di Sergio Bellucci.

Non sembrerà un paradosso di questo mondo dell’immagine, tutto costruito sulla potenza del flusso comunicativo, che proprio ciò che sta mettendo in ginocchio un modello di sviluppo, un modello di società, sembra essere più la potenza del messaggio mediatico che il reale impatto materiale di un’infezione virale.

In questi giorni ognuno di noi ha modificato, volente o nolente, i suoi comportamenti quotidiani. Abbiamo rotto delle routine delle quali sentiamo la mancanza e, contemporaneamente, della quale ci accorgiamo delle loro artificiosità.

Come sotto una crisi di astinenza, oscilliamo tra il desiderio di riattaccare il prima possibile la flebo, per ri-accomodarci sul lettino della catena incessante dei nostri acquisti e sentire scorrere, nelle nostre vene, il fluido arteriosclerotico che occupa i nostri sensi dedicati alla rincorsa del consumo, oppure sforzarci di ri-aprire gli occhi e ri-cercare una coscienza del nostro fare, interrogandoci sul Senso delle nostre vite.

Questo fermo immagine della civiltà capitalistica globalizzata terrorizza di più del virus stesso perché svela la fragilità sistemica, la sua incompletezza, il suo
destino effimero. Tra un singulto e l’altro, tra una ripetizione e l’altra di numeri di contagiati, ricoverati, di morti con e non per, andiamo avanti in una
ricerca compulsiva dell’antivirus da far partire per ripulire il mondo da quella piccola catena di aminoacidi autoreplicantesi che sta mettendo in discussione le forme di questo mondo.

È così che ci accorgiamo o almeno percepiamo, che la costruzione del senso della vita ci è stata strappata dalle mani da decenni.
Non è più un compito dell’umano, del suo fare contraddittorio e convulso, collettivo o individuale che sia. Da decenni si è costruita una vera e propria
industria, si è costruito un sistema macchinico che lavora incessantemente nella costruzione del senso della vita.
Una “macchina” in grado di ingoiare ideologie e religioni e a trasformare le persone, tutte, anche quelle che si pensano restie, non omologate, esterne alle
logiche del mercato, in target di consumo. L’Industria dei sensi offre, al tempo stesso, sia l’immaginario – individuale e collettivo – al quale riferirsi, sia le forme specifiche con le quali tale immaginario si può concretizzare in base al livello economico caratteristico del singolo. Quello è il campo di gioco dato, quello lo spazio all’interno del quale ci si può muovere, quello il grado di libertà agibile, apparentemente e artatamente trasmesso e percepito come infinito. Il paradosso, infatti, è che quell’unico e stretto recinto, come in un gioco di specchi e di rimandi, viene percepito come inesistente e la sua abolizione, cioè la restituzione al soggetto della libertà di andare oltre, risulta essere vissuta come la più grande privazione promessa e provata.

Il grado di libertà ricercato non è più nella possibilità di fare o meno, ma di poter consumare o meno, e questo fa una differenza sostanziale
dell’orizzonte di vita umano a cui si tende. Questa è, antropologicamente, la differenza maggiore con i nostri antenati.

Anche nelle scelte delle politiche delle sinistre questo scarto risulta discontinuo con le sue stesse radici. Da decenni, infatti, oltre ad invocare, teoricamente, un “altro mondo possibile”, la sinistra è a corto di analisi sulle nuove forme di accumulazione, sulle novità della produzione di valore e ha ripiegato sulle
battaglie legate alle sole libertà “interne” al terreno di gioco definito dal modello del consumo, risultando incapace di indicare il sentiero di marcia che porti al di fuori dell’attuale sistema.

Lo stato di eccezione prodotto dall’irruzione di un cigno nero, dunque, rompe o rafforza il dominio esistente che si maschera dietro il senso della vita che il sistema produce incessantemente e che viene inoculato massivamente attraverso gli apparati tecno-comunicativi? E il senso di smarrimento diffuso e che è palpabile tra le persone, è da attribuire ad una presunta rottura della nostra libertà di muoverci e commerciare o è dovuto alla discontinuità del ciclo di vita quotidiano che è dominato dal meccanismo compulsivo del costante consumo? Qual è l’eccezione che ci terrorizza nel profondo? Quella della limitazione nel poter uscire o il terrore di perdere il livello dei consumi a cui siamo giunti (ognuno per il proprio, apparentemente misero, livello)?

E lo sconvolgimento profondo, lo smarrimento, è dovuto al riapparire, nel corpo sociale, dell’immagine della morte come elemento costitutivo (e ineliminabile) della vita, una presenza talmente rifiutata nella norma di vita da divenire ormai una vera e propria assenza, proprio dallo schema
della perenne giovinezza, ricercata e sponsorizzata incessantemente, del modello di vita ideale rappresentato e sostenuto da L’Industria di Senso? Può essere data una distinzione tra la struttura del dominio e la forma della vita possibile in una società complessa dominata dall’Industria di Senso?

La compulsiva voglia di comunicare o consumare comunicazione in merito al contagio, deriva dalla ossidata condizione del comunicare
istantaneamente e localmente, senza capacità di astrazione e generalizzazione, senza poter usare il filtro della consapevole coscienza del dire e del fare?
E se non possiamo non comunicare, è nell’atto istantaneo del vivere che viene riprodotto meccanicamente dai dispositivi digitali non un flusso comunicativo, ma un profluvio di sillabe connesse che speriamo assumano un senso nel processo di lettura dell’altro? Per noi, nell’atto del digitare, quelle stesse lettere, quegli stessi pixel, traslano quasi istantaneamente, dall’immaginazione essudata dalla nostra istantanea creatività direttamente agli archivi digitali della storia, senza l’obbligo di essere vissute realmente.

È così che i limiti del nostro linguaggio, con i quali siamo in grado di descrivere e raccontare, si trasformano in quelli del nostro mondo e quel compulsivo senso dell’essere, consumato tutto sulla tastiera virtuale di un apparato, si trasforma in confine del mondo a cui posso appartenere, attraverso un processo di limitazione autoprodotta proprio dal limite del senso delle parole comunicate, dell’immagine postata. Una vita trasformata in mediazione tra il desiderio dell’essere e l’accumulo di dati delle piattaforme di senso che governano i flussi comunicativi tra le persone ai tempi del Covid19.

La realtà, quindi, si dissolve nel cortocircuito del flusso massmediatico, al quale ci si rivolge per poter conoscere la verità che pensiamo il sistema ci voglia far credere e quella “privata” delle relazioni social a cui affidiamo la possibilità di sciogliere l’ansia, non tanto della nostra vita, ma del ritorno alla normalità
del consumo. Senza accorgercene, in maniera nascosta così come ci si contagia, il nostro divenire assume una forma viruspoietica, trasformandoci, istantaneamente e impercettibilmente, da essere umani a sequenze di aminoacidi informativi capaci di inocularsi nel grande flusso della
comunicazione virale.

È in questo processo che la morte, la grande espulsa, torna a sovrastare l’Essere e, anche se non ci sfiorerà neanche per un secondo, la sua presenza torna sulla scena a ricordarci che il destino delle nostre vite, delle nostre società, del mondo, passa per la consapevolezza che sappiamo dare alla costruzione della nostra vita.

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