di Maria Pellegrini.

A Sulmona dal 3 al 6 aprile si è svolto un Convegno internazionale per il bimillenario della morte del poeta latino Ovidio, nato in questa città nel 43 a. C. e morto nel 17 d. C. (o agli inizi del 18) a Tomi, l’attuale Costanza sul Mar Nero. Non si sa con precisione per quale motivo l’imperatore Augusto lo avesse condannato alla relegazione in una terra che il poeta nelle sue ultime opere descrisse come barbarica e inospitale.

Al contrario di tanti intellettuali inizialmente nemici di Augusto, poi divenuti suoi amici o sostenitori, egli - politicamente disimpegnato - finì la sua vita in esilio, dopo aver più volte chiesto e mai ottenuto il ritorno a Roma. Al motivo di tale condanna Ovidio accennò in modo vago in un passo delle sue opere scritte a Tomi, affermando di essere stato punito a causa di due colpe: un “errore”, forse il coinvolgimento in uno scandalo in cui era implicata la stessa famiglia imperiale, e un “carmen”, sicuramente una sua opera rivelatrice di una concezione del mondo disinvolta, sensuale, garbatamente cinica, in contrasto e senza possibilità di conciliazione con il programma di restaurazione morale perseguito da Augusto.

Tutti gli autori di età augustea, anche i più grandi, furono ossessionati dal ricordo e dal culto degli antenati, e vòlti agli ideali del “buon tempo antico”. Orazio, Virgilio, Livio, e gli elegiaci Tibullo e Properzio rievocando l’antica “virtus” romana e la sana austerità del “mos maiorum”, il costume degli antenati, vagheggiavano romanticamente la Roma agreste. Anche Ovidio avvertiva la differenza tra il presente e il passato, ma, soddisfatto del tempo in cui viveva, scrisse con tono quasi di sfida: “Altri amino il passato, io sono contento di vivere in questa età che si addice ai miei costumi.” Forse per eccesso di sicurezza o leggerezza che gli derivavano dall’essere stato, per ragioni di età, estraneo al travaglio delle guerre civili, si comportò con spregiudicatezza dichiarando apertamente di amare gli agi e le raffinatezze della società mondana della capitale. La vocazione libertina di Ovidio è prepotente, ma i toni del suo poetare sono sempre lievi, i versi corrono limpidi e fluidi. Gli “Amores”, l’esordio poetico, scritto quando ancora non ha vent’anni manifesta assoluta eleganza formale, ma anche ironia, insofferenza nei confronti della morale tradizionale, senso acutissimo del divertimento dei sensi e insieme licenziosità di costumi, ma senza alcuna concessione alla scurrilità, o peggio, all’oscenità.

In occasione di questo Bimillenario non vogliamo qui ricordare l’Ovidio “tenerorum amorum lusor”, il cantore dei teneri amori, come egli amava chiamarsi, ma dare - fra la sua vasta produzione poetica - un breve accenno all’opera di maggior impegno, le “Metamorfosi”, definita “Bibbia dei laici”, “capolavoro di realismo fantastico”, “romanzo mitologico”, “storia dell’umanità”. Sterminata cultura mitologica, prodigiosa fantasia, qualità formale, e soprattutto un gusto raffinato e al tempo stesso quasi infantilmente incantato per le favole del mito, sono i pregi di questo poema in esametri, appartenente al genere dell’epica mitologica, nuovo nella letteratura latina.

Alla sua stesura il poeta lavorò dal 2 all’8 d.C., anno nel quale, all’età di cinquanta anni, lo colpì l’editto di relegazione a Tomi, inizio di un periodo di grande amarezza. La condizione dell’esule, considerata dal poeta una specie di morte civile, segnò la fine della sua vita mondana e brillante.

Il poema si compone di quindici libri, complessivamente di circa dodicimila versi. Contiene circa duecentocinquanta storie, alcune brevi, altre molto lunghe. La finalità è “narrare di forme mutate in corpi nuovi”, come scrive l’autore nel proemio chiedendo agli dei di essere propizi alla sua impresa che prende le mosse dall’origine del mondo a partire dal caos primigenio. Procedendo da lì il racconto “si snoda ininterrotto” fino ai suoi tempi. Nonostante la frammentarietà dei singoli miti, unitaria è l’atmosfera. La narrazione attraversa tutte le età mitiche dell’uomo sulla terra: l’età dell’oro al tempo di Saturno quando si viveva un’eterna primavera, non vi era la guerra e l’uomo oziava, dovendo solamente raccogliere i frutti spontanei della terra; seguì, con l’avvento di Giove, l’età dell'argento, allora per la prima volta gli uomini si rifugiarono nelle spelonche. La terza, quella del bronzo, fu più violenta: cominciarono ad apparire le armi e con esse le guerre; ma l'età del ferro fu la peggiore: l’uomo compì ogni tipo di frode, insidia, violenza, e sentì cupidigia di ricchezza. La terra fu suddivisa tra i popoli e i mari solcati da navi. Le guerre sconvolsero la vita degli uomini. Il diluvio pose termine a queste fasi. Solo Deucalione e Pirra si salvarono e l’umanità riprese il suo cammino con nuove generazioni. Attraverso molteplici vicende di personaggi che appartengono per lo più al mito greco si arriva alla divinizzazione di Giulio Cesare trasformato in astro e alla celebrazione di Augusto, ormai dominatore del mondo, ma l’adesione all’ideologia augustea non appare particolarmente sentita dal poeta, come invece era stato per Virgilio.

