di Davide Orecchio - Nazione Indiana.

(Pubblichiamo un estratto dal volume di Maria Pellegrini, Antica gara tra un cuoco e un fornaio, Giuliano Ladolfi editore, 2019. «Con la stessa competenza, destrezza e puntualità con cui un maître di vasta esperienza alberghiera organizza il servizio di sala nel ristorante di un grand hotel, Maria Pellegrini dispone all’interno di questo suo fragrante volume due lunghe tavolate virtuali, l’una riservata alle specialità culinarie più o meno “esotiche” tramandate da autori greci, l’altra contrassegnata dai cibi (di volta in volta semplici, rustici e salubri o, al contrario, sovrabbondanti, cervellotici e nocivi) caratteristici della cucina e del gusto romani.[…] Può un pranzo o una cena signorile cominciare senza l’offerta di un antipasto di speciale, insolita, stuzzicante squisitezza? Quello “cucinato” da Maria Pellegrini consiste in una sorprendente prelibatezza, a tal punto sfiziosa da meritare di essere scelta come “piatto” eponimo su cui modellare il titolo dell’intero volume. Una “chicca”, così viene spontaneo definire […] il poemetto, finora noto solo a un manipolo di addetti ai lavori, Iudicium coci et pistoris iudice Vulcano, cioè Contrasto fra il cuoco e il fornaio: giudice Vulcano. Si tratta di un testo alquanto bizzarro, che consta di 99 esametri non tutti di impeccabile fattura, di epoca ipoteticamente oscillante fra il II e il V secolo d.C., la cui composizione è rivendicata in prima persona da un fantomatico Vespa» – dalla Prefazione di Marco Beck).

Farai una bella cenetta, Giulio Ceriale, a casa mia:
se non hai nessun invito migliore, vieni. (Marziale)

Si attribuisce a Epicuro un’affermazione sull’importanza della condivisione dei pasti che per la civiltà greca ha una grande importanza:

«Prima di cercare qualcosa da mangiare e da bere, dobbiamo trovare qualcuno con cui condividere i nostri cibi, perché mangiare da solo significa fare la vita di un leone o di un lupo.»

La dimensione conviviale di un pasto ricopre un ruolo fondamentale, consumare il cibo in compagnia e conversare aumenta il piacere della tavola sin dai tempi dell’antichità greca. Nei banchetti omerici accanto al padrone di casa c’è un’altra figura rilevante: l’aedo. Il suo compito è allietare i convitati con il suono della cetra o della lira o con il canto che a volte egli crea in modo estemporaneo. Ricordiamo, nell’Odissea, il cantore Demodoco alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, quando durante il banchetto in onore di Odisseo, accolto alla reggia pur essendo ignota la sua vera identità, canta le vicende della guerra di Troia già diventate storia e leggenda. Si commuove il naufrago lontano dalla sua terra, Alcinoo se ne accorge e rivolge ai presenti parole che dimostrano il suo rispetto per l’ospite anche se straniero:

«Ascoltatemi, guide e capi dei Feaci,
Demodoco lasci ora la sua cetra armoniosa
perché non piace a tutti che lui canti queste cose.
Da quando siamo a cena
e si è alzato a cantare il meraviglioso cantore,
per tutto questo tempo, l’ospite non ha mai smesso
il suo triste pianto: certo una gran pena gli opprime il cuore.
Dunque, si fermi,
perché possiamo godere tutti: l’ospite e noi che lo ospitiamo.
Sarà meglio così, perché proprio per un ospite così degno
di rispetto si fanno queste cose,
come l’aiuto per il viaggio e i doni che gli offriamo
in segno di amicizia: lo straniero, il supplice, è come un fratello
per ogni uomo che abbia un po’ di cuore.»[1]

Per accogliere Odisseo:

«Alcinoo sacrificò dodici pecore,
otto maiali dalle zanne bianche
e due buoi dalle zampe ricurve:
li scuoiarono, li tagliarono, li arrostirono
e prepararono un ricco banchetto.
L’araldo tornò accompagnando il fedele cantore,
che la musa amava molto»[2].

Nei banchetti omerici la posizione dei partecipanti è quella seduta, a partire dal VII secolo a. C. si assume quella reclinata che poi fu seguita anche dai romani dopo il loro contatto con la Grecia.

