di Giuseppe Castellini

Non sono d’accordo con chi protesta per il rientro in Italia della salma di Vittorio Emanuele III. A quasi 70 anni dalla sua morte, la sua salma non può fare paura a nessuno e che questo piccolo (in tutti i sensi) re non interessi per nulla agli italiani lo dimostrano i quattro gatti che c’erano a ricevere il suo feretro.

Giustissimo, invece, non permettere la sua sepoltura al Pantheon, perché Vittorio Emanuele III è stata una figura da dimenticare, più che da celebrare. Un re golpista e cinico.

 

Un re col vizietto del golpe ‘bianco’

Il golpe bianco, di fatto, lo fece due volte. Quando, segretamente, concordò attivamente, con tanto di firma segreta, l’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale contro il volere della Camera dei deputati, in gran parte neutralista. Siccome il Patto di Londra (che fu stipulato ma restò segreto) prevedeva che l’Italia entrasse in guerra contro gli Imperi centrali, a fianco della coalizione guidata da Francia e Inghilterra, entro il mese di maggio 1915, la Corona dette mano libera agli agitatori pro conflitto, a cominciare da D’Annunzio. Ci furono le cosiddette ’radiose giornate di maggio’, lo squarciagola di un nazionalismo spinto fino al parossismo e alla fine le agitazioni di piazza e le pressioni della Corona piegarono la testa del Parlamento. Meno qualcuno che aveva la scorza dura come Giovanni Giolitti, la cui storia gli dava autorità per resistere al dileggio dei nazionalisti a mantenere salda la scelta neutralista.

Vero è che l’agitazione nazionalista esprimeva, esaltandoli e dandogli un direzione di fanatismo, la posizione di una parte importante del Paese (che però probabilmente, fino alle cosiddette ‘radiose giornate di maggio’, non era la maggioranza degli italiani). Ma resta il fatto che c’era un Parlamento che fu attaccato, vilipeso, umiliato, additato come traditore della patria, con la Corona prima responsabile di quello che fu appunto un golpe bianco.

La seconda volta del colpo di Stato bianco fu nel 1922, quando il ’piccolo’, ‘piccolissimo’ re non firmò lo stato d’assedio predisposto con decreto dal presidente del consiglio Luigi Facta per impedire un atto eversivo come la Marcia su Roma. Quando il re non firmò il decreto Facta si dimise.

Se Vittorio Emanuele avesse firmato lo stato d’assedio la Marcia su Roma non ci sarebbe stata. I fascisti sapevano che sarebbe bastato mettere i cavalli di frisia fuori Roma con il presidio dell’esercito per fermarli. Mussolini, ben conscio di questo, contava proprio sul ’piccolo re’, tanto che mentre gli altri triumviri erano in marcia, lui se ne stava a Milano, pronto a scappare in Svizzera se le cose si fossero messe male. Ma Vittorio Emanuele III non firmò il decreto di Facta e i fascisti ebbero campo libero. Su di lui, e ciò dimostra ancora, se ce ne fosse, il suo cinismo di piccolo cabottaggio dettato forse anche dalla sua condizione di uomo complessato, pesò anche la minaccia fatta ventilare dai fascisti circa il fatto che, se si fosse messo di traverso, il fascismo avrebbe guardato al Duca d’Aosta, che Vittorio Emanuele temeva potesse prendere il suo posto come capo della Corona d’Italia. Una minaccia che Mussolini fece ventilare per tutto il ventennio e che ebbe sempre il suo effetto. Il re, alla fin fine, firmò tutto quello che il Regime deliberava, smantellando il sistema liberale che aveva dato all’Italia una forma di democrazia che oggi ci appare limitata e inadeguata, ma che per l’epoca non era poca cosa nel panorama europeo.

Tornando alla Marcia su Roma, nei fatti fu la solita carnevalata all’italiana spacciata per rivoluzione. Come al solito, infatti, in Italia le rivoluzioni si fanno solo se i carabinieri sono d’accordo, come notava Indro Montanelli. I carabinieri, nel senso dell’apparato militare dipendente dalla Corona, non si mossro perché non avevano alcuna autorizzazione a contrastare la masnada armata di fucili da caccia e altri armi rimediate alla bella e meglio. La Marcia fu fatta, facendo diventare qualcosa di serio un evento che, di per sé, serio non era.

Il re complice per tutto il fascismo. Su di lui il marchio indelebili delle leggi razziali

Poi la convivenza complice del re con il ventennio fascista, la firma apposta a tutte le leggi liberticide, il consenso all’instaurazione della dittatura, assecondando la pretesa di far entrare la dittatura e i suoi provvedimenti all’interno dello Statuto Albertino, di cui Vittorio Emanuele III avrebbe dovuto difendere lo spirito e che invece forzò perfino nella lettera.

Fino alla pagina particolarmente vergognosa delle leggi razziali, firmate dal re e che restano un marchio indelebile sulla sua figura anche sul piano storico. E fino, poi, all’ingresso nella Seconda Guerra Mondiale, dopo che un anno prima il fascismo con il consenso del Re dettero vita alla più comica delle conquiste militari: l’invasione dell’Albania, realizzata senza sparare un colpo perché gi eravamo i veri padroni di quel Paese. Una conquista da operetta e di cartapesta, con il re che si fregiò anche di Imperatore d’Albania.

