GIORNALI E POPOLO
di Vincenzo Vita.
Siamo nel bel mezzo di un passaggio delicatissimo della vicenda italiana. La crisi di governo, che evoca una vera crisi di sistema, potrebbe avere esiti assai diversi: un ravvicinato ritorno alle urne, ovvero una nuova maggioranza. In tutti i casi è urgentissimo, come è emerso dagli stessi suggerimenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, un provvedimento specifico che aggiorni la normativa sulla par condicio e dia forma ad una specifica task force che vigili sul rispetto delle regole e omologhi le dirette su Facebook o le norme sul silenzio elettorale alla disciplina in vigore, pensata in età analogica e tuttavia applicabilissima anche al mondo digitale.
Se, però, si dovesse concretizzare una nuova maggioranza parlamentare (da 5Stelle al partito democratica al gruppo di Liberi e uguali), una misura immediata da inserire già nella prossima legge di bilancio dovrebbe essere l’abrogazione del comma 810 lettere b e c dell’articolo 1 della precedente “finanziaria” varata lo scorso dicembre (l.145/2018). Ovvero il taglio progressivo fino alla scomparsa nel 2022 delle risorse previste dal fondo per il pluralismo e l’innovazione per i giornali locali e nazionali. Come il manifesto. Si elimini quella bruttura e si rimetta mano all’intero settore.
Con il Mov5Stelle si può riaprire la discussione? Sono tuttora in corso gli Stati generali sull’editoria promossi dal sottosegretario uscente Crimi e in quel contesto sarebbe utile rivedere scelte prese frettolosamente sull’onda di una sorta di “populismo digitale”, per rubare la definizione ad Alessandro Dal Lago.
Niente vieta di rivedere i criteri dell’intervento pubblico previsti dalla riforma del 2016, premiando le reali esperienze associative e le cooperative giornalistiche delle testate con limitati introiti pubblicitari. Del resto, lo stato è presente nell’universo dei giornali in numerosi paesi europei. Lo studio diffuso dal Dipartimento per l’editoria della presidenza del consiglio stila una classifica eloquente: la Danimarca spende 9,54 euro pro capite per i giornali, Norvegia e Svezia rispettivamente 6,80 e 5,40 euro. L’Italia è al penultimo posto con 1,11 euro. Inoltre, Gran Bretagna e Francia hanno da tempo praticato una politica di sostegno, attraverso l’esenzione dall’IVA e i crediti di imposta.
E’ bene ricordare che l’agonia o la morte di una cinquantina di testate porterebbero con sé un ulteriore incremento della disoccupazione, dando un colpo letale all’istituto di previdenza dei giornalisti, che merita un’attenzione che la compagine gialloverde non ha avuto. Del resto, l’informazione è stata costantemente sotto attacco: dalle minacce – anche fisiche- al ricorso come forma di ricatto alle querele temerarie. Insomma, tagli e bavagli, come ripete inascoltata l’associazione “Articolo21”.
E’ solo un sogno di mezza estate o una effettiva opportunità? Vedremo. Va sottolineato, però, che è lecito attendersi dal vocabolario di Pd e di Leu qualche parola al riguardo.
Anzi. La vicenda dell’editoria è un corposo frammento di un discorso più ampio. Un’ipotetica nuova alleanza – se mai- deve basarsi su punti programmatici netti e impegnativi: una rottura rispetto agli ultimi quattordici mesi e agli anni passati.
Il ridimensionamento della coscienza critica ha accompagnato una stagione terribile e piena di rischi democratici. Ma le urla di Matteo Salvini non si fermano con qualche manovra tattica nell’”autonomia del politico”, bensì con la cultura e con il pluralismo delle voci. Umanesimo contro la dittatura degli algoritmi. Saperi diffusi e diritti di cittadinanza.
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