di Maria Pellegrini.

Il 15 Marzo del 44 a. C. (Idi di Marzo per l’antico calendario romano), a cinquantasei anni, nel pieno della vita e della gloria, Gaio Giulio Cesare cadde sotto il pugnale dei congiurati. Ideatore della cospirazione fu Gaio Cassio Longino, un ex pompeiano che coinvolse nel suo nefando progetto Marco Giunio Bruto da tutti stimato per la sua serietà e il suo rigore filosofico e culturale e Decimo Bruto che aveva militato con Cesare durante le campagne di Gallia. Alla congiura avevano aderito un numero imprecisato di senatori, i quali si consideravano custodi e difensori della tradizione e dell’ordinamento repubblicani. La loro violenza si riversò senza pietà sul corpo di Cesare, trafitto da ventitré colpi.

La tragica morte di Cesare ha ispirato numerose opere d’arte, versioni cinematografiche, romanzi, tragedie, saggi dei più importanti studiosi del mondo antico. Non vogliamo qui ricordare i particolari dell’assassinio né i motivi per cui avvenne la congiura, ma proporre qualche argomento meno consueto.

La storia ci ha tramandato che Cesare fu pugnalato nella Curia di Pompeo, a Roma, mentre presiedeva una riunione di senatori. L’archeologo spagnolo Antonio Monterroso ha sostenuto qualche anno fa di aver trovato il punto esatto dove venne accoltellato. Nell’ingresso della Curia di Pompeo, nell’attuale area archeologica di largo di Torre Argentina, c’è una struttura di cemento larga tre metri e alta due, che indica il punto in cui sedeva Giulio Cesare quando fu raggiunto dai pugnali dei cospiratori. È una lastra voluta da Ottaviano Augusto per ricordare il padre adottivo e tramandare ai posteri la condanna di quell’efferato atto.

Tuttavia, per l’archeologo Andrea Carandini, i segreti della Curia di Pompeo sono nascosti oltre quel muro di cemento. Queste le sue dichiarazioni: «Conosco bene quella tamponatura sovrastata da un pino, ma non riguarda l’ingresso della Curia bensì il retro. La Curia si apriva infatti dalla parte opposta. Se dalla strada dove è il teatro e la stazione degli autobus ci si affaccia sui ruderi, si osserva, subito al di sotto e dietro il tempio rotondo, un muro che ingloba una nicchia, È la nicchia del salone (440 metri quadrati) in cui era alloggiata la statua di Pompeo, ai piedi della quale cadde Cesare. (La statua è ora visibili nel palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato). Muro e nicchia sono il retro della Curia di Pompeo, che per il resto si estende sotto la strada». Lo studioso, che ne ha ricostruito nel dettaglio la posizione (il risultato è visibile nel nuovo Atlante di Roma Antica da lui curato per Electa), propone di scavare «tutta l’area della curia di Pompeo, sotto la strada fino alle fondazioni dei palazzi. L’area sacra ha bisogno di valorizzazione e al momento ciò non accade».

Questo meraviglioso sito archeologico fu scavato a più riprese dall’Unità d’Italia sino alla dittatura fascista. Le demolizioni avvenute negli anni compresi tra il 1926 ed il ‘29 riportarono alla luce una delle più preziose reliquie della Roma repubblicana: una vasta piazza lastricata in cui erano inclusi quattro templi. I lavori avviati nel ‘26 mostrarono ritrovamenti insperati e molto interessanti. Si procedette nel ‘27 allo spianamento di tutta la zona, sospendendo la costruzione edilizia prevista. Non appena vennero alla luce i resti dei templi sotterranei di cui si ignorava l’esistenza, si procedette al recupero e alla valorizzazione di tutta l’area divenuta ormai di preminente interesse archeologico. L’inaugurazione fu presenziata il 21 aprile 1929 dall’allora capo del governo Benito Mussolini. Roma, come è noto, occupò sempre un posto privilegiato nell’immaginario del fascismo. «Noi sogniamo l’Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale», sono le parole con cui Duce salutava il Natale di Roma del 1922 sulle colonne del Popolo d’Italia. E ancora: «Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento, è il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito».

