Di Sergio Bruno

PERUGIA - Coloro che considerano se stessi quali élites hanno sempre aspirato a governare, possibilmente in un rispettabile ambiente democratico e seguendo le sue regole. Gli ultimi trent’anni hanno conosciuto un tentativo, da parte di varie tecnocrazie, di acquisire una egemonia nelle faccende economiche di maggiore importanza. L’hanno fatto in modo discreto, sicché il processo sottostante è passato inosservato da parte della maggioranza della sfera politica. L’attuale crisi economica offre la possibilità di cominciare ad esplorare questi sottili e surrettizi mutamenti.

Le ragioni del successo degli attacchi speculativi

Il successo che gli attacchi speculativi stanno conseguendo è dovuto ad una sequenza di comportamenti errati da parte dei soggetti di policy, basati su false verità e indotti da cattive analisi. I semi della sequenza perversa che ha condotto a ciò erano stati piantati negli anni 1980, con il trasferimento del potere di signoraggio dagli stati alle banche centrali, e sono stati poi rinforzati, in Europa, “proibendo”, alle banche centrali prima e alla BCE successivamente, di sottoscrivere direttamente i titoli del debito emessi dagli stati membri (Art.101 del Trattato). Protagonisti di questa stravagante commedia sono state le tecnocrazie delle banche centrali –sia a livello nazionale che internazionale- e in una qualche minore misura la Commissione europea. Il ruolo di villains de la pièce l’hanno assunto i governi democraticamente eletti, indipendentemente dai loro orientamenti politici, che hanno passivamente trasferito pezzi di potere, importanti e di rilievo costituzionale, a tali tecnocrazie.
Le “terapie” basate sull’austerità fiscale sono l’ultimo parto generato da tale sequenza. Si dice che esse interromperanno gli attacchi speculativi. Sostengo invece che esse non fanno che preparare il terreno per nuovi attacchi speculativi, che saranno innescati, questa volta, dagli indicatori di recessione e/o dall’assenza di effetti positivi –quanto meno rilevanti- nei rapporti debito/PIL. Vi è invece una sola strada per frustrare gli attacchi speculativi: quella di fare della BCE un prestatore di ultima istanza nei confronti dei debiti sovrani, come proposto recentemente (www.voxeu.org ) da P.De Grauwe, D.Gros, S.Micossi; in altri termini restaurando una organizzazione istituzionale della politica economica pre-anni 1980. Ma la BCE e i governi europei sono avviati su ben altra strada. Basti in proposito pensare alla stravagante idea di “costituzionalizzare” le disposizioni in materia di pareggio dei bilanci.
Gli argomenti sviluppati da Susan George (www.tni.org/interview/end-financial-control-european-governance) sono particolarmente incisivi: ”La BCE è il reale ostacolo al successo, non l’Euro di per sé. La BCE non presta ai governi, bensì alle banche, all’1% o meno, e poi le banche prestano ai governi ... La BCE, diversamente da qualsiasi altra banca centrale, non emette Eurobonds”. Un sistema macchinoso, quindi, che non contribuisce certo alla stabilità. Quanto alla abdicazione della politica ella aggiunge: “Ora la Commissione Europea vuole esaminare i bilanci dei singoli paesi membri prima che i rispettivi parlamenti li votino per essere sicura che essi rispettino dati standard. E questo è un attacco sfacciatamente evidente (blatant) alla democrazia”.
Quella di Susan George è una implicita, ancorché involontaria e parziale risposta all’ interrogativo sollevato da Rossana Rossanda se il cominciare dall’unione monetaria sia stata la strategia più opportuna per fondare l’unione politica. Anche Mario Pianta ha fornito una parte di risposta ricostruendo, in una prospettiva di storia economica, quanto è accaduto. Ciò che vorrei ulteriormente esplorare è come tale assurdo processo sia stato possibile: sulla base di quali distorsioni culturali, errati ragionamenti, credenze false ma a forte radicamento popolare.

