di Maria Pellegrini.

La poesia, i romanzi, i quotidiani raccontano l’amore, l’amicizia, gli incontri dove appaiono sempre gli abbracci. L’arte li raffigura dipinti, fotografati, scolpiti, nella vita li scambiamo in tante occasioni quotidiane o festive e sono reali, condivisi, rassicuranti In tempo di isolamento, per evitare contagi pandemici li evitiamo ma terminiamo i nostri messaggi, lettere e telefonate inviando abbracci virtuali, ma quelli reali, negati dalla distanza posta tra noi e gli altri, ci mancano soprattutto in tempi difficili.

In un momento di abbracci negati sorprende ricordare quanta sofferenza procurasse un mancato abbraccio anche nei tempi di Omero. Quando nel regno dei morti Odisseo incontra la madre (Odissea, libro XI), ed Enea il padre (Eneide, libro VI), entrambi vorrebbero abbracciarli, ma i defunti sfuggono a questo contatto perché sono ombre prive di corpi. Odisseo scende nell’Ade per interrogare Tiresia e sapere quale destino lo aspetti e quando potrà tornare alla sua Itaca. L’indovino prevede un viaggio ancora lungo e funestato da tempeste. Una volta giunto nella sua isola dovrà combattere contro alcuni nobili che hanno invaso la sua reggia. L’eroe greco non oltrepassa i confini dell’Ade, come farà Enea, ma si ferma nel vestibolo, dove le anime gli vanno incontro. Compie il rito dei morti e sacrifica vittime nere; bevendo quel sangue le anime dei defunti riacquistano per qualche momento vitalità e parola. Si avvicina a lui anche Anticlea, sua madre, di cui egli ignorava la morte. Odisseo le chiede quale doloroso destino o malattia l’abbia privata della vita e notizie sul padre, la sposa, il figlio. La madre lo rassicura: «Telemaco è saggio, Penelope ti è fedele, versa lacrime notte e giorno, tuo padre invece ha lasciato la reggia, si è trasferito in campagna, dorme insieme agli schiavi, indossa povere vesti, e angosciato aspetta il tuo ritorno. Una triste vecchiaia lo opprime». Ciò che rattrista Odisseo sono le parole della madre: «a privarmi della dolce vita sono stati il rimpianto, il pensiero, l’amore per te». L’eroe commosso «tre volte si slancia per abbracciarla, tre volte lei sfugge come un’ombra, o un sogno».

Anche Virgilio narrando le peregrinazioni di Enea alla ricerca della terra promessa dai Fati, descrive la discesa negli Inferi del troiano scampato all’incendio della sua città. Accompagnato dalla Sibilla, attraversa il regno dei morti, si dirige nei Campi Elisi, sede delle anime beate che vagano nei boschi ombrosi, sulle rive dei freschi ruscelli, su verdi prati. Scorge con emozione l’ombra di suo padre Anchise, si avvicina a lui e «lacrime rigano i loro volti e affettuose parole fioriscono sulle labbra: “Sei venuto alfine, …/ Oh come trasportato per quali terre e per quante distese di mare/, da quanti pericoli sballottato io accolgo te figliolo”. Ed Enea “La tua ombra dolente, tante volte veduta in sogno, / mi spinse a venire quaggiù: ti prego lasciami unire / con te la destra. Non sottrarti al mio abbraccio!” Ma tre volte cercò di gettargli le braccia al collo, / tre volte l’immagine, invano abbracciata, gli sfuggì dalle mani / simile ai venti leggeri o ad un alato sogno».

Sulle rive del Lete le anime si affollano intorno ai due visitatori, Anchise indica quelle che in futuro s’rincarneranno e costituiranno la gloriosa stirpe troiana e latina, fino a Romolo fondatore di Roma. La città si spanderà nei secoli e diverrà un impero con confini ai limiti del mondo. La visione dei futuri eroi romani costituisce il nucleo centrale del poema, concepito dopo la battaglia di Azio (31 a.C.) per celebrare ed esaltare il principato di Augusto. Le vicende romane sono scritte in un disegno provvidenziale, voluto dagli dei e dal fato. È il motivo encomiastico dell’esaltazione della gloria di Roma. Anchise rivolgendosi al futuro popolo romano pronuncia queste lapidarie parole:

«tu, ricorda, o romano, di dominare le genti: / queste saranno le tue arti, stabilire norme alla pace / risparmiare i sottomessi e debellar i ribelli.»

Nel XXIII canto dell’Iliade, il poema omerico antecedente l’Odissea, troviamo un altro abbraccio, un desiderio rimasto vano. Nell’accampamento degli achei si prepara il rogo per il cadavere di Patroclo ucciso da Ettore; ad Achille assopito sulla spiaggia del mare l’amico appare in sogno, simile a lui in tutto, la statura, gli occhi, la voce, le vesti. Lo rimprovera «Tu dormi, Achille, e ti scordi di me: /mai, da vivo, mi trascuravi, ma da morto lo fai. / Seppelliscimi in fretta e passerò le porte dell’Ade». Poi lo supplica: «Non staremo mai più insieme, appartandoci dai nostri compagni. / Presto la morte afferrerà anche te sotto le mura dei Teucri opulenti…/ non mettere le tue ossa divise dalle mie; una stessa anfora d’oro, le accolga insieme».

