I fichi secchi e le olive di Platone, o la collezione di pentole di Aristotele.
di Adriano Sofri - Il Foglio - 04.12.2019
C’è un gran modo di conoscere le culture diverse: mangiarle. E se no leggerle, soprattutto quando, come greci e latini, hanno lasciato un formidabile patrimonio di gastronomia materiale e morale. No, non voglio prendermi la mia briciola della grande abbuffata contemporanea. Misteriosa, anche: vi ricordate la storia che la Dc vinceva le elezioni ma non si trovava mai nessuno che dicesse di votare Dc? (Poi lo si è ridetto per i Cinque stelle, e qui lo si capisce meglio). Ecco: siamo circondati di trasmissioni e gare di cucina, ma avete mai trovato qualcuna o qualcuno che ammetta di guardarle? Bene: Maria Pellegrini è una studiosa di cose classiche, a lungo collaboratrice e coautrice di Luca Canali, e bravissima traduttrice. Ha deciso di raccogliere il meglio dei testi greci e latini sull’argomento, in versione italiana, tranne che per un poemetto poco noto presentato in apertura, la “Gara fra un cuoco e un fornaio”, arbitro Vulcano, alla cui fucina le cucine venivano accostate. Finisce in pareggio, olimpicamente. Poi arriva un fuoco d’artificio di ritratti, aneddoti, racconti, ricette e orazioni. Platone era ghiotto di fichi secchi e olive. Aristotele aveva un’intera collezione di pentole. Diogene, quello cui Alessandro faceva ombra, si accontentava di lenticchie e lupini, mangiati non nel piatto ma sul palmo della mano, come aveva visto fare a un bambino. Zenone stoico, di Cizico, amava fichi verdi, miele e vino. Nel 2005, ricorda Marco Beck nella prefazione, studenti e docenti del milanese liceo Berchet, celebrando la maturità con una cena filologicamente luculliana, mostrarono appunto “che esisteva una modalità concreta per familiarizzarsi con una civiltà classica”: cucinarla e mangiarla. Anche chi sia sazio della gastronomizzazione globale e populista, e magari non ne possa proprio più, si appassionerà alla conoscenza di tanti cuochi, pasticceri, anfitrioni, crapuloni e digiunatori, dei e umani. Poveri e affamati, come un tal Allodola cantato da Timocle (IV secolo a. C.): non invitato a pranzo, si procurava del pesce per pranzare a casa sua. Aveva 4 monete di rame: guardava le anguille, il tonno a fette, le torpedini, le aragoste, e aveva l’acquolina in bocca. Chiese il prezzo di ogni pesce, “quando lo seppe, si spostò di corsa alle sardine” (l’ultima parola è una leggerissima variazione mia). Parassiti famosi, scroccatori di pranzi, come un Cherefonte (Linceo?): un giorno andò non invitato a una festa di nozze, e si accomodò, ultimo, su un divano. Gli addetti che contavano gli ospiti gli intimarono di andarsene perché con lui si superava il numero legale di trenta, e replicò: “Contate di nuovo a partire da me”. Da Catone il Censore ci aspettiamo una condanna del lusso a tavola e dello sperpero, ci aspetteremmo meno il tragicomico cinismo della conclusione, che sembra un Mark Twain involontario: “Metterai da parte le olive cadute a terra, quante più puoi… Usane con parsimonia. Una volta consumate le olive, darai agli schiavi salsa di aceto”. (MariaPellegrini, “Antica gara tra un cuoco e un fornaio”, G. Landolfi ed., 254 pp., 15 euro).
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