di Maria Pellegrini

Il nostro presente è problematico e contraddittorio, a volte ci sembra di essere in un labirinto che «nel rappresentare l’assenza di vie d’uscita» indica «la vera condizione dell’uomo» come scrive Calvino in un saggio “La sfida al labirinto” del 1962. Per lo scrittore non ci si deve perdere nel labirinto e subirne il fascino, la sfida è entrare nel labirinto, cioè «essere all’altezza della problematicità e della complessità dell’oggi», sforzarsi di conoscere le difficoltà e affrontarle.

Nel mondo contemporaneo, a partire dal’900, il labirinto, luogo al cui interno l’uomo si smarrisce, è considerato metafora per rappresentare la realtà in cui l’uomo vive, quella realtà che chiede di essere conosciuta e ordinata.

Anche Louis Borges (uno dei più grandi poeti argentini, e importante scrittore del ventesimo secolo) pone al centro di vari racconti il labirinto che è «simbolo naturale della perplessità», cela «sotto un’apparente regolarità, significati più complessi e profondi», ed è «metafora del mistero che abita l’intricata vita quotidiana» e «allegoria della complessità del mondo».

Il labirinto è un simbolo che ricorre con enorme frequenza nella storia dell’umanità. È presente in culture, miti e religioni più disparate, ma anche nell’arte, compare in civiltà ed epoche diverse e in luoghi lontani. Il più noto è quello di Creta dove era chiuso il Minotauro, intorno al quale si intessono le vicende di Minosse, Pasifae, Arianna e Teseo.

Il mito di Arianna, dalle fonti più antiche fino alle rielaborazioni artistiche e letterarie più moderne, dimostra come questa vicenda mitica sia molto viva nella nostra tradizione culturale. Arianna, è figlia di Minosse, re di Creta, è la giovane che ha aiutato Teseo a uscire dal Labirinto. Dopo avere ucciso il Minotauro, Teseo porta con sé la principessa cui deve la vita, ma presto l’abbandona su una spiaggia solitaria.

Ripercorriamo brevemente l’intreccio di questo mito. Minosse prega il dio del mare Poseidone di inviargli un toro e promette di sacrificarlo in suo onore. Il dio fa comparire un bellissimo toro bianco, ma è così bello che Minosse decide di tenerlo tra le sue mandrie e di sacrificare un altro animale alla divinità, che per questo lo punisce facendo innamorare del toro la regina Pasifae. La donna per appagare questa insana passione è aiutata da Dedalo che costruisce per lei una vacca di legno con l’interno cavo ove Pasifae si nasconde. Dall’unione con quell’animale nasce il Minotauro, orrenda creatura metà uomo metà toro, subito rinchiuso da Minosse in un labirinto fatto costruire dall’abile architetto Dedalo.

Il Minotauro si ciba di carne umana, Atene, in seguito a un patto stabilito per la sconfitta subita nella guerra contro Creta, è tenuta a mandare al vincitore del conflitto un periodico tributo di sette fanciulli e sette fanciulle da dare in pasto al mostro. A questo punto del mito entra in scena l’eroe ateniese Teseo, che da Atene parte alla volta di Creta insieme ai giovani destinati alle fauci del mostro con l’intenzione di riuscire in ciò che tanti altri hanno fallito: uccidere il Minotauro. Giunto a Creta e ospitato alla corte di Minosse, l’eroe conosce la principessa Arianna, che s’innamora di lui e decide di aiutarlo nell’impresa.

La storia, che tutti conosciamo, somiglia a una bella favola: Teseo lega all’entrata del Labirinto un gomitolo datogli dalla principessa innamorata e lo dipana man mano che si addentra in quell’orrendo luogo; arrivato là dove dimora il mostro, si batte con lui e lo uccide. Quindi seguendo il filo si avvia all’uscita dove l’attende Arianna. Vi è molto di fiabesco in questa storia, il filo non ci ricorda i sassolini della fiaba di Pollicino che servono a ritrovare la strada? E Arianna non è la fata buona che viene in soccorso di chi tenta imprese disperate? Proseguendo nel racconto troviamo i due innamorati insieme sulla nave che deve portarli ad Atene. Ma sulla via del ritorno la storia d’amore finisce tragicamente. Sbarcato per fare rifornimenti nell’isola di Dia, odierna Nasso, in piena notte mentre Arianna dorme, Teseo risale sulla nave, riprende la via del mare abbandonando sulla riva la donna che le ha salvato la vita e lo ha reso celebre e valoroso. Il dio Dioniso mosso a pietà dai lamenti della giovane, la prende in sposa. Come regalo di nozze le dona un diadema che alla sua morte è tramutato nella costellazione che prende il suo nome.

La triste storia di Arianna ricorda quella di Medea figlia del re della Colchide che grazie ai suoi poteri magici aiuta Giasone a prendere il famoso vello d’oro, custodito da un drago che non dorme mai. Anche lei sarà abbandonata dall’uomo per nulla grato dell’aiuto ricevuto e la sua storia ha un epilogo ancor più tragico. Entrambe diventano famose e il loro destino di donne mosse dall’amore ad aiutare due stranieri belli e coraggiosi, ma ripagate con l’abbandono, saranno lungo i secoli a venire motivo d’ispirazione poetica.

