di Vincenzo Vita.

Uno scandalo tra gli scandali: la mancata applicazione della legge n.233 del 31 dicembre 2012, quella sull’equo compenso nel settore giornalistico.

Si tratta di un buco nero della vita italiana, di cui ben poco si parla, perché gli editori sono i primi a voler eludere la realtà dei fatti, in quanto i maggiori responsabili del misfatto.

Due brevi cenni di storia. Dopo un lungo tira e molla parlamentare, un parere negativo dell’allora ministra del lavoro Elsa Fornero corretto successivamente dal vice Michel Martone, ecco che finalmente venne alla luce un testo piccolo piccolo, volto a dare un po’ di sollievo alla vasta componente povera o impoverita dell’informazione. I dati ci illustrano con crudezza lo stato dell’arte: oltre la metà del settore è popolata da precari e persino schiavi intellettuali, costretti a scrivere o a produrre servizi radiotelevisivi senza un trattamento appena decente.

Il precariato, non solo in tale ambito, è da tempo una delle facce dolorose dell’età liberista. Ma si è ormai superato ogni limite di guardia: gli articoli pagati con una manciata di euro sono spesso l’architrave delle notizie. Croniste e cronisti magari impegnati in zone rischiose o su tematiche sensibili a rischio costante di querele temerarie di carattere intimidatorio ottengono – quando arrivano- pagamenti irrisori. Basti andare sull’apposito sito La Spioncino dei Freelance, dove si raccolgono situazioni e cifre. C’è da vergognarsi.

La legge del 2012 sembrò, anche per la sua linearità a prova di eventuali azzeccagarbugli, una boccata di ossigeno. Niente di rivoluzionario e neppure di innovativo, bensì una semplice tutela delle persone costrette a passare la giornata in una corsa a ostacoli per la sopravvivenza. Ebbene, malgrado la semplicità dell’articolato e all’assenza di insidiosi regolamenti attuativi, il dispositivo è inapplicato. Dieci anni dopo. In simile comparto è un secolo.

Come mai? La causa efficiente (e strumentale) è il mancato esito decisionale della commissione prevista dall’articolo 2 per la valutazione delle forme del cosiddetto equo compenso, immaginato dall’articolo 1 per difendere coloro che non hanno un rapporto di lavoro subordinato in quotidiani o periodici (pure telematici) o nelle agenzie di stampa o nelle emittenti radiotelevisive. Ecco, la commissione soffre di un ostruzionismo interno, in particolare della componente espressa dalla federazione degli editori. La Fieg, del resto, non riconosce l’esistenza del precariato e si rifiuta di vedere la povertà creata dalla stessa incapacità delle proprietà di capire le trasformazioni del sistema. Queste ultime, vedi i casi del New York Times o del Washington Post, richiedevano una visione e una strategia volte ad immaginare un paradigma diverso dello e nello sviluppo. Stiamo parlando della frontiera tra analogico e digitale, tra vendite in edicola e abbonamenti, con una scommessa sulle stesse opportunità tecnologiche. In passato, ad esempio, la federazione ebbe un ruolo importante nella riforma del 1981 (l.416), tuttora un punto di riferimento.

Ora, in linea con le componenti arretrate delle imprese, il gretto risparmio sul lavoro vivo sembra l’unica politica concreta. Invece di interrogarsi sul perché le vendite siano crollate così miseramente e sui motivi del crescente disinteresse verso i quotidiani (con pochissime eccezioni), si suppone di rifarsi su chi scrive o fa servizi.

Un allarme va lanciato, visto che la questione va persino al di là del suo specifico e ci interpella sulla miseria in cui siamo caduti. Miseria in tutti i sensi.

Tutto questo stride con le dinamiche europee, che appaiono al contrario prossime al varo di una direttiva sul salario minimo. Gli editori italiani hanno scelto di uscire dalla modernità?

Naturalmente, un peso dovrebbe averlo il governo, cui spetta attraverso l’apposito dipartimento della presidenza del consiglio di convocare e gestire la stessa commissione. Ci si attende dal pacato sottosegretario con delega Giuseppe Moles una parola, se non proprio un grido.

Tra una cosa e l’altra, arrivano al comparto 665 milioni di euro. Qual è la scusa?

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