Gli elementi che richiamavano alla romanità furono numerosissimi e rinvenibili in ogni ambito: il nome Roma fu latinizzato in Urbe, al fianco di ogni anno di quel Ventennio si trovavano numeri romani, a indicare a quale anno dell’Era Fascista esso corrispondesse. Il famoso fascio littorio, il titolo di duce e l’aquila delle legioni romane facevano bella mostra di sé in tutta l’iconografia del Regime; l’inno a Roma, che il poeta romano Fausto Salvatori aveva ripreso sommariamente dal “Carmen saeculare”, scritto da Orazio duemila anni prima per l’imperatore Augusto, fu musicato da Giacomo Puccini nel 1919 e diventò l’inno della romanità fascista.

Nel Natale di Roma del 1932 Mussolini inaugurò il Foro di Cesare e si fermò in ammirazione davanti alla sua statua. A proposito della congiura che lo eliminò si espresse così: «L’uccisione di Cesare fu una disgrazia per l’umanità […] Io amo Cesare. Egli solo riuniva in sé la volontà del guerriero con l’ingegno del saggio. In fondo era un filosofo, che contemplava tutto “sub specie aeternitatis”. Sì, egli amava la gloria, ma il suo orgoglio non lo divideva dall’umanità». (F.Ludwig, Colloqui con Mussolini”, pubblicato nel 1932, riproposto da Mondadori nel 2000, pag.47).

Per il duce, la figura di Cesare era un esempio di genio volto alla azione e alla conquista, espressione della volontà e del dinamismo tipici dei romani. Di lui diceva di ammirare la clemenza, virtù che, a torto, si attribuiva. Mussolini sapeva dell’importanza della comunicazione, confermata nelle sue comparse in occasioni ufficiali e pubbliche, durante le quali tutto era studiato: la postura, il tono della voce, il contesto mai lasciato al caso. Presto si rese conto di quanto i francobolli potessero essere utili per lanciare messaggi sottintesi. Comparvero francobolli celebrativi della marcia su Roma, con rappresentazioni dei fasci littori e anche con il ritratto di Cesare.

Non tutti sono a conoscenza che Mussolini scrisse un dramma intitolato “Cesare” in collaborazione con il commediografo Giovacchino Forzano, che aveva iniziato la sua carriera come giornalista e si era poi dedicato al lavoro teatrale scrivendo drammi di successo e libretti d’opera. La sua vicinanza al fascismo fu un motivo in più per essere scelto come collaboratore delle opere teatrali del Duce che ebbero come protagonisti, oltre a Cesare, Napoleone e Cavour.

Mussolini era stato spinto scrivere un’opera teatrale dalla lettura del libro “Napoleone” di Emil Ludwig. Si incontrò più volte con Forzano, discussero a lungo e il commediografo, seguendo tutte le indicazioni del suo committente, scrisse “Campo di maggio”. È il racconto dei cento giorni di Napoleone, la rievocazione della battaglia di Waterloo e il tradimento subìto con la resa di Parigi nella campagna del 1814, che si concluse con l’abdicazione di Napoleone e il passaggio delle redini del governo all’intrigante ministro di polizia Fouché. Il dramma ebbe successo e incoraggiò Mussolini a cimentarsi con un altro soggetto: il ministro Cavour. Nel 1931 il testo era pronto con il titolo “Villafranca”. La pace di Villafranca fu imposta da Napoleone II a Vittorio Emanuele II e ciò sembrava agli occhi del duce un’interruzione del processo di unificazione d’Italia iniziato da Cavour. Era infatti una violazione del trattato di alleanza sardo-francese che prevedeva la cessione al Piemonte e dell’intero Lombardo-Veneto diversamente dai patti dell’armistizio che concessero la cessione della sola Lombardia.

