di Maria Pellegrini.

Fin dai primi studi di storia romana, già al tempo delle scuole elementari, abbiamo appreso l’eroico gesto del leggendario Muzio Scevola. Entrato negli accampamenti etruschi con l’intenzione di uccidere il re Porsenna che si preparava ad assediare Roma, Muzio per sbaglio pugnala un’altra persona. Condotto alla presenza del re, esclama: “Mi chiamo Caio Muzio, sono un cittadino romano, volevo uccidere uno che per me è un nemico; di fronte alla morte non ho meno coraggio di quanto ne ho avuto per uccidere. È proprio dei romani agire e soffrire da forti”. Il re minaccia di sottoporlo al tormento del fuoco e Muzio coraggiosamente pone la sua mano destra su un braciere ardente e lasciandola bruciare senza battere ciglio pronuncia queste parole: “Comprendi che scarso valore abbia il corpo per coloro che mirano a una grande gloria”. Il re ammira il suo coraggio e lo lascia libero; da allora gli è stato dato il soprannome Scevola che vuol dire “mancino”. Questo episodio è narrato da Livio, nella “Storia di Roma dalla sua fondazione” (Ab urbe condita libri) e risale al 507 a. C.

L’Università di Padova in collaborazione con il Centro studi liviani celebra il bimillenario della morte di Tito Livio (nato a Padova nel 59 a. C. e morto nel 17 d. C) con una serie di manifestazioni per ricordare la figura di questo grande storico “la cui opera è stata di ispirazione alla cultura europea nei più svariati campi, dalla letteratura alla pittura, dalla scultura alla musica. È stata, soprattutto, una fondamentale via di accesso all’epopea di Roma antica, al suo patrimonio di episodi edificanti, drammatici, poetici”. Così è riportato nel manifesto che pubblicizza le manifestazioni del bimillenario. Il programma è molto ricco e si concluderà con un grande convegno internazionale. Studiosi di tutto il mondo si riuniranno per presentare i risultati più avanzati della ricerca su Tito Livio: non soltanto filologi e storici del mondo antico, ma anche archeologi, storici dell’arte, medievisti, storici del pensiero politico.

L’opera “Ab urbe condita” è fondamentale per qualsiasi studio sulla storia romana dell’epoca regia e repubblicana. Costituisce una fonte insostituibile sulle vicende del più grande impero dell’età classica, ma è anche un’opera letteraria con un linguaggio appassionato, di grande suggestione, incline a rendere poetici gli eventi e a narrarli con eccezionale incisività drammatica e psicologica. Livio è il primo tra gli storici latini che non appartenga a una famiglia dell’aristocrazia senatoria e non si sia impegnato direttamente nella lotta politica. Da ciò deriva il suo raccontare gli eventi storici da uomo di lettere e non di azione, sottoponendo la storia romana a un processo di idealizzazione. Si ritiene che abbia intrapreso la stesura dell’opera negli anni seguenti la vittoria di Azio (31 a. C.) nel 29 o nel 27 a. C., anno del conferimento a Ottaviano del titolo di Augustus. A questo faticoso affresco storico egli dedica tutto il resto della sua vita. Dei 150 libri programmati ne porta a compimento soltanto 142, con la narrazione della storia di Roma dalle origini alla morte di Druso, figliastro di Augusto, avvenuta nel 9 a. C. , anno da ricordare anche per la disfatta romana di Teutoburgo.

Di questa immensa opera sono rimasti 35 libri: I-X e XXI-XLV. La prima deca (libri I-X) è interessante per la narrazione delle leggendarie origini di Roma. L’arrivo di Enea nel Lazio, la nascita dei due gemelli Romolo e Remo, che la madre, la vestale Rea Silvia, ha concepito unendosi al dio Marte. Seguono le vicende dei sette re, da Romolo a Tarquinio il Superbo, ultimo re cacciato dal popolo per vendicare la giovane Lucrezia che ha subito violenza dal figlio del re, un episodio narrato con grande tensione drammatica. Dopo l’avvento della repubblica c’è la reazione del re etrusco Porsenna che assedia Roma. Molto noti sono i leggendari episodi di valore legati a questa guerra e compiuti da Orazio Coclite, che da solo tiene testa all’esercito etrusco all’estremità del ponte Sublicio, da Muzio Scevola, prima citato, dalla giovane romana Clelia che, data in ostaggio a Porsenna, fugge attraversando a nuoto il Tevere, ma per lealtà alla parola data i Romani la riconsegnano al re che ammirando il valore della ragazza e la lealtà del nemico, la rilascia e abbandona l’assedio.