La letteratura antica ci dà testimonianza di grandi banchetti con numerosi partecipanti e ricco elenco di portate, ma anche di cene tra amici dove regna armonia, semplicità e moderazione. È stabilito anche il numero ideale di partecipanti. Perché una cena sia ben riuscita Archestrato, l’autore dell’Hedyphagetica, consiglia di riunire tre o quattro persone scelte, al massimo cinque, per evitare di trasformare il banchetto «in una tenda di mercenari che vivono predando», come ricorda Ateneo nei Deipnosofisti (1, 4e).

Plutarco, noto per le sue Storie parallele, sostiene nel Simposio dei sette sapienti:

«L’uomo avveduto non si presenta a banchetto come un vaso vuoto, ma viene con il proposito di fare ed ascoltare discorsi seri o divertenti, per intrattenersi su argomenti che di volta in volta l’occasione suggerisce ai convitati, se questi intendono trascorrere il tempo godendo della reciproca compagnia».

Inoltre afferma – attraverso la voce di un convitato, Nilosseno – che il padrone di casa debba comunicare in precedenza il tema della conversazione e l’elenco dei convitati, in modo che si sappia chi si troverà come compagno di tavola e di cosa si parlerà durante il banchetto:

«Se un piatto non è buono, lo si può rifiutare; se un vino è di cattiva qualità, si può sempre ripiegare sull’acqua; ma un convitato pesante e triviale che vi dà il mal di testa, annulla e guasta il piacere di qualsiasi vino, di qualsiasi cibo, la grazia di qualunque musico, né ci si può in questo caso avvalere di quell’espediente che consiste nel vomitare ciò che provoca tanto disgusto. A volte, anzi, perdura anche tutta la vita, come perdura in bocca un cattivo sapore, un’antipatia reciproca sorta a banchetto a causa di offese che, per un moto d’ira, sono state scambiate tra i fumi dell’ubriachezza.[…] Perciò fece benissimo Chilone, quando fu invitato, a pretendere di sapere chi fossero gli altri commensali sostenendo che quando si sale su una nave o si prende parte a una spedizione militare si è costretti a sopportare uno sciocco come compagno di traversata o di tenda, diversa faccenda è partecipare a un banchetto al quale si può evitare di partecipare. Se sei una persona assennata non vorrai unirti a sconosciuti.»[3]

Anche in età romana Varrone, l’erudito scrittore latino la cui copiosa opera fu dominata dal proposito di recuperare il passato, difenderne la tradizione e i valori, consiglia quale sia il numero degli invitati, al massimo nove, e ritiene necessario stabilire l’argomento della conversazione:

«È bene che il numero dei convitati cominci dal numero delle Grazie e arrivi a quello delle Muse, ossia che parta da tre e si fermi a nove […] Quanto poi al convito in sé, sono quattro i suoi requisiti: si può dire che sia perfettamente riuscito quando sia stata procurata una combriccola elegante, accurata la scelta del luogo, curata l’ora e non trascurata la preparazione. È bene scegliere convitati che non siano né chiacchieroni né muti perché l’eloquenza sta bene nel foro e in tribunale, ma il silenzio s’addice alla camera da letto, non al convito. Sono da scansare gli argomenti angosciosi e intricati, e si deve parlare di cose divertenti, gradevoli, che all’utilità uniscano un certo grado di attrattiva e di piacevolezza, così che la nostra mente ne esca illeggiadrita e ricreata.»[4]

Lo stesso Orazio d’età augustea, considera ideale una cena modesta, e ne indica gli argomenti sui quali intrattenersi:

«S’intavola il discorso non su ville e su palazzi altrui,
non su Lepore (se balla male o no). Ciò che discutiamo è qualcosa
che ci tocca più da vicino, e che sarebbe deprecabile ignorare:
sono le ricchezze o la virtù a rendere gli uomini felici?
Che cosa c’induca alle amicizie: l’interesse o un principio morale?
Qual è la natura del bene, e quale la sua massima espressione?»[5].

Con una rapida scorsa tra autori greci e latini di diverse età, segnaliamo alcuni epigrammi o carmi ispirati all’invito a cena. Con il termine vocatio ad cenam si è soliti definire un componimento letterario in cui l’autore si rivolge direttamente a qualche conoscente o amico per invitarlo a una cena, pasto principale dei romani, che avviene nelle prime ore del pomeriggio. All’apostrofe diretta all’invitato segue l’elenco delle vivande che saranno servite, la precisazione del luogo d’incontro e l’assicurazione che tutto sarà improntato a semplicità del pasto in un’atmosfera gioiosa e spensierata.

