di Maria Pellegrini.

«Varo, rendimi le mie legioni» esclama l’imperatore Augusto dopo la sconfitta nel 9 d. C. nella foresta di Teutoburgo quando Arminio, principe dei Cherusci, una delle popolazioni germaniche, ha sconfitto e distrutto tre intere legioni comandate da Varo, che si uccide per non cadere nelle mani dei nemici. Tacito, il più grande storico latino dell’età imperiale, scrive nel 98 d. C, molti anni dopo quella dolorosa sconfitta, una monografia geo-etnografica “De origine et situ Germanorum” comunemente detto “Germania”, di interesse e valore straordinario non soltanto dal punto di vista storiografico, ma anche etnografico.

Qual è lo scopo di quest’opera? Gli storici hanno dibattuto a lungo su questo interrogativo. Forse far sapere ai romani chi erano quei popoli di là dal Reno e dal Danubio con i quali si combatte da tanto tempo, vincendo ma senza riuscire a sottometterli? O l’intento è morale con l’esaltazione di una civiltà primordiale non ancora corrotta dalla raffinatezza di una civiltà decadente?

Sono gli anni in cui Traiano, adottato da Nerva per la successione, si trova in Germania a Colonia sul Reno allo scopo di regolare i rapporti tra romani e germani in quella zona, teatro di sconfinamenti e ribellioni, quando apprende della morte dell’imperatore, ma fa ritorno a Roma un anno dopo la sua elezione, creando perplessità per il suo rimanere lontano mentre lo aspettano in patria per festeggiarlo. È in questo periodo che Tacito scrive la sua breve opera sulla Germania e i diversi popoli che la abitano: vuol mettere in guardia Traiano descrivendo la pericolosità di quelle genti dalle energie intatte e invitarlo alla prudenza?

Abituato a indagare sulle cause profonde degli avvenimenti Tacito vuol capire il perché della forza indomabile manifestata dai Germani, senza tuttavia idealizzarli o nascondere le loro debolezze. Quanto all’argomento la breve opera può dividersi in due parti: nella prima sono trattati l’aspetto geografico della regione, gli usi e costumi degli abitanti, l’organizzazione politica, sociale e militare, le istituzioni familiari, la religione. Nella seconda, con rapidi tocchi si passano in rassegna le singole popolazioni, da quelle più conosciute e civili a quelle più primitive, e vi affiora una certa ispirazione romantica di simpatia per genti sane e forti, immuni dai guasti prodotti dal lusso e dalla ricchezza.

Numerose le fonti di cui Tacito si è servito: il “De bello gallico” di Cesare, il libro III delle “Historiae”, oggi perduto, di Sallustio e la prima parte dell’“Ab urbe condita” di Livio, anch’esso perduto; le “Storie” del greco Posidonio, la “Geografia” del greco Strabone, le opere, purtroppo anch’esse perdute, sulle guerre germaniche di Plinio e di Aufidio Basso, e il “De chorographia” di Pomponio Mela, la più antica opera geografica latina a noi pervenuta. Poche sono le notizie frutto di una conoscenza personale dell’autore durante un qualche incarico in Germania di cui egli non fa parola. Si deve però notare che è la prima volta che uno storico dedica un’intera opera alla descrizione di popoli lontani e così diversi, esaminandone vizi e virtù.

Nella “Germania” c’è il riconoscimento dei valori del nemico: nonostante la squallida miseria, la sporcizia di una vita promiscua con gli animali, quei popoli mostrano una straordinaria resistenza alle fatiche:

«Nelle case d’ogni ceto i figli crescono nudi e sporchi [...] Non distingueresti il padrone dallo schiavo per alcuna finezza di educazione: vivono fra lo stesso bestiame, sulla stessa terra [...] I giovani conoscono tardi l’amore; da ciò un’inesausta virilità. Né le ragazze s’affrettano al matrimonio; medesima forza giovanile, medesima statura: si maritano pari di anni e di vigore, e i figli riproducono la robustezza dei genitori»

Non mancano gli esempi del loro amore per la gloria in battaglia:

«Quando si viene a battaglia, è turpe per il capo essere superato in valore, turpe per il suo seguito non uguagliare le capacità del capo [...] Se la tribù nella quale sono nati intorpidisce in una lunga pace e nell’ozio, molti giovinetti si recano per proprio conto nelle tribù che in quel momento conducono una guerra, perché alla gente germanica spiace l’inerzia, e nei rischi più facilmente acquistano gloria».