Gli attuali atteggiamenti in materia di policy danno forza agli attacchi speculativi

Gli attacchi speculativi contano sul fatto che, quando gli speculatori professionali cominciano a vendere in modo concentrato titoli che sono andati acquistando poco alla volta, la diminuzione del loro valore e i più alti premi di rischio che vengono richiesti per il loro rinnovo inducano una massa ben più ampia di detentori degli stessi titoli a vendere, moltiplicando gli effetti delle vendite degli speculatori. Ma al contempo gli speculatori, per conseguire i loro guadagni, vendono impegni di consegna futura degli stessi titoli, che essi acquisteranno ad un prezzo più basso se la loro azione avrà avuto successo. Il successo dipende quindi dal fatto che (a) gli altri detentori di quei titoli abbiano creduto nel loro rischio di fallimento e venduto molto corrispondentemente e (b) dal fatto che nessuno li compra. Se la BCE si dichiarasse subito e chiaramente pronta a comprare, quei titoli tenderebbero a conservare il loro valore e il diffuso convincimento di ciò attenuerebbe il panico. La BCE dovrebbe acquistare, subito, solo un ammontare relativamente piccolo di quei titoli, che potrebbe rivendere in seguito con tutta calma.
Il problema è che gli speculatori stanno attualmente contando proprio sul fatto che non vi sarà una reazione pronta e decisa in termini di acquisto dei bonds messi sotto attacco. Succede addirittura che le false ragioni per le quali i detentori dei titoli sotto attacco si fanno prendere dal panico siano avallate, anziché respinte, dalla BCE e dai governi europei. Ed è proprio di questo che si serve la speculazione.

L’esempio italiano

La quantità di titoli del debito pubblico italiano detenuto da soggetti esteri era, prima degli attacchi speculativi, dell’ordine del 50% del suo PIL e il tasso di interesse medio dovuto dell’ordine del 4%. Ciò implicava che l’Italia dovesse trasferire per anno all’estero, senza contropartite, beni , servizi e ricchezza nell’ordine del 2% del suo PIL. Un onere sgradevole ma non certo insopportabile, tanto da non sollevare dubbi in merito ad un possibile fallimento!
Non ha senso, in tempi normali, sollevare il problema di una restituzione totale del debito. Sono secoli che i debiti pubblici non sono restituiti bensì semplicemente rinnovati, senza incorrere in fallimenti. Le poche eccezioni sono da ricondurre a strategie poco accorte nella gestione delle corrispondenti crisi. E’ ovvio infatti che, qualora i rinnovi dovessero aver luogo a tassi che continuano a crescere, il fallimento tenderebbe a divenire una possibilità concreta. Gli speculatori professionali, che sono lungi dal somigliare ai personaggi à la Steve Jobs o Ferrari che creano e sostengono il mito del mercato, non sono interessati né agli interessi né alla restituzione dei debiti pubblici, visto che guadagnano solo nelle incursioni speculative. Chi invece dovrebbe preoccuparsi dovrebbero essere i responsabili delle politiche, contrastando immediatamente il panico con saggi ragionamenti e con ancor più saggi comportamenti effettivi.
Sfortunatamente essi tendono a fare esattamente l’opposto. La BCE, dilazionando l’acquisto dei bonds posti sotto attacco giustificandosi con lo “scudo” dell’Art.101, ha sollecitato del tutto inutilmente gli interventi degli stati membri a far gravare sui rispettivi bilanci pubblici gli interventi di sostegno, con l’effetto collaterale tutt’altro che gradevole di eccitare gli atteggiamenti anti-coesivi annidati nelle viscere dei paesi al momento meno esposti. Sta di fatto che i governi avallano la sensatezza della filosofia della BCE, si sforzano di attuare l’austerità e le “riforme strutturali” delineate a suo tempo dal FMI (con i SAPs) nei confronti dei pariah del pianeta, inondano i loro parlamenti e i loro elettorati con una congerie di amenità, del tipo “non si può vivere al di sopra dei propri mezzi” o “imponendo oneri sulle generazioni future”.
Si tratta di amenità, come due secoli di buona analisi economica hanno insegnato: nessun paese può usare le risorse del futuro ma solo quelle che vi sono nel momento in cui una azione viene intrapresa (si pensi ad una guerra). Le implicazioni per il futuro dipendono dalla specifica qualità dell’azione (fa differenza per le generazioni future se la guerra la si vince o perde), non dal modo con cui la si finanzia, quanto meno se il debito non è con l’estero (caso di cui ho parlato più sopra). Vi era chi dissentiva da ciò argomentando la possibilità che il finanziamento con il debito anziché con le imposte avrebbe potuto spiazzare gli investimenti produttivi; un argomento oggi divenuto risibile, sia per il fatto che gli investimenti sono più probabilmente scoraggiati dalle pessime aspettative sul futuro sia perché le opzioni finanziarie sono divenute ben più idonee dei bonds pubblici a spiazzare gli investimenti produttivi (come la letteratura sulla finanziarizzazione sta mettendo in luce). Ciò non vuol dire che l’accumulazione di un ingente debito pubblico non sollevi problemi, sia qualitativi che quantitativi, ma questi non dipendono dalle banalità più sopra richiamate; banalità che invece hanno molta presa sull’uomo della strada. Ed è invece purtroppo proprio sulla base di esse che si predica e si fa digerire alle masse l’austerità fiscale, facendoci tutti somigliare più ai flagellanti del XIII° Secolo che a persone razionali e istruite del XXI°. Il fenomeno dei flagellanti aveva quanto meno un merito; danneggiava solo che si flagellava senza ulteriori conseguenze. L’austerità fiscale, al contrario, prepara le basi per ulteriori attacchi speculativi.

