di Maria Pellegrini.

Se ripercorriamo le vicende del primo secolo a. C., dopo l’assassinio dei due fratelli Gracchi (negli ultimi decenni del secondo secolo), dobbiamo notare che fu un susseguirsi di continuo di guerre: la guerra sociale per reprimere l'aspirazione degli alleati italici alla cittadinanza romana o almeno latina; la guerra civile fra Mario e Silla, cioè fra aristocratici e popolari, seguita dalle feroci proscrizioni; la rivolta di Spartaco a capo di un esercito di schiavi che mise a soqquadro l'intera penisola; la congiura di Catilina repressa nel sangue di cittadini romani contro cittadini romani. Sintomo già di una rottura rivoluzionaria fu la costituzione del primo triumvirato di Cesare, Pompeo, Crasso, cioè un patto “per rifondare lo Stato”.

In tale quadro, Cesare, già con il suo primo consolato dà inizio al periodo rivoluzionario: divenuto proconsole due volte, conquista la Gallia, chiede il secondo consolato, che gli viene negato a meno che non si presenti a Roma dopo aver abbandonato il suo esercito. Pompeo, divenuto consul sine collega, cioè console unico alla testa di un'altra cospicua parte dell'esercito, si trasforma in campione dell'aristocrazia senatoria. Cesare accetta di venire a Roma lasciando il comando del suo esercito, a patto che Pompeo abbandoni anch’egli il proprio. Il Senato non accetta. Cesare varca in armi il Rubicone, “limes”, cioè confine, del territorio propriamente romano. È l'inizio della guerra civile, conclusa a Farsàlo in Tessaglia con la sanguinosa disfatta di Pompeo. Poi ancora Cesare in Egitto, nel Ponto, in Africa (a Tapso), in Spagna (a Munda), sempre vittorioso contro i pompeiani superstiti e intransigenti. Padrone dello Stato segue una linea politica moderata. Il suo potere si fonda sull'esercito, che lo adora, e sul consenso degli equites ("i borghesi"), il popolo, il proletariato contadino. Ma delude i debitori, rifiutando le “tabulae novae” (la cancellazione dei debiti) e stabilendo una limitata restituzione di denaro ai creditori. Il Senato vede modificato il proprio peso per l'immissione nei suoi ranghi di centurioni e di notabili provinciali devoti a Cesare.

Cesare è un genio politico dotato di grande carisma, un innovatore e rivoluzionario, un uomo colto e raffinato, scrittore superbo, militare valoroso, ma soprattutto un uomo d’azione che lotta per trasformare la realtà secondo criteri razionali perché vede ormai giunte a maturazione le condizioni per iniziare un processo rivoluzionario. L’ispirazione di tutte le sue riforme, pur molto diverse fra loro, è tuttavia unica: un potente impulso razionalizzatore, che non è errato definire democratico.

Un punto essenziale della rivoluzione cesariana è la rinuncia a instaurare un regime di terrore per l'eliminazione degli avversari politici e la preferenza a instaurare un clima di collaborazione e di clemenza. Cesare perdona Bruto e Cassio, che avevano militato sotto i vessilli di Pompeo, e altri ex-pompeiani; giunge persino a licenziare le sue guardie del corpo. Bruto e Cassio saranno a capo della congiura che lo ucciderà il 15 marzo del 44 a.C.

Sia Plutarco che Svetonio, a proposito della sua decisione di rifiutare la scorta, parlano di una sorta di malinconia, di nausea del potere, e addirittura d’un insidioso taedium vitae. Ciò era possibile: Cesare aveva visto troppi corpi straziati su tutti i campi di battaglia, udito troppe urla, assistito a troppe strazianti agonie, registrato troppi tradimenti, prostituzioni fisiche e morali, ipocrisie di ogni genere. Egli stesso aveva dovuto uccidere, perdonare nemici che s’era illuso di poter trasformare in amici. Aveva pronunziato più volte: «Sono stanco di essere protetto dalla mia scorta; se devo continuare a temere tutti coloro che si sono giovati della mia opera per l’equo funzionamento dello Stato, allora è bene che io muoia». E purtroppo s’avverò quella che a suo tempo era sembrata una sua sinistra previsione: «Se io sarò ucciso, molto altro sangue sarà versato in conflitti civili sempre più spietati». Quasi per paradosso, colui che renderà vera tale profezia e darà corso a una nuova sanguinosa vicenda, sarà proprio il giovanissimo pronipote e erede di Cesare, quell’Ottaviano che, prima di stabilire un cinquantennio di pesante ma desiderata pace, farà ricorso a quel Terrore che il suo padre adottivo aveva sempre rifiutato di imporre.

