di Vincenzo Vita.

Una delle pochissime certezze di un’Italia impoverita e a disagio nelle sue corde sociali profonde è la scintillante cerimonia mediatica che inizia a Sanremo: un lampo di alienazione consensuale.

Via via, nel corso degli ultimi anni e, soprattutto con l’abile conduzione di Amadeus, la kermesse della riviera ligure è diventata un po’ il trionfo della musica diffusa su molteplici piattaforme: che le vecchie generazioni delle Hit Parade condotte da Lelio Luttazzi forse poco conoscono; ma rappresenta, comunque, un evento celebrativo della forza televisiva. Si tratta di un caso di scuola, in cui vecchi e nuovi media non confliggono, bensì moltiplicano vicendevolmente i propri effetti.

Un merito delle ultime edizioni è senz’altro di avere valorizzato i giovani, artiste e artisti meno piegati alla medietà e al senso comune o non corrivi nei riguardi delle tradizionali censure e autocensure sul gender. L’epifania di tali ibridazioni dei contenuti e delle età sta nella trovata dei duetti vintage, in cui sentimenti e immaginari si mescolano con una gradevolezza velata dalla malinconia.

Torniamo, però, alla crudezza dell’industria culturale, che incombe ammantandosi dell’annuale straniamento: panem et circenses, dalla Roma degli imperatori in poi.

Sanremo è la stampella economica e della Rai. La raccolta pubblicitaria è di circa 50 milioni di euro, malgrado la non innocente (leggi i conflitti di interesse della storica concorrenza privata) riduzione dell’affollamento pubblicitario proprio nelle ore calde del prime time. Dalle ore 18 alle 24 il limite scende quest’anno al 6%, dal 7% del 2022. Forse, questo spiega la presenza della nota influencer Chiara Ferragni, capace da sola di animare migliaia di contatti sui social. È la post-modernità, bellezza, per parafrasare frasi celebri. Dobbiamo farci i conti, perché il consumo di massa è ormai assai articolato e la fruizione si è espansa in aree dove tempo fa non si sarebbe osato. E siamo solo agli inizi della rivoluzione dell’intelligenza artificiale, nonché degli algoritmi predatori.

Per la Rai è un tesoro da non svendere, a prescindere. E pensare che negli anni della massima contesa con Fininvest-Mediaset a suon di ingaggi e di sgambetti, pure Sanremo fu oggetto dei desideri del biscione, con vaghe simpatie persino nelle democristiane giunte della città dei fiori.

Fin qui, però, siamo nelle aporie del regime della società dello spettacolo e dell’ infosfera.

Tutt’altro è l’invito furbesco e cinico al leader ucraino Zelensky, anche se al video dopo le polemiche si sostituisce un testo letto da Amadeus. Non si venga a contrabbandare simile inusuale invito (c’è la guerra e gli esempi omologhi di altre edizioni non reggono) con un atto di solidarietà verso il paese invaso. Siamo al cospetto di una mera ricerca dell’audience, dove tutte le vacche sono nere. Ecco, sarebbe almeno ragionevole rimediare al pasticcio, offrendo il palco anche ad una voce per quella pace predicata invano dal papa di Roma Francesco. I comitati per Julian Assange, a loro volta, entrano nel gioco di Fantasanremo, chiedendo a coloro che partecipano di indossare la maschera del fondatore di WikiLeaks.

L’ascolto è il dio pagano della vicenda. La scorsa edizione arrivò a oltre 11 milioni di utenti, con il cosiddetto share al 58,40%. Siamo lontani dalle cifre degli ultimi anni ottanta del secolo passato, mantenendosi a livelli alti.

Inserzionisti e sponsor brindano all’imminente abbuffata, ma l’eccezionalità del festival serve anche a mettere in luce i difetti aziendali di un servizio pubblico capace, ormai, di brillare soprattutto nei suoi eventi. La normalità non è granché e non basta neppure il successo sanremese a raddrizzare un bilancio tirato e difficile, a stento approvato nei giorni passati dal consiglio di amministrazione.

Inoltre, questa edizione sarà, forse, il canto del cigno dell’attuale gestione, sotto la sorveglianza speciale di una destra al governo piuttosto asimmetrica a fronte di una manifestazione che cerca di rompere certi archetipi conservatori. Voci beghine si sono già levate. Fortunatamente, isolate.

Vedremo alla fine delle giornate di Sanremo quale riflessione sarà lecito fare di una avventura giunta al numero 73.

Amadeus e Gianni Morandi ricordano qualcosa della fenomenologia di Mike Bongiorno. Tuttavia, hanno avuto la capacità di tenere in ballo l’uditorio generalista e non per almeno un mese, usando a mani basse pure il traino compiacente del Tg1.

Un grande mestiere basterà a coprire le crepe di un evento che comincia ad essere logorato dal suo stesso successo? Tra l’altro, quest’anno Mediaset ha il coltello tra i denti, avendo costruito un contro-palinsesto di lotta.

Chissà, le culture musicali meno assuefatte e tutelate potrebbero inventare alternative, non minoritarie o rivolte a pur nobilissime nicchie, bensì esploratrici di strati della cultura di massa che navigano ancora sotto la superficie, attendendo di potersi svelare.

Ci saranno manifestazioni di protesta, si annuncia. Sanremo, tuttavia, frammento di rivoluzione passiva, è in grado di macinare tutto e tutti.

È il momento di ragionare su progetti consoni all’età che viviamo, brutta che sia. Ma diversa e senza voce.

Per l’intanto, partecipiamo con distacco brechtiano al rito perenne di febbraio. Disillusi e curiosi.

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