Fatti e domande

La BCE potrebbe aver timore di agire come prestatore di ultima istanza per i debiti nazionali perché teme di innescare un’ondata inflazionistica. E qui andiamo al nocciolo dei miti sui quali la BCE ha costruito la sua egemonia. Alla base del trasferimento del potere di signioraggio e del successivo divieto di sottoscrizione diretta dei titoli del debito vi è stato infatti lo shock psicologico dell’inflazione degli anni 1970. Il controllo dell’inflazione è divenuto così il mandato centrale attribuito alla BCE. Che uso è stato fatto di questi trasferimenti di potere, netti e non mitigati dagli usuali principi di check and balance?
La BCE stabilì, fin dall’inizio, le sue regole di condotta sulla base di una asserita correlazione (causale) di lungo periodo tra l’offerta di moneta (M3) e il tasso annuale di variazione dei prezzi dei beni di consumo. Aspettandosi un tasso di sviluppo dell’Eurozona dell’ordine del 2-3% e considerando accettabile un tasso di inflazione non superiore al 2%, la BCE si pose come propria guideline di espandere M3 mediamente del 4,5% per anno, mantenendo successivamente fissa negli anni questa “regola” ufficiale, pur non riuscendo ad attenervisi. Infatti il tasso medio di crescita di M3 nel periodo 200-2008 è stato superiore al 7%, mentre il tasso di inflazione è restato stabile. Le singole divergenze tra il 4,5% programmato e quello effettivo vennero di volta in volta ufficialmente giustificate sulla base di circostanze contingenti, ma sempre relativamente vaghe. I dati suggeriscono peraltro, e non vagamente, una (non sorprendente) correlazione tra l’eccesso di creazione di M3 e gli indici di crescita degli stock di ricchezza (finanziaria e immobiliare). In merito alla bolla speculativa, peraltro, la BCE decise, semplicemente, di tentare di moderarla (leaning against the wind è il gergo per tale strategia), ma ... con moderazione. Tutto ciò solleva interrogativi strategici.
Perché mai l’inflazione riguardante i flussi produttivi dovrebbe essere considerata un gran male mentre quella degli stock di ricchezza sarebbe accettabile e, addirittura, un sintomo di buona salute dell’economia? Sulla base di quali solidi argomenti le cospicue distorsioni nei prezzi relativi dovute all’inflazione degli stock di ricchezza sono state considerate tollerabili sul piano della giustizia distributiva e d’altro canto compatibili con uno stabile processo di crescita (visto che sono proprio le teorie sui mercati cui la BCE si ispira a negare tale compatibilità)? Era davvero la BCE in grado di controllare il tasso di crescita di M3? Siamo davvero sicuri che la asserita correlazione tra M3 e inflazione, osservata prima del 2000, sussistesse effettivamente anche nel decennio successivo?
Come ho detto la BCE ha detto di sostenere la strategia del leaning against the wind molto tiepidamente. La strategia alternativa considerata dalle banche centrali, e di fatto adottata anche dalla BCE, era quella del “ripulire il casino” dopo l’esplosione della bolla (cleaning up after the bubble burst). Sulla base di quali solidi argomenti le banche pensavano di essere in grado di ripulire il casino? E perché mai, dopo che è divenuto evidente che non erano in grado di farlo, la BCE non ha fatto un passo indietro e invitato i governi a ridiscutere tutto l’apparato istituzionale per la gestione delle politiche economiche, da quelle di bilancio a quelle industriali e commerciali?
De Grauwe riferisce che nel 2008 la BCE non esitò a finanziare come prestatore di ultima istanza con nuova moneta il sistema bancario al fine di evitare fallimenti a catena. Non ne derivò alcuna inflazione. Adesso essa esita a svolgere lo stesso ruolo rispetto ai debiti sovrani degli stati membri, che sono solo l’80% del PIL dell’Eurozona, mentre la situazione debitoria delle banche era nell’ordine di 2,5 volte il PIL. Non è forse il rischio di fallimenti a catena degli stati simile a quello delle banche e non sono forse le sue conseguenze ancor più perniciose?
Tutti tali interrogativi avrebbero dovuto essere sollevati dai governi e, più in generale, dalla politica. E probabilmente la BCE si aspettava di essere chiamata a discutere delle proprie responsabilità, tant’è vero che se ne è stata buona per qualche tempo. Dopo, avendo constatato che non vi era alcuna reazione politica, essa è tornata a predicare (all’unisono con la Signora Merkel).

