Il decreto-legge n. 20 del 2023, all’articolo 7, abroga il terzo e quarto periodo dell’articolo 19 comma 1.1. del decreto legislativo n. 286 del 1998 (Testo unico sull’immigrazione), che consentivano il riconoscimento della protezione speciale alle persone che in Italia avevano costruito una vita privata e familiare. Norma per la quale, è di tutta evidenza, non sussistono i requisiti della necessità e dell’urgenza previsti dall’articolo 77 della Costituzione.

La riforma andrà a colpire persone che in Italia lavorano con contratti regolari, hanno un’abitazione e spesso avevano qui trasferito anche la famiglia. Persone, insomma, ormai parte integrante del sistema sociale del nostro paese. La riposta ai morti di Cutro non è stata una rivisitazione critica della ratio punitiva e respingente che ha governato le politiche migratorie, ma si propone di estromettere queste persone dal sistema legale, impedendo loro – nella volontà del Governo – di chiedere un permesso per protezione speciale.

La conseguenza immediata potrà essere quella di produrre un esercito di irregolari che non potranno essere allontanati, in mancanza di accordi per il rimpatrio con la maggioranza dei paesi dai quali provengono, e che andranno ad alimentare il mercato del lavoro nero e dello sfruttamento o della criminalità, su cui lucrano potentati economici sempre più invadenti, interessati ad abbattere i costi della manodopera (ad esempio nel settore agroalimentare o in quello della logistica).

Il diritto fondamentale della tutela della vita privata e/o familiare è previsto dall’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fonti sovraordinate ai sensi degli articoli 10 e 117 della Costituzione, alle quali la legge ordinaria non potrà certo derogare. Non sono diritti comprimibili. Sono diritti fondamentali che l’Europa riconosce e di cui stimola la protezione.

Non corrisponde al vero, dunque, quanto si legge in alcune dichiarazioni politiche, ossia che la protezione speciale sarebbe contraria alla normativa UE. Quasi tutti i paesi europei, infatti, a fianco delle ipotesi di status di rifugiato e protezione sussidiaria, previsti dalla direttiva UE 2004/83/CE (cd. Direttiva qualifiche), prevedono ipotesi di protezione complementare a tutela dei diritti fondamentali riconosciuti dalle Carte sovranazionali o dalla propria normativa interna. Tale possibilità è espressamente prevista dalla c.d. Direttiva rimpatri (n. 2008/115/CE, art 6.4), dall'art. 6, co. 5, lett. c, del Codice frontiere Schengen - regolamento 2016/399 -, dall'art. 17(2) Regolamento Dublino 2013/604, dagli articoli 19 e 25 del Codice visti - regolamento 810/2009, e ne hanno usufruito, sia pure con modalità diversificate, almeno 20 dei 27 Paesi dell'Unione europea (Austria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia e Ungheria).

Altra conseguenza, dell’abrogazione introdotta dal decreto emanato ora dal Governo, sarà quella di aumentare enormemente il contenzioso, affidando ai giudici il compito di applicare le norme fondanti il nostro ordinamento giuridico.

Anche il fine di scoraggiare gli ingressi “irregolari”, perseguito con l’aumento delle quote di ingresso di chi ha già un’offerta di lavoro in Italia, non centra l’obiettivo.

Le quote di ingresso in questi anni non hanno funzionato, non solo perché stabilite in misura infima rispetto alle reali esigenze e perché recanti una procedura di attivazione particolarmente complessa (nonostante le semplificazioni introdotte dall’articolo 2 del decreto-legge n. 20 del 2023) soprattutto da parte di piccoli imprenditori o privati, ma soprattutto perché in pochissimi sono disposti a chiamare una persona loro sconosciuta, che vive all’estero e le cui capacità lavorative non hanno la possibilità di sperimentare. Inoltre, storia e realtà hanno dimostrato che i flussi migratori non sono arrestabili, finché non cessano le ragioni politiche ed economiche che spingono le persone a lasciare gli Stati di origine per cercare altrove un luogo in cui sopravvivere.

Anche solo immaginare, infine, che il traffico di esseri umani si combatta con l’innalzamento esorbitante delle pene per i c.d. scafisti è una pura illusione, che alimenta il mito del panpenalismo, al fine di anestetizzare le paure sociali e tacitare le coscienze, individuando un nemico da combattere, anzi da abbattere.

La tecnica legislativa, poi, lascia – ancora una volta – molto a desiderare. La previsione penale, in effetti, è strutturata con una formula così ampia e indeterminata da porre seri problemi di aderenza ai principi costituzionali, autorizzando interpretazioni che potrebbero estenderne l’applicazione anche a chi interviene per garantire aiuti umanitari.

Applicare questa nuova fattispecie di reato a chi “dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” pone sullo stesso piano condotte profondamente diverse tra loro, con una pena edittale minima elevatissima.

Anche l’individuazione del nemico da abbattere con la sanzione penale appare frutto di approssimazione. L’esperienza dei processi penali celebrati contro i c.d. scafisti ci insegna, infatti, che chi si assume il rischio di condurre l’imbarcazione che ospita i migranti è di regola una persona altrettanto vulnerabile, alla quale si affida il timone in cambio della gratuità del viaggio o altri modesti vantaggi. Insomma: un povero tra i poveri, non certo il gestore del traffico e neppure un tassello della criminalità organizzata transnazionale che organizza il traffico di esseri umani. Per i timonieri degli scafi la pena prevista dall’articolo 12 del decreto legislativo n. 286 del 1998 è già oggi elevatissima; se le persone trasportate, per com’è usuale, sono più di 5, la pena prevista va da 5 a 15 anni di reclusione. Non erano necessari, perciò, né inasprimenti delle pene, né nuove fattispecie di reato, che non servono a garantire maggiore sicurezza sociale e non tutelano meglio – neppure indirettamente – la vita delle persone che attraversano il mare, cercando una prospettiva dignitosa di futuro.

Anche a fronte di sciagure così enormi, come la strage di Cutro, non si vuole ancora prendere atto che non c’è alcuna contingente emergenza, ma un fenomeno strutturale che deve essere governato e di fronte al quale l’Europa e l’Italia hanno il dovere di adottare una legislazione utile a fermare quello che si configura come un vero e proprio genocidio, introducendo canali di ingresso legali: visti per ricerca di lavoro, per lavoro, per richiesta di asilo, ecc.

L’ingresso regolare, e dunque necessariamente controllato attraverso l’istituzione di canali legali, è l’unico mezzo che esclude la perdita di vite, mette nel nulla i disegni di sfruttamento dei trafficanti di vite umane, e consente all’essere umano che vi accede di vedersi riconoscere il diritto di asilo garantito dalla Costituzione e di coltivare le proprie legittime aspettative di vita e di lavoro.

Condividi