Di Posidippo uno dei maggiori rappresentanti dell’epigrammistica del III secolo a.C., l’Antologia Palatina ci ha conservato soli sedici epigrammi. Fra questi ne ricordiamo uno che non è proprio un invito, ma l’organizzazione fra amici per una bevuta di buon vino di Chio proveniente dall’isola omonima:

«Quattro bevitori; e venga la ragazza di ciascuno.
Per noi otto una sola bottiglia di Chio non è sufficiente.
Ragazzino, va’ da Ariste e digli di mandarci
quanto prima mezzo fiasco perché due congi li faremo fuori
sicuramente, ma penso anche di più. Su spicciati,
alle cinque abbiamo il nostro appuntamento. »[6]

Un epigramma molto simili a questo di Posidippo appartiene ad Asclepiade, nativo di Samo (ca. 320 a. C.) uno dei primi autori greci di epigrammi letterari dell’età ellenistica:

«Corri al mercato, Demetrio, cammina! Al negozio d’Aminta
chiedi tre maccarelli, dieci muggini,
di gamberetti gibbosi (ma contali tu, di persona)
prendine ventiquattro e torna qua.
Va’ da Taubòrio: una giunta di sei coroncine di rose.
e a Trifera di’, passando, che si sbrighi».[7]

Parodia del codice di comportamento di chi rivolga un invito a cena è un carme di Catullo (siamo in età cesariana) – con un curioso invito rivolto all’amico Fabullo:

«Bene cenerai da me, o mio Fabullo,
tra pochi giorni, se gli dei ti assistono,
se porterai con te una buona cena
abbondante, non senza una fanciulla
splendida, e vino e sale, e tante risa.
Bellezza mia, se porti ciò che dico,
potrai cenare bene: il borsellino
del tuo Catullo infatti abbonda solo
di ragnatele. Avrai in cambio sincero
affetto, e quanto c’è di più dolce
e raffinato. Ti darò infatti un profumo,
dono di Venere e degli Amorini alla mia bella.
Quando lo odorerai, Fabullo, pregherai
gli dei di farti diventare tutto naso.»[8]

Catullo capovolge il modello dell’invito a cena, ribaltando il rapporto tra invitante e invitato. Prega infatti l’amico Fabullo di portare bonam atque magnam cenam, non sine candida puella et vino et sale in compenso riceverà amore sincero ed un profumo che, al solo sentire l’odore, Fabullo vorrà diventare tutto naso. Catullo sembra essere ispirato dall’epigramma di Filodemo, filosofo e poeta greco, venuto a Roma intorno al 75 a.C. Protetto dalla famiglia dei Pisoni, dirige la scuola epicurea a Napoli ed è maestro di Virgilio. Nell’Antologia Palatina sono raccolti alcuni suoi epigrammi. In questo che citiamo, egli invita Pisone per la festa degli epicurei che si celebra il venti di ogni mese anche se qui si allude alla festa annuale più solenne (“annuale vigesima”) in ricordo della nascita di Epicuro:

«Al suo minuscolo nido ti vuole, mio dolce Pisone,
domani all’ore nove, l’amico tuo poeta,
per festeggiar l’annuale vigesima. È vero che porti
ben più laute vivande e brindisi di Chio,
ma troverai qui gli amici più schietti, e qui sentirai
colloqui più gustosi che in terra dei Feaci.
Dunque se a me tu vuoi rivolgere gli occhi, o Pisone,
con poco passeremo la festa allegramente.»[9]

In età augustea, il tema dell’invito a cena rallegrato da semplice vino, lo troviamo anche in un carme di Orazio che vuol porre in rilievo soprattutto la modestia e la semplicità con le quali egli vive. I vini cui è abituato Mecenate invece sono fra i migliori:

«In modesti bicchieri t’offrirò
un comune vinello di Sabina
che io stesso ho chiuso e sigillato in greca
anfora, o Mecenate». […] Tu bevi cecubo e vini
premuti dai torchi di Cale,
ma alle mie tazze non arridono
colli formiani o viti del Falerno.»[10]

In una epistola Orazio invita a cena Torquato di cui sappiamo soltanto che è di famiglia nobile e avvocato, ma il tono confidenziale fa pensare a un amico, e la cura con cui si appresta ai preparativi suppone si tratti di persona importante e raffinata. Il motivo dell’invito a cena è un topos della poesia lirica, in questa epistola sono presenti le molteplici tematiche oraziane collegate al banchetto, al bere, al benefico influsso del vino capace di procurare il controllato piacere dell’ebbrezza, e all’amicizia che si manifesta nel desiderio di avere alla propria tavola amici veri, e il disprezzo della ricchezza con l’affermazione di preferire una cena modesta a una lussuosa:

