Gravemente instabile. L’Europa della finanza
Di Vincenzo Comito
È stato già sottolineato da qualche commentatore come la crisi attuale dell’Europa sia nella sostanza di tipo politico, mentre si manifesta apparentemente soprattutto come crisi finanziaria. Essa nasce a suo tempo dall’abbandono del loro campo proprio da parte dei politici del continente – di destra e di sinistra –, a favore delle volontà dei mercati, delle banche, delle agenzie di rating. Si sviluppa poi come una lotta da una parte tra i mercati finanziari (che vogliono semplicemente ormai fare crollare la moneta unica) e i deboli stati europei, dall’altra tra i paesi del Sud e quelli del Nord Europa. Prosegue infine con l’incapacità e la scarsa voglia della classe politica attuale di portare avanti un progetto di sviluppo complessivo e solidale del continente; tale indecisione contribuisce poi ad alimentare la crisi stessa, favorendo la speculazione. Intanto chi può, come la Germania, – che dovrebbe guidare il processo di rinnovamento del continente –, cerca invece di portare avanti una strategia alternativa, in direzione dello sviluppo dei legami con i paesi emergenti e in particolare con la Cina e la Russia.
Per altro verso, come anche è stato già scritto, questa crisi non potrà che finire, prima o poi, o con l’uscita dall’euro dei paesi del Sud Europa, o con l’avvio deciso dell’Europa verso una unificazione economica e politica sostanziale. Va ancora sottolineato, tra l’altro, come mi sembra fare Rossana Rossanda, che un’unione monetaria alla lunga non regge senza un’unione politica. Sino a che l’economia occidentale tirava, drogata peraltro dalla speculazione finanziaria, nessuno in Europa si è concretamente accorto del problema, ma ora quell’errore appare tutto intero.
Ma la seconda alternativa sopra delineata appare, ahimè, la meno probabile, per le fortissime resistenze politiche che essa incontra sul suo cammino, dovendosi in particolare scontrare con l’ostilità di gran parte dell’opinione pubblica di molti dei paesi interessati – risultato questo a favore del quale si sono adoperati con fervore negli anni anche quei politici che ora dovrebbero spingere per l’unità, nonché i burocrati di Bruxelles. Oggi – in assenza di future novità sostanziali – appare dunque più probabile che la zona euro vada in pezzi, anche se non sappiamo quando e come.
Il compromesso che è stato appena varato a Bruxelles contiene indubbiamente qualche elemento positivo, almeno nel senso che forse concede un po’ di respiro - quanto lungo? Anni, mesi o giorni? – a un continente in affanno. Ma esso appare assolutamente inadeguato rispetto alle scelte sulle questioni di fondo. Tra l’altro, il documento pretende di risolvere la crisi greca ma aspettiamoci, dopo i primi due, anche un terzo e forse un quarto pacchetto per salvare il paese ellenico. Con l’accordo, il rapporto debito/pil scenderà infatti per il paese dal 170% al 130%, che appare certamente ancora troppo elevato. La crisi, peraltro, non è ormai tanto quella della Grecia, o anche del Portogallo e dell’Irlanda, ma essa ha al centro l’Italia e la Spagna, paesi di ben altre dimensioni. Così, gli investitori esteri posseggono, grosso modo, solo per quanto riguarda il nostro paese, titoli pubblici per circa 800 miliardi di euro, di cui quasi i tre quarti sono nelle mani delle banche francesi e tedesche. Altro che esposizione verso la Grecia! In questo senso, la dotazione del fondo salva-stati (Efsf) appare nettamente inadeguata al compito.