La giovane repubblica deve però affrontare una coalizione di popoli latini, una guerra contro i Volsci (a sud di Roma) e gli Equi (a est). La tradizione collega a queste guerre le figure di Gneo Marcio Coriolano e di Lucio Quinto Cincinnato, anch’essi dai tratti leggendari. Il primo, che ha preso il soprannome dalla sua vittoria sui Volsci della città di Corioli, passato poi dalla parte dei nemici per contrasti con i tribuni, guida i Volsci contro i Romani. Convinto dalle preghiere della madre e della moglie andate incontro a lui insieme ai due figlioletti, rimuove il campo e allontana dal territorio romano le legioni che ha radunato. Livio riporta l’appassionato discorso che la madre pronuncia per esortare il figlio a non marciare contro la sua stessa città, anche se questo gli costerà la morte da parte dei Volsci che lo puniranno come traditore dell’impegno preso.

Cincinnato invece è ricordato come esempio della semplicità e della frugalità dei tempi antichi. Chiamato a guidare l’esercito contro gli Equi che hanno bloccato il console Minucio su un monte presso Tuscolo, obbedisce al richiamo della patria che richiede il suo aiuto, lascia l’aratro con il quale stava arando il suo podere e in sole ventiquattro ore libera l’esercito romano e costringe gli Equi a passare sotto il giogo. Rifiuta poi ogni onore e torna al suo campo.

Presto sono gli Etruschi, soprattutto quelli della loro più potente città, Veio, posta sulla riva destra del Tevere, a portare guerra nel Lazio desiderosi di conquiste. Distruggere Veio sarà la prima grande impresa compiuta dai romani. Anche narrando le vicende di questa guerra che dura dal 482 al 396 a. C., Livio pone l’accento sull’eroismo dei soldati; il più noto episodio è la strage della gens Fabia. Sono poco più di trecento uomini, insieme a tremila loro clienti a tenere testa al nemico per due anni, ma poi caduti in un agguato muoiono tutti. La data di tale tragico evento sarà inserita tra i giorni nefasti.

Dal primitivo solco quadrato, con inarrestabile marcia, Roma è riuscita nel corso dei primi due secoli ad affermare la sua supremazia sulle circostanti città del Lazio. L’invasione gallica è la prima seria minaccia alla sua indiscussa preminenza sui popoli Latini e su tutti i popoli confinanti. Nel 390 a.C. sotto la guida del loro capo, passato alla storia col nome di Brenno, un’orda di Galli scende nella penisola, varca l’Appennino e si dirige alla volta di Roma. Il tentativo di fermare la loro avanzata fallisce. Giunta a Roma la notizia, la città è evacuata completamente, ad eccezione della rocca del Campidoglio dove un pugno di valorosi rimane a difesa della fortezza. Non mancano da parte di Livio descrizioni di curiosi episodi come quello delle provvidenziali oche che svegliano i soldati di guardia costringendoli ad affrontare l’assedio dei Galli e a respingerli. Molto nota è anche la figura di Marco Furio Camillo che si rifiuta di cedere al pagamento di mille libre d’oro richieste dai Galli per abbandonare definitivamente le ostilità. Mentre si sta pesando l’oro del ricatto il valoroso comandante sopraggiunge con ventimila uomini gridando “Non con l’oro ma col ferro si salva la patria.” Poi si getta sui nemici facendone strage. I Galli tentano altre due volte di invadere la città, ma soltanto nel 357 a. C. saranno vinti definitivamente.

Anche nel racconto delle guerre sannitiche (che chiudono la prima deca) sfilano valorosi condottieri: il console Valerio Corvo, Manlio Torquato e il figlio Tito Manlio, Decio Mure, padre e figlio che s’immolano per la patria. Un episodio narrato con grande tristezza è l’onta subita dall’esercito, sconfitto dai Sanniti e sottoposto a passare sotto le Forche Caudine.

La prima deca, popolata da tante figure divenute leggendarie è la più suggestiva narrazione degli albori dello stato romano.

Machiavelli nei suoi “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” esorta a compiere una lettura delle storie antiche in modo che costituisca un dialogo effettivo coi grandi del passato, attraverso il quale l’uomo possa conoscere meglio se stesso e trarre da questo l’incentivo a un’azione magnanima, consapevole e virtuosa. La storia dei romani, che Machiavelli vede come il popolo grande e virtuoso per eccellenza, diviene una specie di storia ideale, eterna, modello davanti al quale la storia italiana e quella fiorentina degli ultimi secoli rivelano tutta la loro debolezza.

