di Maria Pellegrini.

Le drastiche ma necessarie disposizioni per contenere la diffusione del minaccioso virus, che non conosce confini e sta contagiando le popolazioni dell’intero pianeta, hanno sconvolto le nostre vite. Siamo abituati a condividere fisicamente con gli altri le nostre giornate, entrare e uscire dalle nostre abitazioni in qualsiasi momento, frequentare amici e parenti, viaggiare, muoversi per andare al lavoro dove trascorriamo gran parte del nostro tempo, decidere senza alcuna limitazione i nostri svaghi. Ora costretti a restare in casa, proviamo disagio, sofferenza, ansia. Potrebbe essere invece un’occasione per riflettere in solitudine su se stessi e considerarlo un tempo di arricchimento personale. Forse dovremmo fare nostro il pensiero di Francesco Petrarca che vedeva nella solitudine un modello etico, una condizione ideale, espressa anche nei i primi versi di una sua nota poesia «Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti». Nel De vita solitaria, un trattato filosofico-morale, il poeta elogia la solitudine che non è isolamento sprezzante dal resto dell’umanità, ma ricerca della pace interiore; non è l’allontanamento dell’eremita dal mondo, ma l’otium del letterato, il tempo trascorso in compagnia delle Muse, lontano dal frastuono della città preferendo il silenzio che favorisce la concentrazione e lo studio. Petrarca delinea la figura ideale dell’uomo saggio che nella bellezza della natura e tra buoni libri, trova la sua umanità più vera e l’ispirazione per scrivere cose degne di essere ricordate.

Nel Proemio dell’opera, tratteggia l’ideale “locus amoenus” identificabile con la sua Valchiusa, a poca distanza da Avignone in Provenza, luogo dolce e ombroso, ricordato con questo verso «Nessun luogo sulla terra mi è più gradito di Valchiusa o più adatto ai miei studi».

Ciò che spinge il Petrarca a cercare la solitudine è il fastidio della vita agitata e corrotta della città, il desiderio di potersi dedicare ai suoi studi, sottrarsi alla schiavitù delle cose mondane, chiudersi in se stesso. Questo è del resto un ideale modellato sull’“otium litteratum” degli autori classici latini che il Petrarca ha in mente contrapponendolo al caos della vicina Avignone, dove vive l’“infelix habitator urbium” (l’infelice abitante delle città). Nel suo trattato mette a confronto la giornata dell’uomo affaccendato e quella del solitario, precisando che l’esistenza del secondo non trascorre nell’inoperosità ma si divide tra le buone letture e le riflessioni per coltivare la propria crescita interiore. L’elogio della solitudine si sviluppa su una perenne antitesi con la turbinosa vita cittadina, una realtà caotica, aggrovigliata e falsa, in cui si perde la conoscenza di se stessi, alla quale il poeta aretino si oppone rivendicando con orgoglio la scelta della solitudine campestre, coltivando lo studio, vero senso della vita e fonte di felicità. A conferma di questo suo ideale cita esempi di personaggi illustri che nella vita o negli scritti, o almeno nelle aspirazioni, mostrarono di compiacersi della vita solitaria come tanti personaggi citati, attinti dall’Antico Testamento, dalla tradizione classica e da quella cristiana.

L’opera aveva come destinatario l’amico Philippe de Cabassoles, vescovo de Cavaillon al quale Petrarca la invierà nel 1366, dopo averla corretta per circa dieci anni e anche in seguito continuerà ad ampliarla e a modificarla.

Il poeta invita in modo quasi perentorio l’amico a prendere le distanze dalle persone che hanno come sola ricchezza il denaro e a cercare rifugio con pochi amici eletti in un luogo lontano dal fragore della città:

 

Alzati, vieni, affrettati: abbandoniamo la città ai mercanti, agli avvocati, ai sensali, agli usurai, agli appaltatori, ai notai, ai medici; abbandoniamola ai profumieri, ai beccai, ai cuochi, ai fornai e ai salsicciai, agli alchimisti, ai lavandai, ai fabbri, ai tessitori; abbandoniamola agli architetti, agli scultori, ai pittori, ai mimi, ai danzatori, ai musicanti, ai ciarlatani, ai mezzani, ai ladri, ai forestieri, agl’imbroglioni; abbandoniamola agl’incantatori, agli adulteri, ai parassiti, agli scioperati mangioni che con l’olfatto sempre all’erta captano l’odore del mercato, e questa è la loro unica felicità, a questo anelano: ché sui monti non sentono odore di grasso, e privarsi delle cose cui sono abituati e che piacciono è per loro un supplizio. Lasciamoli stare: non sono della nostra razza.