In età cesariana Catullo non sfugge al fascino di questo mito e nel carme 64 descrive prima l’innamoramento della giovinetta alla vista del coraggioso ateniese:

«Non distolse il dolce sguardo da Teseo, prima di sentire / tutto il corpo pervaso dalla fiamma, e arse d'amore nelle più intime viscere».

Poi esprime l’angoscia e il dolore quando vede allontanarsi dall’isola la nave con il suo amore:

«Arianna vede fuggire Teseo all’orizzonte / sulla nave che veloce s’allontana e in cuore/ presa dal delirio non vuol credere ai propri occhi, / ora che strappata alle illusioni del sonno / si ritrova abbandonata sulla spiaggia deserta. / Teseo batte coi remi il mare, l’ha dimenticata, fugge, / lasciando che i venti disperdano le sue promesse».

Tra pianti, lamenti e paure la ragazza esclama:

«Ormai nessuna donna creda ai giuramenti di un uomo / nessuna speri che i discorsi di un uomo siano leali» e non manca di lanciare contro Teseo e i suoi parenti una terribile maledizione che si avvererà: ritornato in patria, l’eroe dimentica quanto ha promesso al padre Egeo, cioè di issare le vele bianche come segno dell’impresa vittoriosa, e lascia le luttuose vele nere con le quali era partito, alla cui vista il disperato padre interpreta che il figlio sia morto e si getta nel mare che prenderà il suo nome: Mare Egeo

Un altro poeta classico, Ovidio di età Augustea, rielabora il mito, valendosi di una finzione letteraria: immagina che Arianna, nella solitudine dell’isola dove è stata abbandonata, scriva una struggente lettera a Teseo, contenuta nelle “Heroides”, una singolare raccolta di missive che le donne abbandonate indirizzano ai loro seduttori.

La giovane cretese rinnovando il suo dolore ricorda le gioiose speranze distrutte, poi s’illude di ritrovare il suo amore:

«Le parole che leggi t’invio, o Teseo, da quel lido donde le vele portano lontano senza me la tua nave; purtroppo a tradirmi è stato il mio sonno e tu, scellerato, ne hai approfittato per partire lasciandomi sola. Era l’ora in cui la terra è spruzzata da cristallina brina e nascosti tra le fronde si lamentano gli uccelli; non ancora ben desta nel languore lasciato dal sonno, allungo le mani credendo di stringerti: non ci sei […] atterrita mi alzo, mi batto il petto, mi strappo la chioma già scomposta dal sonno. Guardo la riva del mare deserta, c’è ancora la luna, niente altro scorgono i miei occhi che il lido deserto. Corro qua e là senza meta ma l’alta sabbia rallenta i miei passi. Per tutto il lido risuona la mia voce che grida: ‘Teseo, Teseo scellerato, ritorna, volgi indietro la nave. Non è completo il tuo equipaggio.’».

Arianna ha paura è sola su una spiaggia deserta, teme l’arrivo di fiere o uomini, maledice se stessa per aver aiutato Teseo ed essersi fidata delle sue promesse, lo vede come uomo dal cuore di pietra, ma continua a sperare che una volta tornato in patria ed essersi vantato delle sue prodezze, pensi a lei e ritorni. Così lo implora a chiusura della sua lettera, pur sapendo che non arriverà a destinazione, né riceverà risposta:

«Oltre le vaste acque io sventurata protendo a te le mani stanche di battere dolorosamente il petto. Afflitta, ti mostro questi capelli rimasti; per queste lacrime che cadono per i tuoi misfatti, Teseo, ti supplico, inverti la rotta e messa al contrario la vela, ritorna; se poi intanto sarò morta, raccoglierai le mie ossa».

Il silenzio di quella notte lunare che circonda la fanciulla, la deserta e squallida località che la accoglie; il cielo, il mare e la terra sembrano prendere parte al suo dolore e alla sua solitudine. Il paesaggio che fa da sfondo al lamento di questa eroina è desolato, una scenografia in accordo ai sentimenti espressi dalla protagonista e al potenziale patetico della vicenda.

Ovidio che mette in primo piano la fragilità della giovane, tanto che di fronte all’amore non corrisposto di Teseo chiede pietosamente almeno di essere parte dei suoi ricordi:

«Quando ti glorierai narrando la tua impresa, racconta anche di me, abbandonata in una terra deserta, io non devo essere sottratta ai tuoi ricordi».

Il poeta augusteo Properzio in una elegia paragona il fascino della sua amata Cinzia a quello di Arianna e in un’altra compara il piacere di una notte d’amore con la sua amata a quello della giovane cretese quando vede Teseo uscire incolume dal labirinto tenendo in mano il filo che lo ha guidato. Più che un’Arianna dolente il poeta umbro preferisce rappresentarla nel pieno splendore quando ancora non prevede il dolore dell’abbandono.

