di Elio Clero Bertoldi.

Dopo un matrimonio durato più di quattro anni la bellissima Lucrezia Borgia (1480-1519), figlia di Rodrigo, divenuto papa col nome di Alessandro VI, era ancora illibata? La storia lo attesta con tanto di documenti ufficiali del collegio dei cardinali del tempo e sulla base di una perizia effettuata da un famoso giurista, il perugino Matteo Baldeschi, ma é risaputo che, in tutti gli stati e staterelli d’Italia, si discusse molto, quando non si rise, più o meno apertamente, della conclusione alla quale erano giunti i principi della Chiesa.

Lucrezia, per ragioni di stato, era stata promessa a dodici anni al signore di Pesaro Giovanni Sforza (1466-1510) che aveva più del doppio della sua età e che era stato già sposato con Maddalena Gonzaga, morta di parto un paio di anni prima.

Il matrimonio Sforza-Borgia era stato celebrato, con comprensibile sfarzo, l’anno dopo, il 2 febbraio 1993. Ma, negli anni, le vicende ed i rapporti politici erano mutati e al papa ed a suo figlio, Cesare, quel matrimonio risultava d’ingombro. La splendida Lucrezia, nel quadro degli intrighi dei congiunti, sarebbe stata più utile se fosse andata in sposa - cosa che poi avvenne - ad un personaggio più importante (Alfonso d'Aragona). Bisognava, tuttavia, sciogliere il nodo delle precedenti nozze. I Borgia provarono a suggerire allo Sforza l’idea del divorzio, ma lui non aveva nessuna intenzione di lasciare Lucrezia, che, oltre ad essere bella, conosceva più lingue, cantava, danzava ed era una perfetta padrona di casa. Di fronte a questa resistenza Alessandro VI imboccò la strada dell’annullamento del matrimonio. Serviva, però, una motivazione seria, forte, non contestabile dall’autorità ecclesiastica. E la si individuò nella mancata consumazione, dovuta all’impotenza dello sposo. Nonostante gli interessati, Lucrezia e Giovanni, interpellati, avessero risposto che “si erano conosciuti una infinità di volte”, il pontefice tirò dritto per la sua strada e incaricò delle imprescindibili indagini ufficiali il collegio cardinalizio. A Giovanni venne offerta una scorciatoia per dimostrare la propria virilità: che si unisse, sotto gli occhi del collegio, con la consorte o con una prostituta. Il conte rifiutò sdegnosamente. Provò, Giovanni, a sollecitare un intervento di aiuto agli zii, Ascanio Sforza, cardinale e Ludovico il Moro, duca di Milano. Personalità di spicco. La macchina pontificia si era, però, messa in movimento e il pesarese rimase da solo. I cardinali, nel frattempo, avevano incaricato il giurista perugino di verificare lo stato di Lucrezia. La “sentenza” fu netta: “Verginità mai corrupta“, asserì, per iscritto, il Baldeschi, all’epoca al culmine della fama (aveva 62 anni). Poco dopo il giurista ottenne il titolo di vescovo di Nocera.

Di fronte a tali pronunciamenti lo sposo fu costretto ad arrendersi su tutto il fronte: firmò un documento - il 18 novembre 1497 - con il quale si riconosceva “inadempiente maritale” - “impotente”, per il popolino - e così salvò, almeno, la signoria su Pesaro (giuridicamente il conte era un vassallo del pontefice) e una parte della dote che Lucrezia gli aveva portato in occasione delle nozze. Trentadue giorni più tardi (il 22 dicembre) arrivò l’annullamento formale “per mancata consumazione del matrimonio”. Lucrezia, accompagnata dal padre, presenziò anche allo scoprimento della Pietà di Michelangelo, allora ventitreenne.

Aspetto singolare é che, negli stessi mesi, Lucrezia avesse allacciato una relazione sentimentale con Pedro Calderon, detto Perotto, segretario e paggio del papa. Da questo flirt nacque un bambino, noto col nome  di “infante romano”, che il padre non riuscì a vedere: venne infatti trovato morto sulle rive del Tevere il 2 marzo 1498. Accanto al suo, legato mani e piedi,  il cadavere di Pantasilea, dama di compagnia di Lucrezia. Tutti ipotizzarono che Cesare Borgia avesse, in questo modo, eliminato i due soggetti a conoscenza della gravidanza della sorella. Che fine fece il bambino? Sopravvisse. Nel 1501, a settembre, furono emesse, al pontefice, in contemporanea, due bolle. Nella prima, resa pubblica, si sosteneva che il bambino era figlio illegittimo di Cesare. Nella seconda, segreta, si riconosceva che il piccolo, di nome Giovanni, era figlio di Alessandro VI e di una donna “separata dal marito”. Giovanni, in questo modo, potè vedersi intestati il ducato di Nepi e più tardi anche di Palestrina e di Camerino. Dei beni fu, tuttavia, espropriato, dopo la morte di Alessandro VI, dal nuovo papa Giulio II (Giuliano Della Rovere), ma l’infante romano venne accolto nella corte degli Este, dove la madre, Lucrezia, al terzo matrimonio, si era accasata, sposando Alfonso I, diventato alla morte del fratello, duca di Ferrara.

Questo giovane rampollo dei Borgia, descritto come capriccioso e vanesio, tentò di recuperare almeno il ducato di Camerino, appellandosi all’imperatore. Ma il papa, Clemente VII, fu irremovibile. Le cronache lo danno per morto prima del 1550 a Genova.

Giovanni Sforza, lo sposo “inadempiente”, si prese la rivincita personale dopo la morte di Alessandro VI. Consumò, in verità, una vendetta indiretta sull’umanista Pandolfo Collenuccio, partigiano del duca Valentino. Con un tranello lo invitò a Pesaro, dove lo imprigionò, lo torturò e lo giustiziò senza processo. Nel frattempo Giovanni, aveva preso in moglie Ginevra Tiepolo. Morì, il conte, a 44 anni nel 1510.

L’ultima a lasciare questo mondo fu Lucrezia, nel 1519, a soli 39 anni, di cui la storia tramanda anche una relazione (platonica?) con l’umanista Pietro Bembo, che in una lettera (ora alla Biblioteca Ambrosiana di Milano) conservò i “riccioli d’oro” pegno d’amore della figlia del papa.

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