Governo, un Def timido di attesa. Ma galleggiare non basterà
di Sandro Roazzi
Le tasse non aumentano, resta l’impegno per la crescita e l’equilibrio dei conti. Il due Gentiloni-Padoan manda questo messaggio all’indomani del varo del Def (Documento di economia e finanza) 2017. L’impressione, però, è che la posizione del Governo in materia economica sia più orientata a rassicurare Renzi ed…aspettarlo che a fornire argomenti e risorse ad una volta economica ed occupazionale che ancora non si avverte con la forza che sarebbe necessaria.
Il messaggio che giunge dal Def intende essere tranquillizzante anche sull’onda dei risultati sull’occupazione del 2016, ma in realtà potrebbe provocare più di un dubbio. Iniziamo dalla previsione sul Pil: cresce di un decimo nel 2017 e va all’1,1% per fermarsi ad un 1% nel 2018 e nel 2019. Solo prudenza? Di certo si ricava la sensazione che l’economia italiana continuerà a procedere su livelli che lo stesso benevolo Junker giudica troppo deboli. La mini-crescita continuerà, ma questa constatazione di sicuro non invoglierà ad investire, a rischiare, a presentarsi sul mercato del lavoro per cercare un’occupazione. Il debito pubblico, altro maxi-problema della nostra economia, è ancora attestato al 132% e scenderà sotto il 130% solo nel 2019. Tanto per ricordare…nel 1991 era al 98,59%, balzando al 121,84% nel 1994, anno di pesante crisi e sacrifici, per scendere poi a poco più del 103% nel 2007. Da allora sempre in salita, macinando quasi trenta punti in più in dieci anni.
Una condizione che ci vedeva fanalino di coda fra i Paesi più sviluppati prima della recessione e che oggi fa aleggiare sull’Italia ancora la stretta veste di sorvegliato speciale.
Toccherà alle privatizzazioni ed alla migliorata lotta all’evasione fiscale dare continuità ad una necessaria inversione di tendenza. Resta il fatto che negli ultimi 20 anni si sono spesi per interessi quasi 1.700 miliardi.
Il rapporto deficit-Pil, con gli occhi addosso di Bruxelles, scenderà al 2,1% quest’anno per poi…precipitare all’1,2% l’anno prossimo. Di solito questi exploit si ottengono …stringendo la cinghia. Il governo mantiene fra le poste di bilancio le clausole di garanzia (più Iva ed accise, forse meno agevolazioni fiscali), ma promette che le sostituirà con i proventi di una più efficace lotta all’evasione fiscale e tagli di spesa. Quelli che oggi non si intravedono, avendo messo per ora fra parentesi la ormai famosa spending review di cui si erano occupati in tanti negli ultimi anni.
Inoltre, a quell’80% di imprese italiane che lavorano per il mercato interno non giungono grandi notizie sui consumi delle famiglie all’1% quest’anno per poi scivolare allo 0,5% ed allo 0,8% negli anni successivi. Anche questo un segnale che riconquistare la fiducia sta diventando un’impresa improba.
E se uno dei nodi decisivi per ridare un passo sostenuto alla ripresa sono gli investimenti…ci si dovrà accontentare di cifre non irrilevanti, per fortuna, ma che non faranno fare salti di gioia attestandosi fra il 3,7% ed il 3,4% nei prossimi tre anni.
Scenderà ancora la disoccupazione, una buona notizia, ma non tanto da infrangere il muro del 10% almeno fino al 2019.
Andamenti previsionali che rafforzano l’idea che non ci si voglia sbilanciare in attesa degli esiti politici che verranno, sia da noi che in Europa. Probabilmente un calcolo inevitabile ma che non permetterà di tenere il passo con i cambiamenti in atto e, forse, potrebbe anche non riuscire a frenare l’insoddisfazione in circolazione ancora molto diffusa.
Perché sostenere che quest’anno può andare economicamente anche meglio di quel che si prevedeva cozza con un comune sentire assai meno ottimista. E far capire che gli anni a venire potrebbero essere contagiati dalle riforme e da una possibile stabilità economica sulle quali però ora non si può contare equivale ad ingessare le speranze, già non …plebiscitarie.
Poteva il governo attuale fare scelte diverse? Difficile a dirsi. Anche perché lo scenario internazionale non aiuta. Però succede che molte buone intenzioni, dall’inclusione sociale ai cosiddetti indicatori di benessere equo e sostenibile, possano alla fine venire considerate belle parole e non molto di più.
Troppo sullo sfondo, infatti, resta il vero interrogativo: per quale nuova società si lavora? Per quale mercato del lavoro, per quale modernizzazione del Paese, per quale nuova etica collettiva che può guidare meglio e più celermente le attività ed i servizi pubblici e non solo?
Ora ci saranno le audizioni che coinvolgeranno le parti sociali. Ma in realtà ancora una volta il governo ha fatto tutto…da solo. Ha segnato l’orizzonte, ha messo i numeri, più interessanti del passato quelli del pubblico impiego indubbiamente, ha fornito una lettura della realtà dove a dominare è la parola gradualità, ma ad essere temuta è quella di ritorno alla stagnazione. Ed allo stato dei fatti si tratta di una questione squisitamente politica ma anche che può misurare la capacità di iniziativa delle associazioni di impresa e sindacali. Sta a loro in definitiva mostrare qualche ambizione in più che però vorrebbe dire meno iniquità, meno diseguaglianze, più lavoro.
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