Il ritorno alla crescita

Questo è il vero problema. Il poco che sappiamo sui meccanismi per accelerare la crescita (e dovremmo essere onesti nell’ammettere quanto poco sappiamo, alla faccia dei tanti imbonitori da fiera paesana che pretendono sia possibile conciliare austerità e crescita) suggerisce almeno alcune cose. La prima è che essi sono incompatibili con un tipo di austerità fiscale –quali quelle predicate oggi insieme alle solite e poco chiare “riforme strutturali”- che inducono recessione. La seconda è che si debba cercare di avviare un ciclo espansivo trainato dagli investimenti reali. Per innescare un tale ciclo è evidente che non si possa contare sul “mercato”, attualmente dominato da aspettative negative e abituato ad un regime di bassa crescita. Esso non può che essere innescato da un programma industriale europeo condiviso e credibile, che richieda la cooperazione degli stati membri, delle imprese produttive, della parti sociali.
Sebbene non si possa andare nei dettagli in questa sede (ma molti suggerimenti in questo senso sono stati dati in questo dibattito e altrove), un programma di tal genere richiede non solo spesa pubblica –ciò che implica disporre di un effettivo bilancio federale europeo e di una politica monetaria accomodante rispetto ad esso- bensì spendere solo in funzione del programma che è stato definito. Il credito non deve andare a finanziare le attività finanziarie, ma solo quelle produttive, sia direttamente (investimenti reali) sia indirettamente (ricerca, miglioramento della conoscenza e della qualità della risorsa umana). Tutto ciò richiede, a sua volta, una radicale riorganizzazione istituzionale non solo della BCE ma anche del sistema bancario e degli spazi per le operazioni finanziarie.
Vorrei qui aggiungere solo due brevi considerazioni.
La prima è che, ove gli operatori finanziari decidessero di muovere i loro affari fuori dall’Eurozona a seguito delle restrizioni operate nei loro confronti, ciò non dovrebbe spaventare più di tanto i paesi membri ove nel frattempo il programma europeo di sviluppo di parte reale fosse decollato ed in fase di accelerazione. Gli operatori migliori sono capaci di fiutare la crescita e di tornare.
La seconda considerazione è che, paradossalmente, ci troviamo attualmente nelle condizioni migliori –questioni politiche a parte- per far partire un ciclo trainato dagli investimenti. La spesa per investimenti ha infatti effetti indiretti espansivi sui consumi che, pur essendo moderati, devono trovare una risposta precoce all’interno dell’Eurozona che non consista né in pressioni inflazionistiche né in eccessive maggiori importazioni; ebbene alla domanda generata dalla spesa per investimenti può esser fornita una risposta attivando gli attuali eccessi di capacità e la disoccupazione all’interno della stessa area, dando così tempo agli sforzi di investimento di divenire effettivamente capacità produttiva addizionale (e magari diversa). Una espansione trainata solo dalla domanda, al contrario, abortirebbe presto (ciò va detto a chiare lettere a chi predica una semplice riesumazione delle terapie keynesiane).
Le condizioni ambientali assomigliano a quelle degli USA all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale. Un versione riveduta e corretta delle strategie americane per la riconversione verso una economia di pace appare praticabile, insieme ad un recupero selettivo di alcuni degli strumenti che erano stati adottati nel periodo di ricostruzione post-bellica in Europa. La sfida è quella di definire un programma e porre in atto gli strumenti che servono per convincere le imprese ad investire in tale scommessa epocale, facendo così dell’Europa un vero polo competitivo a livello planetario.
Ma, prima che ciò sia possibile e per renderlo tale, la politica deve sbarazzarsi delle banalità delle quali va cianciando e tornare ad usare ragione e conoscenza. E questa è purtroppo la parte difficile della storia. La capacità dei Roosevelt e dei Churchill di essere mentalmente aperti sembra infatti essere scomparsa.
 

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