«Se come invitato sei disposto a sdraiarti su un triclinio d’Archia,
se ti adatti a mangiare misto di verdura in una ciotola modesta,
t’attendo a casa mia, Torquato, in sul calar del sole.
Berrai vino travasato al tempo del secondo consolato di Tauro,
tra Minturno paludosa e Petrino in territorio di Sinuessa.
Se ne hai di migliore, portalo; altrimenti accetta la mia offerta.
Già da un po’ sfavilla il focolare, in tuo onore sono lucidi gli arredi.
Accantona le fallaci speranze, le rivalità nell’accaparrare ricchezze,
il processo di Mosco: domani si festeggia il compleanno
d’Augusto e potremo dormire a sazietà, non avremo alcun problema
a prolungare la notte d’estate intrecciando cordiali discorsi.
Che senso ha il benessere, se non è consentito di goderne?
Chi pensando all’erede fa risparmi e conduce vita troppo austera,
va a braccetto con un pazzo: ma io, a bere e spargere fiori
voglio essere il primo, anche se qualcuno mi darà dell’incosciente.
Quali sigilli non sa sciogliere l’ebbrezza? Mette a nudo i segreti,
alle speranze dà parvenza di realtà, fa del codardo un combattivo,
toglie dalle spalle il fardello dell’angoscia, dona ispirazione.
Chi c’è che non abbia attinto da calici fecondi l’eloquenza,
che non sia stato liberato dalla morsa della povertà?»

Il poeta assicura che ci sarà una mutua affinità tra i commensali, che tutto sarà pulito, in ordine e infine conclude:

«Sappimi dire che posto gradiresti; poi da’ un taglio al tuo lavoro.
Se nell’atrio vedi dei clienti, esci dalla porta di servizio.»[11]

Un’evoluzione dell’invito a cena la troviamo in Giovenale. Nella satira XI il poeta si rivolge all’amico Persico affinché si rechi nella sua casa di campagna per mangiare insieme, ma i suoi versi sono un’occasione per lamentare il vizio della gola che rovina tanti personaggi; la sua è rude invettiva contro i nobili romani e le loro abitudini alimentari; i ricchi hanno ormai perduto, per eccesso di raffinatezza, anche il gusto di mangiare ed anche i profumi e gli ornamenti floreali sono diventati nauseabondi per la profusione che genera nausea. Giovenale intende in modo diverso il senso di un convito che deve essere un incontro di spiriti congeniali, con vivande semplici che non escludono il piacere della buona tavola. Ha nostalgia dell’equilibrio, la modestia degli antichi e il suo menu è un manifesto etico-gastronomico che riprende termini e movenze del Moretum pseudovirgiliano e del mito ovidiano di Filemone e Bauci. Egli si guarda dall’invitare un convitato superbo, perché non solo i cibi sono semplici e buoni, ma nessuno dei suoi oggetti è prezioso e anche il servizio da tavola è semplice. A portare a tavola le pietanze non ci sono raffinati schiavi greci ma rozzi servitori che tuttavia svolgono il lavoro con gentilezza:

«Per questo motivo, mi guardo dall’invitare un convitato superbo,
che mi confronta con sé, e quindi guarda dall’alto in basso
le cose mie modeste. Tanto è vero che io non ho un’oncia
di avorio, né i miei dadi e le pedine della dama sono fatti
di questo materiale, anzi anche i manici dei coltelli sono d’osso.
[…] Non ci sarà un Frigio oppure un Licio, nessuno ce ne sarà
che sia stato cercato presso il mercante straniero di schiavi:
quando tu chiederai da bere in un grosso calice
chiedilo pure in latino! Questo schiavo è figlio di un duro
pastore, quell’altro di un guardiano di buoi.» [12]

In un epigramma di Marziale c’è una rielaborazione parodica dell’invito di Catullo vissuto un secolo prima: è un certo Fabullo che con un rovescio delle parti ha dispensato ai suoi ospiti soltanto profumo senza offrire alcun cibo:

«Ieri ai commensali hai donato un buon profumo, lo confesso,
ma nulla sulla mensa hai poi tagliato. È da ridere l’esser profumati
e stare a pancia vuota. Chi non mangia e viene profumato, questi,
veramente, o mio Fabullo, a me sembra un morto imbalsamato.»[13]

