Non sono solo le guerre a cancellare vite, speranze, progetti di futuro. Anche gli autoritarismi, in ogni loro forma, minano alla radice quei diritti fondamentali che ogni uomo e ogni donna dovrebbero avere fin dalla loro nascita. Autoritarismi che non sono mai dichiarati ufficialmente ma si affacciano dietro ogni prevaricazione subita dai più deboli, dai migranti, dagli omosessuali, dalle donne. In occasione dello scorso 8 marzo, a Roma dietro l’ideale striscione ‘Donna, vita, libertà’ si sono alternate le testimonianze di giovani ragazze iraniane, afghane, ucraine, siriane, arabe. Testimonianze scritte, lette da loro coetanee dei sindacati italiani, che da sempre difendono valori elementari come la libertà di espressione, il diritto a studiare, a lavorare, a costruirsi un futuro migliore. Abbiamo intervistato due di loro, l’iraniana Samira e l’afghana Maryam, e le loro parole sono la miglior risposta a quei poteri che, con le guerre, le discriminazioni e le prevaricazioni, soffocano valori e diritti in tante parti del pianeta,

Samira, hai partecipato a questa manifestazione in memoria di Mhasa Amini e di chiunque stia lottando per diritti troppo spesso negati. Puoi raccontarci la tua storia?
“Io sono iraniana ma anche italiana. Sono qui per tutte le donne e uomini che in questo momento buio, nel mio paese, stanno combattendo a mani nude per la loro libertà, rischiando la vita. Come ormai sapete, in Iran è un periodo particolare, segnato dalle proteste contro il governo a causa della violenza della ‘polizia morale’ contro le donne, costrette da leggi retrive a coprirsi completamente, dalla testa ai piedi, per uscire di casa. Donne che si vedono negati i più basilari diritti di libertà personale. Io credo sia insensato perseguitare, fino ad arrivare a uccidere come ha fatto la ‘polizia morale’, una ragazza di vent’anni solo per un ciuffo ribelle di capelli che usciva dal velo. Ed è per denunciare l’omicidio di Mhasa Amini che sono iniziate le proteste, dallo scorso 16 settembre. Giorno dopo giorno ci sono state manifestazioni, in tutto l’Iran, perché è apparso subito intollerabile che Mhasa Amini, dopo l’arresto perché non vestiva come impone la legge della sharia, sia stata picchiata a morte dagli agenti. Ma le proteste sono state sedate con le armi dall’esercito iraniano, con più di 500 morti e 11 condanne a morte, fino ad ora”.

Come si può processare e condannare chi è sceso in piazza per manifestare il proprio sdegno per quanto accaduto a Mhasa Amini?
“Il capo di accusa principale per i manifestanti è ‘muharebe’, e cioè ‘guerra contro Dio’. Le condanne vengono emesse al termine di processi farsa, durante i quali vengono utilizzate confessioni estorte con la tortura. Io stessa ormai 11 anni fa ho lasciato il mio paese, la mia città, i miei familiari e i miei amici, perché ero in cerca di quelle libertà che per chi vive qui sono così normali da essere scontate. Invece nel mio paese esiste un sistema di leggi che privano le libertà delle donne, leggi che vivevo ogni giorno sulla mia pelle. Ricordo ancora quando riuscivo a procurami dei cd con i film stranieri non censurati dal governo, provavo un senso di vittoria, ma breve perché quei film mi ricordavano quanto poco avessimo. E mi mancavano sempre di più le libertà, anche piccole, che qui sono la normalità, e che invece in Iran sono vietate. La mia generazione è chiamata la ‘generazione bruciata’, perché siamo la prima venuta dopo la rivoluzione islamica del 1979, e la prima che ha avuto meno libertà dei nostri padri”.