La terza deca (XXI al XXX), la più rispondente alla verità storica, narra la seconda guerra punica (218-201 a. C.). Sono ricordati luoghi che sono stati teatro di terribili sconfitte: il fiume Ticino (sulla cui riva destra la cavalleria di Annibale ottiene la vittoria in battaglia contro il console Cornelio Scipione); il fiume Trebbia (dove il console Sempronio Longo che tenta di impedire ad Annibale di attraversare l’Appennino, subisce una grave disfatta); il lago Trasimeno (dove il console Flaminio Nepote, sorpreso da Annibale, è battuto e perde egli stesso la vita); Canne (presso la riva dell’Ofanto, luogo della grande sconfitta inflitta da Annibale ai romani: perirono il console Emilio Paolo e 50.000 soldati). Un appassionato fervore spira dalle pagine di Livio di fronte a questi dolorosi insuccessi, ma anche quando questi sembrano irreparabili lo scrittore ha fiducia nel valore del popolo romano che non lo deluderà, infatti giungerà a portare la guerra sui campi d’Africa e a vincere lo stesso Annibale di cui però lo scrittore lascia un ritratto vòlto a delineare le qualità che lo hanno reso così temibile: “Aveva grandissimo coraggio nell’affrontare i pericoli, grandissima prudenza quando si trovava in mezzo ai pericoli stessi. Da nessuna fatica poteva essere fiaccato il suo corpo o abbattuto il suo animo”. Tra i tanti passi delle guerre puniche da lui narrate e meritevoli di essere ricordati, ci limitiamo a citarne un paio: la discesa di Annibale attraverso le Alpi e la tragica storia di Sofonisba, moglie del numida Siface e nemica di Roma: preferì darsi la morte bevendo il veleno pur di non cadere nelle mani dei romani.

Meno felici i libri dell’ultima deca (XXXI-XL) che riguardano gli avvenimenti successivi alla seconda guerra punica fino alla morte di Filippo di Macedonia (179 d. C.), e i seguenti cinque libri XLI-XLV che giungono fino alla cattura di Perseo, ultimo re sul trono di Alessandro Magno ad opera di Emilio Paolo (169 d. C.) Il racconto dei rimanenti libri perduti è noto attraverso epitomi, riassunti compilati in età più tarda.

L’attività storiografica era fiorente in Roma già da duecento anni, ma rispetto alla tendenza dei più recenti storici dell’età cesariana, che si erano limitati alla trattazione monografica di singoli periodi, Livio ritorna all’uso degli annalisti al racconto dei fatti anno per anno ma con spirito nuovo, vuole consegnare ai posteri le gloriose memorie della repubblica romana alla quale si volge con accenti di idealizzazione e nostalgia. Egli guarda al lontano passato evocando personaggi leggendari, veri e propri modelli di comportamento per i contemporanei incarnando gli antichi ideali del valore, della lealtà, dell’obbedienza al volere divino; interroga il passato per capire il presente dal quale è amareggiato perché vede in esso corruzione e vizi che hanno portato alla decadenza dello stato. L’attività di Livio si svolge in un periodo cruciale per la storia di Roma, a cavallo tra la fine delle guerre civili - cui segue quella della repubblica- e l’avvento di Ottaviano Augusto, primo princeps di Roma e fondatore dell’impero. Livio è testimone privilegiato di questo passaggio epocale. Pur intrattenendo con Augusto un rapporto amichevole, la sua adesione al regime è fortemente critica: esprime con lucida severità il giudizio sulla decadenza dello stato che “soffre della sua stessa grandezza”.

Nelle pagine iniziali delinea i criteri e la finalità dell’opera. Il suo proposito è “che ciascuno rifletta attentamente su questi fenomeni: quali siano state le condizioni di vita, quali i costumi, in virtù di quali uomini e quali strumenti si sia formato e accresciuto, in pace e in guerra, l’impero”. La narrazione del passato glorioso è anche un rifugio confortante per lo spirito, immergersi nella contemplazione della virtù degli antichi distrae il suo animo dai mali del presente. La storia - come già per Cicerone che la considerava “magistra vitae” - per Livio ha uno scopo di ammaestramento morale, deve fornire gli esempi di ciò che si deve imitare o evitare. Il modello di comportamento è incarnato da quegli uomini dell’antica Roma dotati di virtù eccezionali: il disprezzo del pericolo e del dolore fisico, la tenacia di fronte alle avversità, la laboriosità, la salda disciplina morale che si basa sul rispetto degli antichi costumi. Attraverso la rassegna degli uomini e delle virtù che hanno costruito la potenza romana, scrive una storia esemplare per l’edificazione morale e civile, per la formazione etico-politica dei cittadini. Leggiamo nella Prefazione: “Questo soprattutto è utile e salutare nello studio della storia: avere davanti agli occhi esempi di ogni genere testimoniati da un’illustre tradizione da cui trarre ciò che devi imitare per il bene tuo e del tuo Stato, e ciò che devi evitare, perché malvagio nelle intenzioni e nelle conseguenze”.

Concetto Marchesi, illustre storico della letteratura latina scrive: “Livio ha risuscitato lo spirito dei tempi eroici in un’opera dove è tutta la floridezza letteraria dell’età di Augusto. Egli è l’ultimo degli annalisti repubblicani che scriva con la gioia e l’orgoglio di essere romano: la sua opera è il massimo monumento artistico che sia stato innalzato alla gloria di Romani.”

 

Nota: nell’immagine, il Francobollo emesso per il bimillenario della morte di Tito Livio

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