande soggetto sociale cui la sinistra deve fare riferimento.
Si obietterà che le condizioni dell’Unione europea sono ben diverse, come anche dimostrano le discussioni attuali sul patto di stabilità o sui futuri assetti istituzionali. Vero, ma che gli accordi di Maastricht siano una gabbia di ferro intangibile è contraddetto dalle stesse pratiche seguite negli ultimi tempi di fronte alle crisi sanitarie ed economiche dagli organismi europei, quanto dalla intenzione di modificare, anche se spesso in peggio, le regole di Maastricht. Se ci si fosse attenuti ad una sorta di assolutizzazione del realismo il Manifesto di Ventotene, scritto in un’Europa in mano al nazismo, non avrebbe mai visto la luce. Del resto un paio di decenni prima Antonio Gramsci scriveva: “esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione possono svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola ‘nazionalismo’ avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale ‘municipalismo’” (Quaderni del carcere. Quaderno 6, Miscellanea 1930-1932).
 

Fonte: Volere la Luna on line

Condividi