Ma come è possibile che tutto questo accada in una culla di civiltà come l’Iran, l’antica Persia, con una storia e una cultura antichissima?
“Il mio paese è un posto bellissimo, non fraintendetemi. Molti stranieri che lo visitano rimangono innamorati per la bellezza dei luoghi e la sua lunghissima storia. Ma l’idea che ancora nel 2023 le donne vengono uccise per una ciocca di capelli, e che esistano delle leggi che lo rendano possibile, non è accettabile. E non è accettabile che le persone debbano lasciare la loro terra natale per poter avere le libertà più elementari. Le proteste di questi mesi sono un segnale, la popolazione è stanca di scappare e lasciare la propria casa solo perché soffocata da leggi di migliaia di anni fa. Il mio più grande desidero è quello di vedere le future generazioni non soffrire più come abbiamo sofferto noi”.

Maryam, oggi hai parlato in italiano, hai detto di volerlo fare anche a costo di qualche errore, perché tutti e tutte capissero il senso delle tue parole.
“L’ho fatto perché mi avete dato l’opportunità di essere qui, e di essere la voce delle donne afghane che non hanno voce. Quelle donne che sono state dimenticate ed escluse dalla società, che sono private da sempre dei loro diritti fondamentali, e che sono le prime vittime della guerra, della tradizione e della politica. Donne che da quindici mesi sono chiuse in casa e non possono andare a scuola e all’università, che non hanno diritto di lavorare e neanche di uscire per respirare un po’ di aria fresca. Vedi, negli ultimi venti anni non abbiamo avuto la pace, però avevamo il diritto di essere trattate come essere umani. Il diritto di andare a scuola e all’università, di lavorare, la gente accettava la nostra presenza nella società. La mentalità maschile nei confronti delle donne era un po’ cambiata, ma adesso è tornato tutto come prima, e ancora una volta noi donne afghane stiamo rivivendo lo stesso incubo”.

Che lavoro facevi nel tuo paese, prima di essere costretta a fuggire?
“Io lavoravo come giornalista, e sono dovuta andare via dall’Afghanistan perché i talebani uccidono i giornalisti, soprattutto le donne. I media afghani sono sotto controllo e vengono repressi, perché sono l’unica fonte che può raccontare quello che stanno combinando i talebani. Loro non sono cambiati, noi donne invece sì. Vent’anni fa eravamo private di qualsiasi diritto e attività sociale, ma dopo abbiamo avuto la possibilità di studiare, e siamo diventate consapevoli dei nostri diritti, sia religiosamente che culturalmente. Ma per molti questo non è accettabile, per questo motivo i talebani stanno uccidendo le donne che hanno studiato, le donne che hanno imparato qualcosa”.

Dopo la fuga precipitosa dei militari statunitensi e degli altri paesi che avevano dei contingenti in Afghanistan, la comunità internazionale sembra aver cancellato ogni riferimento alla situazione che si è venuta a creare. Come se negli accordi stipulati con i talebani ci fosse quello di non ingerenza sui cosiddetti ‘affari interni’.
“Noi donne afghane siamo deluse dalla comunità internazionale, perché ci ha completamente dimenticato. Il mondo è silenzioso, non si parla più di quello che sta succedendo in Afghanistan e soprattutto delle donne. Io me lo chiedo sempre: perché i talebani sono così potenti che nessuno può fermarli o controllarli? Perché siamo state dimenticate nonostante tutti i nostri problemi? Non riesco a trovare la risposta, ma posso dire che noi donne afghane siamo una al fianco dell’altra, non vogliamo arrenderci, Ci sono donne che insegnano ancora alle ragazze giovani, in segreto nelle loro case. E ci sono donne che in questo momento, nonostante tutti gli ostacoli, protestano ed escono per le strade, sperando che un giorno si possano recuperare quei diritti che meritiamo. Come ragazza afghana, invito la comunità internazionale a prestare attenzione e sostenerci in questa battaglia di civiltà, e chiedo soprattutto di dare la possibilità di studiare alle donne afghane, come ad esempio attraverso le borse di studio. Perché solo con l’educazione e l’istruzione noi donne possiamo contrastare quanto sta accadendo nel nostro paese, l’istruzione e l’educazione sono l’arma più efficace contro l’ignoranza”.

Fonte: Sinistrasindacale.it

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