Le infinite epidemie
Medicina e Politica. Le pandemie del passato ci insegnano che è impossibile eliminarle del tutto. Ma in eredità hanno lasciato i sistemi di controllo creati per limitare i contagi ed evitarne il ritorno ciclico
di Mauro Capocci // Il Manifesto (28.10.2020)
Parlare di «seconda ondata» per la diffusione di Covid19 ha senso solo se lo sguardo è geograficamente limitato. Una pandemia per definizione globale, in un mondo interconnesso, non può essere osservata solo in alcune aree, né su microscale temporali. Di fatto, dopo aver colpito Cina e i paesi più direttamente collegati (l’Occidente ricco, connesso dagli umani e non dalle merci), si è diffuso in tutto il mondo, e non si è mai fermato nel contagio.
Ha rallentato in alcune zone, ma ha accelerato in altre, e con tempi piuttosto prevedibili è tornato anche in Europa e negli Usa ai livelli primaverili. Per nostra fortuna, non è paragonabile all’evoluzione dell’influenza del 1918, la famigerata Spagnola. Se nei primi mesi dell’anno questa si era rivelata molto contagiosa ma con mortalità normale, dopo l’estate si selezionò un ceppo mutato (e non si sa dove e come avvenne tale evoluzione) che fu responsabile della carneficina globale dell’autunno, aiutato dalla logistica e dalle devastazioni della guerra.
Come ogni influenza stagionale, tornò nell’inverno 1919 e poi nel 1920, evidenziando mortalità diminuita ma comunque alta. L’immunità acquisita al virus responsabile e la sua sostituzione con ceppi meno virulenti hanno poi riportato l’influenza negli argini della normalità. Covid19 per ora non sembra comportarsi in questo modo, e di fatto non sappiamo come potrebbe evolversi il virus nei prossimi mesi né come e quando finirà.
D’altra parte, finora solo una malattia umana è stata completamente eliminata (il vaiolo) mentre per le altre ne abbiamo mitigato l’impatto sanitario e ridotto l’area di distribuzione (solitamente, nei paesi più poveri), in alcuni casi prima ancora di capire i meccanismi della malattia.
La peste nera per esempio – culturalmente, il riferimento sovrano per le epidemie – è stata presente in Europa per 4 secoli, ed è scomparsa nel 700 per ragioni che nulla hanno a che fare con le conoscenze mediche (il ruolo di batteri, pulci e ratti è stato chiarito solo a fine Ottocento). Anche prima dell’esaurimento di quella pandemia di peste (malattia poi riapparsa a metà Ottocento), le ondate erano diventate sempre più rare perché i mezzi di contenimento si erano fatti più efficaci e l’evoluzione probabilmente aveva fatto il suo corso, selezionando umani più resistenti, in ambienti sempre meno favorevoli all’infezione.
Gli interventi umani erano tuttavia poco efficaci e le ciclicità delle epidemie era soprattutto legata alla biologia: le pulci che veicolano la peste sono più attive d’estate, con il freddo il tifo trasmesso dai pidocchi del corpo può trovare condizioni migliori, o tutte le malattie trasmesse dalle zanzare hanno i picchi correlati alle piogge.
E tutte queste malattie potevano tornare ogni anno perché non si riusciva ad eliminarle del tutto, e appena le condizioni tornavano favorevoli si ripresentavano. Da qui derivano alcune delle più importanti eredità delle pandemie del passato: i sistemi di controllo che sono stati creati per limitare i contagi ed evitare il ritorno ciclico delle malattie. La quarantena è per esempio l’eredità più duratura della peste trecentesca, insieme a tutta una serie di strumenti di governo della società creati in nome della sanità pubblica.
La raccolta di statistiche sulla mortalità iniziò già alla fine del Trecento a Firenze e poco dopo in altre città italiane per tenere sotto controllo la salute della popolazione e individuare tempestivamente infezioni di peste. Spesso ciò implicava la presenza di un certificato di morte redatto da un medico, che riportava anche la causa presunta del decesso. Queste pratiche diedero maggior potere alle autorità civili rispetto alle tradizionali figure religiose che sovrintendevano alla morte, in uno spostamento importante verso la secolarizzazione della società.
Sul controllo delle epidemie si giocava d’altra parte la partita fondamentale del commercio, e un’epidemia vera o presunta poteva rovinare i destini di un’intera città se colpita dallo stigma del morbo. La raccolta e la trasmissione dei dati all’interno degli imperi coloniali e delle reti commerciali era quindi un compito tanto importante quanto più aumentava la rapidità dei trasporti.
Le navi a vapore quindi aprirono la strada per l’Europa al colera asiatico nei primi decenni dell’800, mentre i treni facilitavano la mobilità via terra: le tecnologie di tracciamento e identificazione delle persone si svilupparono anche per tenere sotto controllo le categorie considerate più rischiose, soprattutto i migranti. Una delle eredità delle malattie infettive del passato è quindi proprio nello sviluppo di queste tecnologie, fatte di risorse umane e di capacità di registrazione dei dati.
Oggi vediamo che i paesi che stanno facendo meglio di fronte alla pandemia son proprio quelli che hanno sviluppato i sistemi di tracciamento, in modo più o meno consensuale. Chi usa le tecnologie più avanzate di controllo – la Cina delle app e della videosorveglianza artificiale e capillare – e chi invece si basa su un sistema sanitario efficiente in grado di bilanciare diritti individuali e della collettività, come la Germania o la Norvegia.
Se quindi sappiamo che un’epidemia non è affare di pochi mesi, d’altro canto possiamo implementare strumenti sociosanitari per limitarla, e abbiamo una ricerca biomedica che ci può portare più rapidamente verso prevenzioni e cure efficaci. Ma sempre tenendo presente un’altra caratteristica delle epidemie nella storia: fanno più male là dove c’è disinformazione, povertà e disgregazione delle strutture comunitarie (non solo sanitarie). Medicina e politica, come sempre, vanno a braccetto.
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