«Giura Filone che non ha mai mangiato a casa sua.
È pura verità: se nessuno l’invita, egli non mangia.»[14]

All’amico Giulio Ceriale, promette una buona cena e ne anticipa le varie portate:

«Farai una bella cenetta, Giulio Ceriale, a casa mia:
se non hai nessun invito migliore, vieni.
Potrai rispettare l’ora ottava; faremo il bagno insieme:
sai quanto i bagni di Stefano siano vicini a casa mia.
Per prima cosa, per stuzzicare lo stomaco, ti sarà servita la lattuga,
insieme ai filetti tagliati di porro;
poi un tonno conservato, più grande di uno sgombro,
ricoperto da uova accompagnate da foglie di ruta;
non mancheranno uova cotte sotto uno strato di cenere,
né il formaggio rappreso nei forni del Velabro,
né le olive che hanno conosciuto il freddo del Piceno.
Basta per l’antipasto. Vuoi sapere il resto?
Mentirò per farti venire: pesci, molluschi,
tette di scrofa, uccelli grassi di cortile e di palude,
che Stella serve soltanto nelle occasioni particolari.
Ti prometto di più: non ti reciterò nessuna poesia,
neanche se tu volessi leggermi ancora la storia dei Giganti,
le tue Georgiche pari a quelle dell’eterno Virgilio.»[15]

Altri epigrammi di Marziale hanno come tema invitati a una cena di cui si elencano con ironia le scarse portate:

«Fummo in sessanta ad essere invitati ieri da te, Mancino,
e nulla ci fu a tavola imbandito, tranne un cinghiale: non le uve
che vengono lasciate sulle viti tardive o le mele cotogne
che gareggiano coi dolci favi, non le pere che pendono legate
con lunghi filamenti di ginestra oppur le melegrana di Fenicia
dal colore simile alle rose di breve vita, né la rustica Sarsina
mandò coni di cacio di latte ancor stillanti, né venne dagli orci
del Piceno la verde oliva, ma un nudo cinghiale e questo addirittura
piccolino, quale può essere abbattuto da un nanetto
con le mani inermi. Nulla, dopo di questo, fu servito»[16].

In un altro componimento nell’invito vi è un elenco puntigliosamente dettagliato delle portate, e costituiscono piuttosto l’antefatto del moderno menu:

«La mia tavola semicircolare ha posto per sette, siamo sei,
ci aggiungeremo Lupo. La contadina mi ha portato malve,
che il ventre faranno alleggerire, e verdure varie del mio orto.
Fra queste è la lattuga a cesto largo e un porro da tagliare,
non manca la menta ruttatrice, né la ruchetta che eccita all’amore.
Fettine d’uova sode guarniranno acciughine su un fondo di ruta
e vi saran di scrofa le tettine con salsa di tonno inumidite.
Questo per antipasto. Sulla mensa avrete solo un’unica pietanza:
un capretto strappato dalla bocca di un lupo disumano, costolette,
che non han bisogno d’un maestro di mensa per tagliarle,
e quelle fave che mangiano gli artigiani e freschi broccoletti.
Avrete un pollo e del prosciutto, avanzo di tre cene precedenti.
Quando sarete sazi, frutta matura avrete a piacimento
ed un limpido vino di una bottiglia di Nomento, invecchiato
sino al sesto anno sotto il console Frontino. Seguiranno scherzi
benevoli, franche parole che non vi faran temere o che vorreste
aver taciute. I miei convitati parleranno dei Verdi e degli Azzurri,
né i bicchieri ch’io farò riempire vi faranno finire in tribunale.»[17]

Gli epigrammi di Marziale sono spesso caratterizzati da un’aggressione verbale caustica e mordace. Ne ricordiamo alcuni:

«Ora che mi inviti a cena senza dovermi pagare come prima,
perché non mi viene servita la stessa cena che mangi tu?
Tu prendi le ostriche ingrassate dal lago Lucrino,
io succhio una cozza dopo averne rotto il guscio.
Tu mangi i porcini, io funghi buoni per i maiali,
tu ti dai da fare con un rombo io con un pesciolino.
Una tortora dorata ti sazia con le sue cosce gigantesche,
a me viene servita una gazza morta nella gabbia.
Perché, pur cenando da te, Pontico, non ceno con te?
Abolire la sportula? Bene, ma che almeno ci sia un vantaggio.
Cerchiamo se non altro di mangiare le stesse cose.»[18]