Perché venisse alla luce il testo teatrale “Cesare” si dovette aspettare fino al 1939. In questo lavoro si vede chiaramente che Cesare è il modello di riferimento ideale del duce. Si verificò allora un rinnovato interesse per il “De bello gallico” e per il “Giulio Cesare” di Shakespeare. Molto accentuata fu l’esaltazione della romanità che del resto occupò sempre un posto privilegiato nell’immaginario del fascismo. Si è sottolineato da parte dei critici che gli eroi dei drammi mussoliniani sono ritratti nel momento drammatico del loro declino, e non nella fase della loro brillante ascesa politica o all’apice della gloria. Napoleone è raffigurato dopo Waterloo, quando è abbandonato da tutti; Cavour nel momento in cui, deluso dal tradimento del re, è costretto a dimettersi da Presidente del Consiglio; Cesare quando cade vittima della congiura e del tradimento di Bruto. È un presagire il suo funesto destino o un volere affiancarsi simbolicamente ai grandi eroi del passato come modelli di riferimento senza considerare i loro fallimenti? A rendere il parallelo con Cesare poco piacevole per Mussolini c’era la fine tragica del politico romano, tanto che nel dramma citato la scena delle pugnalate a lui inflitte dai congiurati fu prudentemente eliminata, e sostituita dal racconto di un messaggero, alla maniera delle tragedie greche.

Il Mussolini autore di teatro è stato poco studiato ed è poco noto, famosi e noti invece sono le sue pose, i suoi discorsi dal carattere teatrale come ci riportano i coevi documentari dell’istituto cinematografico “Luce”.

Solo dal 1937 Augusto prende il sopravvento su Cesare. Nel 1937 cadeva il bimillenario della nascita dell’imperatore, fu perciò allestita la Mostra Augustea della Romanità che ebbe sede nel Palazzo delle Esposizioni a Roma. Raccoglieva un gran numero di riproduzioni di materiali che riguardavano la storia di Roma antica a scopo di celebrazione. Una sala dell’esposizione, l’ultima, era dedicata ad Augusto e Mussolini.

Era chiaro che il parallelo tra l’impero romano e quello dell’Italia fascista rispondeva al bisogno di richiamarsi a un passato glorioso per legittimare il proprio ruolo. La Mostra del ’37 servì in primo luogo a questo. A tal fine si equipararono le conquiste del fascismo alla stabilità data da Augusto a Roma dopo decenni di guerre civili, e si procedette all’assimilazione di Augusto e Mussolini. Nelle case del fascio si potevano vedere spesso foto di Mussolini a cavallo come un imperatore romano. Lo scrittore Emilio Balbo pubblicò, nel 1937, un testo “Augusto e Mussolini” nel quale affermava che «Augusto fu inferiore al Duce, che ha costruito un potente impero in pochi anni» ma aggiungeva che «per trovare un personaggio dell’antichità degno di stare accanto al duce, bisogna risalire a Giulio Cesare». Non c’è dubbio che le simpatie dello stesso Mussolini andassero a Cesare, uomo d’azione, ma sul piano politico preferì essere paragonato ad Augusto, a un capo carismatico, autorevole, che con saggezza arrivò a morire in tarda età.

A conclusione di queste considerazioni suscitate dal ricordo della tragica morte di Cesare ci piace rasserenare l’animo andando con il pensiero alle rovine di Largo Argentina, sede dell’antica Curia di Pompeo dove da molti anni abita una colonia felina che ha qui trovato rifugio. Passanti e turisti ignari dell’importanza del luogo, dove si consumò uno degli eventi più decisivi della storia della romanità, incuriositi dalla presenza dei gatti che sonnecchiano e scorrazzano in totale libertà tra i ruderi romani, si fermano ad osservare e fotografare.

Nota, nell’immagine un francobollo d’età fascista con ritratto di Cesare.

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