Grande ammirazione l’autore mostra per i Cauci:

«popolo nobilissimo fra i Germani che preferisce difendere la propria grandezza con la giustizia. Senza bramosie, senza prepotenza, quieti e appartati, essi non provocano guerre né devastano con rapine e latrocini gli altri territori. La prova migliore del loro valore e della loro potenza è quella che riescono a conservare la loro superiorità senza ingiustizie; e tuttavia hanno sempre armi pronte per tutti e, quando le richieda le circostanze, un immenso esercito di uomini e di cavalli».

Ma sono ricordati nell’opera anche i vizi di questi popoli, come l’abitudine all’ubriachezza e alle risse:

«Nessun disonore nel trascorrere ininterrottamente il giorno e la notte a bere. Le risse frequenti, come suole avvenire tra ebbri, di rado si concludono con ingiurie, più spesso con uccisioni e ferite».

Sono citati anche esempi di rigore eccessivo e crudeltà nelle pene, i vizi corporali condannati sono quelli contro natura:

«Nell’assemblea è lecito anche formulare accuse e intentare processi che prevedano la pena di morte. La distinzione delle pene è in base al delitto: impiccano agli alberi i traditori e i disertori; immergono nel fango d’una palude, imprigionati sotto un graticcio, gli ignavi, i codardi, e quanti siano immondi di vizi corporali».

Tuttavia Tacito è affascinato e impaurito dall’intatto patrimonio di energie vitali di quelle popolazioni, ne apprezza i costumi, il senso dell’onore, il coraggio, il semplice tenore di vita, il sentimento della famiglia; c’è una vena di rimpianto perché essi praticano quelle virtù che la tradizione attribuiva ai romani del buon tempo antico ed è innegabile, anche se non manifestata apertamente, la contrapposizione di quei costumi primitivi alla corruzione dei suoi concittadini, tra il vigore morale di quelle genti ancora fresche di primitiva barbarie e il progressivo decadimento delle antiche virtù della gente romana.

Tacito manifesta tutti i loro aspetti etici, culturali, etnici, geografici, militari, ispirando nei romani ammirazione e timore e insieme volontà di organizzarsi per scongiurare e possibilmente sconfiggere definitivamente popoli così bellicosi.

Di fronte alle discordie tra le varie tribù germaniche e la loro incapacità di coalizzarsi stabilmente contro un nemico comune, con freddezza e acuta riflessione politica Tacito, costantemente ansioso per le sorti dei romani impegnati in combattimenti in quei luoghi, pensa ai risvolti di tali dispute e si augura che:

«permanga l’odio reciproco poiché per il destino che incombe sull’impero romano, nulla di meglio può offrire la fortuna che la discordia tra i nemici».

Lo conferma il commento feroce che scrive dopo la battaglia svoltasi sotto gli occhi dei romani tra due popolazioni germaniche in contrasto fra loro:

«Caddero più di 60.000 e non per opera di dardi o armi romane, e ciò è più splendido per la gioia dei nostri occhi».

Malgrado l’esaltazione delle donne germaniche a fianco dei loro sposi in combattimento, e della severità e castità dell’istituzione coniugale, è presente in Tacito il misoginismo che come un filo continuo percorre la storia della società e della letteratura latina. Nella rappresentazione della pena inflitta a un’adultera, Tacito concentra il suo personale antifemminismo quando parla degli adulteri «pochissimi, tra pur così numerosa gente» e descrive come severamente il marito punisca la donna che si macchi di tale nefasto comportamento:

«l’adultera è scacciata da casa, nuda, con i capelli rasati, alla presenza dei parenti, e sospinta a frustate per tutto il villaggio; infatti per la castità violata non c’è perdono: per quanto bella, anche se giovane e ricca, lei non potrà trovare un altro marito».

Poi secondo la sua tendenza a intrecciare notizie con considerazioni psicologiche o morali con un pensiero rivolto alla permissiva morale dei romani, aggiunge:

«nessuno infatti colà ride dei vizi, né corrompere o esser corrotti è con superficialità chiamato un male dei tempi.»

V’è una differenza anche di comportamento fra donne e uomini in occasioni di lutti durante i quali le donne danno una prova di estemporaneità, di superficialità, forse anche di teatralità quando piangono un estinto. Tale diversità è espressa con la consueta energia tacitiana in questa sentenza:

«Smettono presto i lamenti e le lagrime […] Piangere si addice alle donne, ricordare agli uomini».

A conclusione di questa breve presentazione della Germania credo sia chiaro che Tacito intenda, anche se non in modo esplicito, criticare i costumi dei romani che hanno dimenticato la sobrietà e la semplicità delle origini di Roma. Le antiche virtù sono ormai presenti in luoghi lontani dai confini dell’impero.

Nota: nell’immagine, copertina della “Germania” tradotta da F.T.Marinetti

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