«Dimmi un po’, Ceciliano, sei matto? Inviti tutto il mondo
a cena, e poi i porcini li mangi solo tu. Lo vuoi sapere
un augurio degno della tua pancia e della tua gola?
Mangia un porcino come quello di Claudio imperatore.»[19]

«Non inviti nessuno a cena, o Cotta,
se non quelli coi quali hai fatto il bagno;
soltanto i bagni pubblici ti danno
ospiti. Ed io che mi meravigliavo
che tu non mi invitassi: ora capisco,
non ti sono piaciuto proprio, nudo.»[20]

«Io non lo so se Febo sia fuggito
dal pranzo e dalla mensa di Tieste,
noi fuggiamo il tuo pranzo, Ligurino.
E sì che la tua tavola è imbandita
superbamente, ma se leggi tu
non mi piace un bel niente. Non servirmi
rombi stupendi, o triglie da due libbre,
non voglio le ostriche né i funghi: taci.»[21]

«Inviti a cena trecento persone,
che non conosco e ti stupisci se
invitato non vengo, ti lamenti,
vorresti litigare. Ma Fabullo,
io da solo non ceno volentieri.»[22]

Ci sono anche i taccagni, come quello descritto con ironia da Marziale: l’avaro padrone di casa impone al cuoco di preparare per i suoi convitati interi pranzi a base di economica zucca per tutte le portate, dall’antipasto al dolce:

«Cecilio è proprio l’Atreo delle zucche:
quasi fossero i figli di Tieste,
le taglia e le divide in mille pezzi.
Prima le mangerai per antipasto,
quindi per primo piatto, per secondo
e per terzo t’arriveranno infine
come dessert. Di zucca il pasticcere
fa torte insipide, sempre di zucca.

Continua l’elenco e l’estroso cuoco mette alla prova la sua abilità e riempie scodelle e piatti, vassoi e fondine, tutto a base di zucca, ma il poeta infine esclama:

«Gli sembra fine, gli sembra magnifico
riempire tanti piatti con pochi soldi.»[23]

Immagine in copertina
The Miriam and Ira D. Wallach Division of Art, Prints and Photographs: Picture Collection, The New York Public Library. “Black figured Attic cylix, Athena between two warriors.” The New York Public Library Digital Collections. 1883. http://digitalcollections.nypl.org/items/510d47e4-644b-a3d9-e040-e00a18064a99.

[1] Odissea, VIII, vv. 536, sgg., trad, D. Marinari

[2] Odissea, VIII, vv. 59 sgg., trad. R. Calzecchi Onesti

[3] Plutarco, Simposio dei sette saggi

[4] La citazione è riportata da Gellio in Notti attiche, XIII, 11

[5]  Orazio, Satire, II, 6, 71-76

[6] Antologia Palatina, V, 183.  Due congi corrispondente a sette litri circa.

[7] Ibidem V, 185. Trifera è evidentemente una etera che deve partecipare al banchetto. Nei banchetti si usava porre sul capo corone di fiori.

[8] Catullo, Carmi, XIII

[9] Antologia Platina, XI, 44

[10] Orazio, Odi, I, 20, 1-4; 9-12

[11] Orazio, Epistole, I, 5, vv. 1-20; 30-31

[12] Giovenale, Satire, XI, 130 sgg.,147, sgg.

[13] Marziale, Epigrammi, III, 12, trad. G. Norcio

[14] Ibidem, V, 47

[15]  Marziale, Epigrammi, XI,  52,  trad. S. Beta,

[16] Ibidem, I, 43

[17] Ibidem, X, 48

[18] Ibidem, III, 60. Marziale ha accettato una cena gratuita da parte di un suo protettore che lo sovvenzionava, in cambio della sportula, cioè una somma in denaro:

[19] Ibidem, I, 20. Il riferimento è all’imperatore Claudio morto dopo aver mangiato funghi velenosi dietro macchinazione della moglie Agrippina. A proposito di funghi velenosi scrive Plinio: «Tra le piante che è rischioso mangiare, mi sembra giusto mettere anche i boleti: essi costituiscono innegabilmente un alimento squisito, ma li ha posti sotto accusa un fatto enorme nella sua esemplarità: l’avvelenamento, compiuto per loro tramite, dell’imperatore Tiberio Claudio da parte della moglie Agrippina, che con tale atto diede al mondo, e innanzitutto a se stessa, un altro veleno, il proprio figlio Nerone.»

[20] Epigrammi, I, 23, trad. C. Vitali

[21] Ibidem, III, 45

[22] Ibidem, XI, 35

[23] Ibidem, XI, 31

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