Nel cercare di approfondire comunque alcune delle questioni legate alle alternative sopra delineate, vorrei partire da un’imprecisione contenuta nell’intervento di Rossanda. Non è del tutto vero, come invece afferma l’autrice, che quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, sono indebitati sino agli occhi. In realtà, alcuni di quelli coinvolti nella crisi, la Spagna, ma anche l’Irlanda e in parte almeno il Portogallo – che ancora nel 2008 aveva un rapporto debiti/pil del 71%, poco più delle Germania –, non sono in difficoltà tanto per un alto livello di indebitamento pregresso, ma per altre ragioni, legate ad esempio alla crisi delle banche e/o del settore immobiliare.
Il fatto che i mali di cui soffrono alcuni dei paesi in difficoltà non siano tanto legati all’enormità del loro debito pubblico, di fronte invece alle autorità di Bruxelles che vogliono imporre a tutti i malati la stessa ricetta di tagli indiscriminati, ci porta a considerare che, almeno in parte, si sta combattendo una battaglia sbagliata e che l’obiettivo di Bruxelles, in piena sintonia con i mercati finanziari e le agenzie di rating, sia forse, in realtà, quello di imporre a tutti i paesi un ridimensionamento dell’intervento dei poteri pubblici nell’economia; il che ci ricorda, per altro verso, che questa crisi, cominciata con le difficoltà delle banche, va avanti ora invece con il taglio dei salari, delle pensioni e dei servizi sociali.
Per altro verso, le autorità di Bruxelles hanno trattato sino a oggi il caso greco come un problema di liquidità, di mancanza cioè temporanea di risorse (con l’ultimo accordo sembrano peraltro cambiare, almeno in parte, registro), quando si tratta invece di una crisi di solvibilità, di difficoltà strutturali legate al fatto che il paese non riuscirà mai a ripagare il suo enorme debito ed è destinata quindi all’insolvenza.
Le cause di tali problemi strutturali, comuni peraltro anche al nostro paese, sono certo legate da una parte alla dissennata politica di spesa pubblica perseguita in passato dalla Grecia come dall’Italia, ma anche e soprattutto, dall’altra, al fatto che l’economia di tali paesi non cresce più da tempo; in particolare, essi, insieme a Portogallo, Spagna, Francia, non sopportano un cambio dell’euro a 1,4 e oltre con il dollaro. Naturalmente pesa poi fortemente, in Europa come negli Stati uniti, in direzione di un alto livello di debito pubblico, lo sconquasso portato dalla crisi, sia in termini di maggiori uscite per sostenere l’economia che di minori entrate fiscali. Ma, a proposito delle domande poste sul tema da Rossanda, teniamo conto che complessivamente il rapporto tra il debito pubblico e il pil è in Europa, almeno complessivamente, molto inferiore a quello degli Stati uniti, paese per il quale giocano anche le altissime spese militari e la bassissima imposizione fiscale, in particolare a favore dei più ricchi.
Comunque, alla fine, i debiti si restituiscono – o non si restituiscono –, con l’inflazione, con il fallimento, con la vendita dei beni al sole – a quando la cessione del Colosseo a McDonald? – o, cosa che appare più sensata, con un adeguato livello di sviluppo dell’economia.
La mancata crescita dei paesi del Sud Europa è legata poi a molti fattori, non ultimo quello relativo al fatto che dal momento dell’ingresso nell’euro tali paesi non sono più stati in grado di svalutare la loro moneta per far fronte alla loro scarsa competitività. Dopo il varo dell’unione monetaria, nata peraltro, come ci ricorda Mario Pianta, del tutto subalterna alla finanza, si è dovuta registrare, accanto a un’armonizzazione delle politiche monetarie, una forte differenziazione invece nelle politiche economiche e di bilancio tra i suoi membri. Non è avvenuto così il miracolo della convergenza che molti speravano e ci sono ormai chiaramente e nettamente due Europe: quella del Nord, che ha puntato su di un modello di sviluppo centrato sulle esportazioni – il 50% circa di quelle tedesche si dirigono verso l’Europa ed è un'incognita che fine faranno tali esportazioni se l’Europa crolla – e quella del Sud, fondata maggiormente sul consumo interno.