Il re della ‘morte della Patria’

Quando Vittorio Emanuele vede le brutte e capisce che la guerra è perduta e che il suo trono traballa perché gli alleati certamente non ne vorranno sapere di un personaggio del genere, allora gioca la carta della riabilitazione. Pur tra mille indecisioni, paure e ipocrisie, alla fine – ovviamente senza mai esporsi – cavalca la fronda che si era aperta nel Regime, supporta la linea Grandi-Bottai-Ciano che porta alla messa in minoranza di Mussolini nel Gran Consiglio e poi fa arrestare Mussolini e nomina Badoglio.

Poi, dopo l’annuncio della firma dell’armistizio, scappa da Roma con il suo seguito per andare a Brindisi. Il nome dell’incrociatore che trasportò i reali e il loro seguito involontariamente, visto il carico trasportato, dà l’idea della pochezza di come fu gestita tutta l’operazione. Si chiamava infatti ‘Baionetta’.

Il grave non fu l’andare via da Roma, che era in quel momento indifendibile perché i tedeschi fecero subito scattare il piano d’invasione dell’Italia che avevano preparato, ma come fu fatto. L’esercito italiano fu lasciato senza ordini, senza punti di riferimento, facendo scattare il ‘tutti a casa’ e, in non pochi casi, il fatto che i nostri soldati caddero nelle mani dei tedeschi. Alcune volte con atti di resistenza eroici, come a Cefalonia. Perché la prima resistenza ai tedeschi, e questo è stato un fatto oscurato per decenni per motivi politici, fu quella di non pochi dei nostri militari.

Il re e il suo codazzo non si preoccuparono affatto della sorte dei militari italiani, soprattutto dei soldati, sempre considerati carne da cannone, come era avvenuta nella Prima guerra mondiale dove tanti nostri generali avrebbero dovuto essere non omaggiati con medaglie, ma processati come traditori. Non fu preparato alcun piano, niente di niente. Fuggirono e basta.

L’8 settembre fu la ‘morte della patria’, il senso di abbandono delle istituzioni che tanto ha pesato e continua a pesare nella storia e nel carattere degli italiani. Fu un atto vergognoso che, insieme a tutti gli altri, la Casa Savoia è giusto che abbia pagato e che è la garanzia che nel futuro dell’Italia non c’è, per fortuna, la monarchia.

Gli ultimi Savoia (ma non è che quelli precedenti avessero particolari qualità) sono stati un marchio a fuoco, una cicatrice per il Paese. Compreso Umberto II, che dimostrò della pasta molle di cui era fatto quando, invece che ribellarsi e guidare la resistenza dei militari, seguì pavido il padre in quella fuga così mal congegnata (se non per la loro personale situazione), vittima dell’educazione ricevuta a Casa Savoia, tra le più ottuse e reazionarie d’Europa anche in tema di educazioni dei figli (di questo, se fosse ancora viva - ma ha rilasciato interviste da cui ciò traspare chiaramente – chiedere a Mafria Josè, la moglie di Umberto II, da cui poi si separò). Oppure, il tentativo di Umberto di non riconoscere con artifici legali i risultati del referendum. Tentativo sventato perché sarebbe scoppiata un’altra guerra civile e perché Umberto si trovò davanti un uomo come Alcide De Gasperi, che alla fine non gli lasciò spazi di manovra pur non nutrendo sentimenti anti monarchici.

È bene che i giovani sappiano

Questo è bene che i giovani sappiano. Perché siano consapevoli che c’è chi cerca di sfruttare la mancanza di memoria per tentare di legittimare, a pezzi e a bocconi e in modo scaltro, un passato che è apertamente in contrasto con la nostra Carta costituzionale e i suoi valori, in cui l’antifascismo è la pietra angolare della democrazia tracciata dalla Costituzione del 1948. Valori il cui approdo agli italiani è costato caro, carissimo. E la cui difesa va fatta in modo energico ed esplicito.

Perché queste forze che puntano sulla mancanza di memoria per costruire storie immaginarie hanno il loro obiettivo finale nel depotenziamento, nell’annacquamento quando non nella cancellazione di interi pezzi della nostra Costituzione repubblicana e democratica. Perché loro hanno i conti aperti con quella Costituzione, nata dalla Resistenza al nazifacismo che è e resta la base su cui la Repubblica democratica è nata ed è cresciuta. Tutta la loro storia, come quella di tanti loro padri, è il tentativo di cogliere ogni occasione di difficoltà della Repubblica per raggiungere quell’obiettivo. Ci sono famiglie italiane, neppure pochissime, che non hanno mai digerito, né tantomeno superato, quella catastrofe ideale, storica, personale, di autostima e di legittimazione della propria storia familiare Ma per fortuna hanno sempre fallito e falliranno ancora.

La vigilanza e la mobilitazione antifascista, tuttavia, debbono tornare ad essere alte. I rigurgiti oscuri, che magari vestono panni moderni, sono quelli del fascismo di sempre. E come tali vanno ricacciati indietro con la mobilitazione, la vigilanza e la forza della legge. 

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