Cesare è anzitutto ricordato come condottiero, e uomo politico, non si deve però dimenticare che è stato un intellettuale illuminato, uno scrittore di assoluta eleganza, autore dei Commentari considerati modelli di stile per la chiarezza, l’ordine rigoroso del pensiero, la purezza della lingua. Tutto è chiaro, sobrio, elegante. Così Cicerone scrive attribuendo il giudizio a Giuno Bruto:

«Sono nudi, schietti e pieni di grazia, spogli di ogni ornamento come di vesti. Volle fornire la materia a chi intendesse scrivere di storia: ma fece forse cosa grata agli sciocchi, che vorranno aggiungere i riccioli; certo agli uomini assennati tolse la voglia di scrivere storia, infatti nulla è più dolce di una pura e luminosa brevità.»

Cesare nei Commentari delle guerre galliche vuole difendere il suo operato di fronte all’opinione pubblica romana, per giustificare la sua condotta che poteva apparire ai malevoli arbitraria o illegale, perciò espone le ragioni che lo spingevano alla guerra. Il suo racconto è un resoconto dettagliato delle interminabili campagne di conquista non una ricerca storica vera e propria, ma nella esposizione dei fatti, pur non mancando di mettere in evidenza le ragioni brutalmente imperialistiche della conquista romana, vuole riconoscere in certi casi anche la oggettiva validità della lotta per l’indipendenza condotta dai Galli. Nel contesto della sua narrazione, asciutta, pragmatica, spesso gelida, ma sempre elegante, Cesare accenna, anche se di sfuggita, alle ragioni del conflitto gallico. Il discorso di Critognato non è che la conclusione di tutto il problematico atteggiamento di Cesare verso la guerra patriottica dei Galli. È strano che Cesare lo inserisca in tutta la sua ampiezza, proprio alla fine della sua opera e nella “forma diretta” a differenza degli altri discorsi riferiti per lo più nella forma oggettiva e narrativa del discorso indiretto. Quello di Critognato è ampio, organico, elaborato, e sia pure con barbarica efferatezza, la punta estrema della sfortunata resistenza dei Galli a quello che non è improprio definire “imperialismo romano”.

A Cesare va comunque il merito di aver sottomesso il mondo celtico, che costituiva uno dei principali pericoli per l’espansione romana in Europa: sebbene si trattasse di civiltà meno complesse di quella di Roma, la loro forza militare, riposta soprattutto nella cavalleria, era notevole, e la loro presenza ai confini dell'Italia causava una situazione di costante pericolo. Per contro i Galli, una volta entrati a far parte dello stato romano, furono tra le prime popolazioni provinciali a ricevere la cittadinanza, accettando di buon grado il processo di romanizzazione.

L’abilità di Cesare si rivela anche nel modo con cui sa collocare gli avvenimenti in una luce particolare a scopo apologetico e polemico, ciò accade in modo più scoperto nei Commentari sulla guerra civile (“de bello civili”). Nei primi capitoli dell’opera, Cesare fa apparire legittimo il suo operato e fa ricadere sugli avversari la responsabilità della guerra.

Cesare non parla di sé in prima persona: egli è Caesar, il capo di un esercito che combatte con un altro esercito della repubblica. La soppressione dell’io e l’uso della terza persona è un espediente per attuare obiettività storica. Per placare i timori di quanti temevano da parte sua repressioni e proscrizioni simili a quelle operate da Mario e Silla, Cesare non perde occasione per sottolineare la propria clemenza nei confronti degli sconfitti. Interessanti sono i due discorsi ai soldati prima dello scontro a Farsalo nel 48 a.C. Quello di Pompeo è di sconsiderata leggerezza, sottovaluta il suo avversario senza rendersi conto del pericolo che deve affrontare. Cesare arringa i suoi soldati ricordando i suoi tentativi per cercare la pace e per risparmiare vite umane.

Nel racconto del “Bellum civile” non compaiono massacri compiuti da eserciti cesariani, eccettuato quello della battaglia decisiva di Farsalo. È probabile che Cesare si comportasse più umanamente nella guerra civile che nella guerra gallica, perché il suo giudizio sulla realtà e il suo atteggiamento razionale gli dicevano che quella guerra poteva essere vinta più agevolmente con la pace che con la guerra, con la clemenza piuttosto che con la crudeltà.

Perfetta definizione dei Commentari è quella del La Penna: «Non un pamphlet dunque, nemmeno una serie di comunicati di guerra, ma un libro di memorie; meglio un libro di storia, quale poteva essere scritto da un uomo d’azione». Nei limiti dell’umana approssimazione, la storiografia di Cesare è un esempio di attendibilità e di veridicità, nel senso che essa seppe come poche altre identificare e rappresentare, nel suo farsi, le linee essenziali di un intricato sviluppo storico.

Nota: l’immagine è una delle nove tele dei Trionfi di Cesare di Andrea Mantegna conservate nel Palazzo del bagno di Hampton Court a Londra.

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