Cosa fare allora di fronte a un simile quadro?
Intanto, combattere la speculazione sui titoli europei appare “tecnicamente” una cosa relativamente semplice. Dal momento che con l’accordo di Bruxelles il potere di acquistare titoli pubblici sul mercato è stato nella sostanza trasferito dalla Bce al fondo salva stati, “basterebbe” dotare tale fondo di risorse adeguate alla bisogna. Attualmente a esso sono stati attribuiti 450 miliardi di euro, che bastano però a malapena a difendere Grecia, Portogallo e Irlanda, non certo l’Italia e la Spagna. Allora bisognerebbe portare la dotazione, come ha calcolato qualcuno, intorno ai 2.000 miliardi di euro e la speculazione si ritirerebbe in buon ordine per qualche anno. Naturalmente qui la difficoltà è di ordine politico: si tratterebbe di convincere i governi del Nord Europa (cioè quelli dei paesi più forti) e il loro elettorato.
Ma a questo punto resterebbe ancora il lavoro più impegnativo, quello di ridurre il peso dell’indebitamento, di aumentare i tassi di crescita dell’economia dei paesi del Sud, di governare infine il sistema finanziario.
Al riparo dalla speculazione, si potrebbe organizzare la necessaria “ristrutturazione” del debito dei paesi deboli facendo contribuire finalmente sul serio anche le banche alla cosa, dopo che esse hanno prestato irresponsabilmente somme astronomiche alla Grecia. Basta finalmente con il “socialismo delle banche”, con la consueta privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite. Tra l’altro, i grandi istituti andrebbero adeguatamente capitalizzati. Ma la ristrutturazione risolverebbe il problema solo temporaneamente, se non si attivassero anche delle azioni per arrivare a una convergenza competitiva delle varie economie. Per altro verso, la stessa manovra di ristrutturazione potrebbe essere tanto meno pesante e impegnativa, quanto più avanzasse il progetto di unione economica e politica del continente, con un piano “Marshall” di rilevanti proporzioni – finanziato magari con i tanto discussi eurobond, che a questo punto non servirebbero tanto per ristrutturare il debito, ma per fini di sviluppo –, finalizzato a rendere l’economia dei paesi del Sud più competitiva. Anche in questo caso far digerire la cosa ai paesi del nord appare comunque un esercizio difficile e di lunga lena. Ma bisognerebbe comunque provare.
Sul fronte del sistema finanziario ricordiamo intanto, con M. Pianta, l’esigenza di ridimensionare e controllare la finanza, anche per restituire un po’ di potere agli stati e alla politica. Vanno poi sottolineate le proposte di lotta contro i paradisi fiscali, per la tassazione delle transazioni finanziarie, il controllo stretto del sistema bancario ombra, e in particolare degli hedge fund, maestri della speculazione, nonché per i prodotti derivati – tra i quali i famigerati cds –, la proibizione delle vendite allo scoperto sui mercati di borsa, la separazione tra attività di banca ordinaria e di banca di investimento, con la correlata attività di speculazione in proprio, del controllo specifico delle banche più grandi, il governo – infine - delle agenzie di rating.
Per quanto riguarda tali agenzie, le proposte in campo sono diverse e vanno dall’abolizione del valore legale della notazione – è assurdo, ad esempio, che la Bce deleghi alle agenzie la decisione di quali titoli si possono accettare e quali no come garanzia dei prestiti –, alla creazione di un’agenzia di rating europea, alla proibizione della notazione per i paesi che fanno oggetto di un piano di sostegno.
Resta, alla fine di ogni ragionamento, quella che - più che un' opinione - è una condizione: siamo nelle mani della Germania, con il corollario che l’opinione pubblica di quello e degli altri paesi del Nord non vedono di buon occhio un’Europa fatta, a loro parere, principalmente di “trasferimenti”. Questo non ci ricorda qualcosa?
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