A loro sono care le terme, i bordelli, i grandi palazzi, le taverne; a noi le selve, i monti, i prati, le sorgenti. Seguano essi i desideri della carne e i guadagni, da qualsiasi parte provengano; noi gli studi liberali e nobili».

 

Fin dalle prime pagine Petrarca dichiara il suo intento: «dimostrare la felicità della vita solitaria» e al contrario ricordare «le angosce e le pene del vivere in mezzo a molta gente». In ogni frangente dell’esistenza l’uomo solitario è libero di «dedicarsi ai propri interessi in beatitudine e tranquillità», mentre l’uomo indaffarato che vive tra la gente è sempre inquieto, preoccupato, triste, pieno di affanni. Il Poeta intende segnalare i rischi che porta con sé un’esistenza consumata nel fare, e instancabilmente proiettata in mezzo agli altri.

Senza il conforto delle lettere la solitudine può essere vissuta come «esilio, carcere, tormento; al letterato invece è patria, libertà, diletto». Di frequente in tutta l’opera si torna a ricordare «il conforto della bella, fresca natura», alle cui immagini, care all’uomo solitario, il poeta spesso ricorre. Insistente e caldeggiato è l’invito a dedicarsi alla scrittura, alternandola alla lettura di ciò che scrissero gli antichi «dei quali si devono render noti i loro nomi se sconosciuti, farli ritornare in onore se caduti in dimenticanza, trarli fuori dalle macerie del tempo, tramandarli alle generazioni dei pronipoti come degni di rispetto, averli nel cuore, averli sulle labbra come una dolce cosa; in tutti i modi insomma, amandoli, ricordandoli, esaltandoli, render loro un tributo di riconoscenza, se non proporzionato, certo dovuto ai loro meriti».

Petrarca si propone di saldare il passato e il futuro, ricostruendo la continuità della tradizione letteraria. Ma l’insegnamento del passato deve essere ricostruito con un sapiente ed umile lavoro di ricerca, che riscopra e renda nuovamente accessibili le opere dei classici, nasce così la filologia umanistica, a cui egli stesso recò importanti contributi perché gli antichi sono un modello da imitare per l’armonia della forma e la tensione morale, anche se la loro fragilità di uomini li accomuna ai moderni.

La condanna della vita affannosa della città e l’esaltazione della vita semplice della campagna, dedicata solo a ciò che è autentico, è un tópos ricorrente nella letteratura latina, che torna più volte nelle pagine di Virgilio, di Orazio, di Seneca e di altri scrittori e poeti latini, da una prospettiva sia epicurea sia stoica. Petrarca nel rileggere i classici ne ricalca evidentemente tesi e movenze stilistiche ma non si limita a considerane solo la bellezza formale o la saggezza, le loro opere elevano l’animo e lo predispongono alla considerazione di ciò che veramente conta. “De vita solitaria” è un trattato scritto in un latino vario e ricco in sapiente mescolanza di stili da quello di Cicerone, a Virgilio, da Plauto a Sallustio.

Bibliofilo appassionato, Petrarca dedica molta parte della sua vita a mettere insieme una raccolta di libri assai ricca per i tempi. Durante i suoi viaggi visita le biblioteche dei monasteri, scopre due orazioni di Cicerone e le “Lettere ad Attico”. Per lui i libri sono i monumenti che racchiudono tutto il pensiero antico, devono essere salvati e diffusi. Ne fa delle copie accrescendo la sua biblioteca: egli vuole che «tutti i suoi cari antichi abitino in casa sua». Ha in animo di metterli al sicuro, dopo la sua morte, a disposizione di un pubblico eletto che li saprà conservare e leggendoli trovarvi il suo stesso sollievo e il piacere dello spirito. È la concezione di una biblioteca pubblica moderna.

Nel viaggio che fece a trentadue anni a Roma, la grandezza delle rovine lasciò in lui una profonda impressione. Gli apparirono più grandi di come se le era immaginate dalle sue letture e con la sua fantasia poté rievocare tutto quel passato pieno di gloria che era stato narrato dagli storici. Scrive Luigi Russo, professore di Letteratura italiana e critico crociano, morto nel 1961: «Riconosciamo in lui uno dei primi eruditi che si sia interessato con diletto alla topografia di Roma, salutiamo in lui il primo poeta che abbia meditato da uomo moderno davanti alle sue rovine».

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