La storia di Minosse, Teseo, Arianna e il Minotauro, è nota già nel VII secolo a. C. Un frammento della poetessa Saffo nomina i quattordici ragazzi ateniesi portati a Creta e forse è anche più antica: sui tripodi di un bronzo di Olimpia dell’VIII sec. a.C. è raffigurato un Minotauro. La saga risale dunque a tempi lontani e si rinnova ogni volta che viene raccontata ponendo l’attenzione su l’uno o l’altro dei personaggi. Nell’“Odissea” troviamo una versione diversa. Qui Arianna compare nel catalogo di eroine che Odisseo vede agli Inferi:

«La bella Arianna, figlia di Minosse funesto, che una volta Teseo conduceva da Creta alla sacra rocca d’Atene, ma non ne godette: prima la uccise Artemide, a Dia cinta dal mare, essendo Dioniso testimone»

Se Esiodo ha chiamato Minosse «il più regale», i tragici del V sec. a. C, lo hanno rappresentato come un uomo violento e crudele; Euripide che nelle sue opere rappresenta gli errori e i dolori degli uomini, nella tragedia “Cretesi”, dedica una parte importante al mito di Arianna, ma la figura principale è Pasifae. La donna non si sente responsabile dell’insana passione che l’ha spinta a unirsi con un toro, è stato Poseidone, il dio del mare risentito per l’affronto ricevuto da Minosse (non gli ha sacrificato il toro bianco) a ispirare in lei quell’amore perverso. Quindi si rivolge furiosa al dio:

«Tu mi ha rovinato, tua è la colpa, / per causa tua io soffro».

Minosse invece non accetta di sentirsi in qualche modo colpevole e con rabbia la richiude nel Labirinto.

Sarebbe troppo lungo seguire le tracce di Arianna attraverso lo scorrere del tempo, non c’è secolo in cui poeti, scrittori o artisti abbiano dimenticato questa giovane donna rappresentandola sotto diversi aspetti. Abbiamo citato alcuni poeti latini, alcuni tragici greci, Omero, ma vasto è il numero dei poeti e scrittori - dall’antichità al Medioevo, al Rinascimento, al romanzo e alla poesia del Novecento - che si sono interessati e ispirati al mito di Arianna.

Concediamo spazio alle opere di due autori: il “Teseo” di André Gide (vincitore del Nobel nel 1957, maestro di più generazioni, dalla una prosa limpida e iconoclasta) e “I re” di Julio Cortázar (nato da genitori argentini, ma vissuto a Parigi, poeta, scrittore, critico letterario, saggista e drammaturgo). Entrambi reinterpretano e modificano il mito. In Gide l’accento eroico svanisce, Teseo è presentato come un vecchio che ricorda le sue avventure al figlio Ippolito, di Arianna lascia un ritratto di donnetta petulante che Teseo fin dall’inizio ha pensato di abbandonare. «Insopportabili le sue dichiarazioni di amore eterno, e i nomignoli teneri che mi affibbiava, io ero il suo canarino, il suo cagnolino il suo passerottino».

Cortazar nel breve dramma più noto con il titolo “Minotauro”, mette in scena il rapporto d’amore tra Arianna e il Minotauro, suo fratellastro, un mostro triste e buono. Nella scena centrale quell’ibrido uomo/bestia non combatte, offre il collo al suo uccisore ritendo così di rimanere eterno nella memoria di Arianna, per la quale sarà sempre «il fratello assente e magnifico».

Ricordiamo anche due illustri rappresentanti del secolo che ci ha preceduto, non a caso sono due donne: la poetessa Marina Cvetaeva, e la scrittrice Marguerite Yourcenar.

La grande poetessa russa Cvetaeva è ispirata dalla triste sorte di questa figura del mito e del suo amore tragico, e la descrive consapevole del fatto che sarà abbandonata da Teseo con un ritornello ripetuto nel testo della sua tragedia “Arianna” che ripercorre tutte le fasi della storia di amore tradito:

«L’ospite lungi navigherà / nelle favole e nei canti fama avrà / La vergine dimenticata sarà. L’ospite dimenticherà».

Yourcenar, l’indimenticabile autrice delle “Memorie di Adriano”, racconta la storia di Arianna e Teseo nel 1939, ma la riscrive sul finire della seconda guerra mondiale, in una piece teatrale intitolata «Chi non ha il suo Minotauro»? aggiungendo l’episodio dei 14 ragazzi che Teseo porta a Creta per essere divorati dal Minotauro e li vede come dei deportati sotto la suggestione delle prime notizie sulle deportazioni di ebrei da parte dei nazisti e sugli stermini di massa da loro compiuti. All’immagine dei ragazzi portati da Teseo si sovrappone quella dei vagoni piombati che vanno nei campi di concentramento, e quella dell’uomo chiuso nel suo labirinto che non sa nulla del suo destino e dove stia andando.

Ogni uomo ha il suo Minotauro privato da sconfiggere, e il suo Labirinto dal quale trovare una via d’uscita.

Nota. nell’immagine Arianna dormiente, Musei Vaticani

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