Ovidio dunque rinunciò all’epica guerresca, anche se non mancano spunti di questo filone in cui le guerre sono rivisitate nell’ottica della metamorfosi che è il filo conduttore e il principio unificatore del poema: semidei, eroi, uomini comuni sono mutati in animali, alberi, fiori, minerali, fonti d’acqua, oppure in puro suono, come nel caso della ninfa Eco.

Fino a tutto il Rinascimento l’opera è letta e apprezzata dai più importanti autori: Dante colloca Ovidio con Omero, Orazio e Virgilio fra i poeti sommi del Limbo; Petrarca e Boccaccio lo ammirano per la sua arte. Nei secoli XVI-XVII gli influssi delle “Metamorfosi” sono evidenti nel teatro elisabettiano e Ovidio è il poeta preferito da Shakespeare. I nostri poeti crepuscolari da Corazzini a Gozzano sino al Pascoli amano immergersi in queste favole. Da più di duemila anni il poema “Metamorfosi”, opera epica nella forma, ma aderente alla sensibilità del suo tempo, affascina, seduce, ispira ed esprime la vittoria della fantasia, la capacità di creare favole, l’abilità d’introspezione nei labirinti dell’animo umano. Ovidio non narra cambiamenti naturali ma con potenza immaginifica descrive trasformazioni fantastiche che hanno influenzato in seguito la poesia, la letteratura, l’arte figurativa, il teatro di ogni epoca, rendendo quei miti immortali.

Chi non conosce la storia di Narciso che si consuma nell’amore di se stesso fino a trasformarsi nel fiore omonimo; di Dafne, mutata in alloro per sfuggire all’amore di Apollo; di Arianna abbandonata su una spiaggia deserta da Teseo che lei aveva aiutato donandogli il filo per uscire dal Labirinto: Bacco ne ha pietà, se ne innamora e la muta in costellazione; di Filemone e Bauci, gli anziani coniugi che si amano teneramente e chiedono a Giove di morire e rimanere sempre insiemi: sono accontentati e mutati in tiglio e quercia; di Niobe, che fiera della sua numerosa prole offende Latona, ma la dea si vendica facendo sterminare tutti i figli da Apollo e Diana: il dolore la trasforma in una roccia. In incalzante successione si susseguono miti di teneri amori coniugali, di passioni respinte, di orribili vendette, di crudeltà maschili verso la donna amata, o storie di fiori nati da trasformazioni fiabesche. Tutti i protagonisti sono espressione di passioni o infelicità degli uomini, il loro bisogno di tenerezza, di incantesimi, ma anche il loro compiacimento per torpide ossessioni, sentimenti irrazionali, passioni morbose.

Ovidio, il cantore dei tenerorum amorum, nei racconti delle “Metamorfosi” dipinge l’amore come un fuoco che arde nei cuori e diventa spesso “furor”, un impulso cieco, irrazionale, contro il quale è difficile lottare: è il caso di Medea, Scilla, Mirra, tutte donne al centro di tragiche vicende di amore e morte. Scrive Piero Berardini Marzolla nell’Introduzione dell’opera da lui curata per Einaudi: le “Metamorfosi” sono in fondo un poema pervaso da una profonda tristezza; l’affermazione può apparire sorprendente a chi si lasci trasportare dalla vivacità dei toni e dei colori, dalla piacevolezza del racconto, ma lacrime copiose rigano i volti dei personaggi e ogni trasformazione è un dramma più doloroso della morte vera, per la sua ambiguità, ciò perché, come dice Mirra, non è né vita né morte”.

E’ davvero difficile rendere giustizia in poche pagine a un’opera così ricca e brillante. Ci auguriamo di aver invogliato il lettore a immergersi nelle magiche atmosfere di questo poema.

 

NOTA nell’immagine: Apollo e Dafne di Bernini, Roma, Galleria Borghese.

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