Achille risponde: «Certo farò quello che chiedi, ma ora vienimi vicino, / e almeno un momento restiamo abbracciati a versare il nostro pianto». Dicendo così tende le braccia, ma non riesce a stringerlo: / l’ombra, sparisce come fumo e torna sotto terra».

In una delle Elegie (IV, 7) di un poeta di età augustea, Properzio, anche Cinzia, la sua donna morta da poco, come Patroclo, appare in sogno all’amato e lo rimprovera di trascurare il suo ricordo, di averla dimenticata tanto in fretta ed essersi comportato freddamente durante il rito funebre, eppure «mi hai dedicato versi appassionati» gli sussurra. Lo prega di distruggerli e dedicarle solo un breve epitaffio su una stele, presso la via Tiburtina dove è sepolta. Prima di tornare nei regni dell’oltretomba lo ammonisce:

«Non disprezzare i sogni che giungono dalle porte dei beati. / All’alba l’inferna legge c’impone di tornare agli stagni del Lete: /c’imbarchiamo, e il nocchiero soppesa il carico. / Ora ti possiedano altre; ben presto ti avrò io sola: / sarai con me, e le tue ossa saranno insieme alle mie». Detto ciò, «l’ombra si dilegua mentre l’amato cerca invano di abbracciarla».

Un altro esule celebre, il poeta Ovidio, nell’8 d. C., è relegato da Augusto a Tomi sul mar Nero, coinvolto in un grave scandalo, un torbido fatto di corte di cui non conosciamo i particolari, ma anche per aver pubblicato l’“Ars amatoria” massima espressione della sua poesia di amore lascivo, contraria alla restaurazione dei costumi voluta dall’imperatore.

Ovidio, costretto all’esilio, terminerà la sua vita in quel paese lontano, ai confini del mondo allora conosciuto, scrive i “Tristia,” elegie dettate dalla disperazione per essere costretto a vivere solo in un paese freddo, circondato da barbari dalla lingua incomprensibile, che i romani di allora chiamavano Geti. Compone anche le “Epistulae ex Ponto”, lettere in versi indirizzate a vari personaggi romani che spera possano intercedere presso l’imperatore affinché gli conceda la fine all’esilio o quanto meno, il trasferimento in una località più vicina a Roma. Ricorda la tristezza della sera prima della partenza, a lui non mancheranno gli abbracci ma sono dolorosi perché di addio. Ricorda quei momenti: «Piangevo, e la moglie amorosa piangendo mi abbracciava /e una pioggia di lacrime le bagnava le guance. Tre volte toccai / la soglia, tre volte mi sentii trattenuto, e il piede si faceva / più lento. Più volte avevo detto addio, ma ancora a lungo / parlavo, e come se partendo dessi gli ultimi baci. /Addio Roma, non mi rivedrai mai più vivo».

Le poesie alla moglie contengono frasi tenere e struggenti, lontano sogna di abbracciarla: «te che io lasciai giovane partendo da Roma / suppongo sia invecchiata in seguito alle mie disgrazie. / Oh, gli dei facciano che io possa vederti così, / e baciare teneramente le tue chiome mutate, / e abbracciare fortemente il tuo corpo smagrito».

È sempre Ovidio nelle “Heroides” (lettere di eroine ai loro amanti perduti o lontani), a immaginare il dolore di una donna del mito, Arianna, abbandonata sulla riva del mare da Teseo. Al risveglio non lo trova più accanto a lei, vorrebbe abbracciarlo, stringerlo, ma invano. Così scrive all’amato: «Le parole che leggi t’invio, o Teseo, da quel lido donde le vele portano lontano senza me la tua nave; purtroppo a tradirmi è stato il mio sonno e tu, scellerato, ne hai approfittato per partire lasciandomi sola. Era l’ora in cui la terra è spruzzata da cristallina brina e nascosti tra le fronde si lamentano gli uccelli; non ancora ben desta nel languore lasciato dal sonno, allungo le mani credendo di abbracciarti, stringerti a me: non ci sei…atterrita mi alzo, mi batto il petto, mi strappo la chioma già scomposta dal sonno».

Sogna gli abbracci del figlio anche la madre di Seneca mandato in esilio dall’imperatore Claudio. Disperata, non riesce a trovare conforto dopo questo allontanamento. Il figlio vorrebbe consolarla, scrive dall’esilio un’operetta dal titolo “Consolatio ad matrem Elviam”, dove riporta i pensieri dolorosi della madre che lui non potrà mai tranquillizzare.

«Eccomi, dunque, priva dell’abbraccio del mio carissimo figlio! Non posso godere più della sua vista, né della sua conversazione! Dov'è colui alla cui presenza il mio volto si rasserenava e nel quale io deponevo tutti i miei affanni? Dove le nostre conversazioni di cui io ero insaziabile? Dove i suoi studi ai quali partecipavo più volentieri di qualunque donna e più familiarmente di qualunque madre? Dove i nostri incontri? Dove quella sua gaiezza infantile alla vista della madre?»

Ed ora come non citare l’ultimo incontro di Andromaca ed Ettore prima dello scontro con Achille? È un addio definitivo. Tutto l’episodio è percorso da presagi di morte. Ma la scena si chiude con un’immagine molto tenera: Ettore tende le braccia verso il figlio che si spaventa per il suo elmo, allora l’eroe, depone a terra l’elmo e prende in braccio il figlio per l’ultima volta (Iliade, Libro VI).

Nota: nell’immagine, Ettore e Andromaca di De Chirico, Museo Bilotti, Roma Aranciera Villa Borghese

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