di Stefano Vinti

 

PERUGIA - In Italia ci sono 4 milioni e mezzo di famiglie in affitto, di queste oltre l'80% ha redditi al di sotto dei 24mila euro lordi all'anno. A questi si aggiungono tutti coloro, in particolare giovani, che cercano una abitazione per costruirsi un futuro ma non riescono a trovarla per gli affitti insostenibili che richiede un mercato senza regole o i migranti che troppo spesso sono oggetto di veri e propri ricatti sul fronte economico e dei diritti.

 

In Umbria la situazione non è migliore. L’anno che si apre, infatti, non promette niente di buono per gli inquilini umbri. Si stimano infatti circa 1300 sfratti per il 2013 mentre, nel prossimo triennio, altre 2000 famiglie potrebbero restare senza un alloggio.
Le stime si  inseriscono in una quadro nazionale che vede almeno 125 mila famiglie a rischio sfratto per morosità per il 2013
È questo l'allarme lanciato dalle organizzazioni sindacali degli inquilini nello studio “Crisi e sfratti, i numeri del disagio abitativo”.

Le elaborazioni infatti, basate su dati del ministero dell'Interno, ci dicono negli ultimi 5 anni sono stati emessi almeno 290.000 provvedimenti di sfratto, di cui 240.000 per morosità. Nello stesso periodo gli sfratti eseguiti sono stati 140.000 di cui 100.000 per morosità. Secondo le proiezioni ai 150.000 provvedimenti emessi che potrebbero essere eseguiti nei prossimi mesi, se ne potrebbero aggiungere, «senza interventi in direzione di una maggiore disponibilità di abitazioni a prezzi sostenibili e senza forme di sostegno ai redditi delle famiglie», altri 150.000 nei prossimi tre anni. Di conseguenza si stimano un totale di 300.000 sfratti verosimilmente eseguibili nei prossimi 3 anni di cui 250.000 per morosità. Gli sfratti per morosità, ricorda lo studio, negli ultimi cinque anni, dal periodo antecedente la crisi a oggi, sono aumentati del 64% (nel 2006 erano 33.893).

Ma quali sono le conseguenze (sociali) dovute alla mancanza di un bene primario come la casa?
Una delle conseguenze è l’occupazione delle case, ormai diventato un fenomeno internazionale.
Lo squatting consiste nell’occupare terre o edifici abbandonati per riappropriarsi di quel diritto fondamentale (anche per l’economia) della casa. Secondo il giornalista del New York Times Robert Neuwirth, nel mondo ci sono circa un miliardo di persone che vivono occupando: circa un individuo ogni sette (il 14% della popolazione globale). Il giornalista Alessandro Montesi affronta le problematiche del diritto alla casa in un interessante dossier su Linkiesta. Secondo il sociologo olandese Hans Pruijt  può essere classificato in diverse categorie: l’occupazione dovuta a la mancanza effettiva di una casa (come può essere il caso degli homeless), occupazione come un strategia alternativa di abitare (persone che non possono aspettare le liste per l’affidamento di un casa e intraprendono un azione diretta di occupazione), un’occupazione definita di “imprenditorialità” basata sulla volontà di offrire beni e servizi a basso prezzo per la comunità, un’occupazione definita di conservazione, dove gli occupanti si prendono l’onere della cura di monumenti dimenticati dalle autorità e un’occupazione politica dove lo squatt diventa il centro della protesta e dell’agire sociale.

Ne esiste anche un’altra: l’occupazione come rivendicazione di un diritto sociale inalienabile, come sostiene la dottoressa Kesia Reeve esperta in Housing research.

In Europa si contano edifici occupati quasi ovunque: Germania, Inghilterra, Francia; Danimarca, Olanda. Italia, Spagna.

L’occupazione ha diverse ripercussioni sociali. Uno dei maggiori problemi correlati all’occupazione di case riguarda il mercato del lavoro con diverse conseguenze per le famiglie: secondo la studiosa Erica Field, la garanzia da parte delle istituzioni del diritto di proprietà può aumentare il welfare economico. Nella sua ricerca in Perù (Entitled to work: Urban property rights and labor supply in Perù) vengono studiate circa un milione di famiglie dividendo il campione tra famiglie squatter e famiglie non squatter. Tra il 1993 e il 2003 il governo peruviano implementò un programma di titling o meglio di assegnazioni di proprietà alle famiglie, il primo programma al mondo per il riconoscimento dei diritti di proprietà nei Paesi in via di sviluppo. Uno dei più grandi problemi dell’occupazione abusiva, secondo la studiosa è l’aumento del costo opportunità del lavoro poiché la protezione della case implica una redistribuzione poco efficiente delle ore lavorative per i diversi tipi di lavori.

Uno dei risultati più importanti derivante dal riconoscimento della proprietà, riguarda la riduzione delle ore passate a casa dedicate al lavoro: le famiglie che usufruirono del programma diminuirono del 30,3% le ore dedicate alla casa con un conseguente aumento delle ore lavorative fuori casa (+23,33).
Le opportunità di attività lavorative all’interno delle case rimangono molto limitate. Non solo le ore lavorate fuori, casa ma anche il numero totale delle ore lavorative aumenta (+ 14%) come conseguenza del riconoscimento dei diritti di proprietà.

Altri risultati interessanti emergono se si analizzano gli effetti del riconoscimento dei diritti di proprietà sulla distribuzione delle ore lavorative all’interno delle famiglie. L’assegnazione di una casa aumenta di 11 ore (a settimana) il tempo trascorso al lavoro per i membri adulti maschi e di 13,8 ore lavorative per i membri adulti femmine. Considerando i bambini di età compresa tra i cinque e i sedici anni, invece, le ore lavorative diminuiscono di quattro ore. La riduzione del lavoro minorile è in linea con l’aumento del 23,3% delle ore lavorative lavorate fuori casa: se le famiglie non sono costrette a mantenere la sorveglianza per la casa non ci sono incentivi a mandare i figli al lavoro al posto dei genitori che mantengono la sorveglianza della casa. È importante però notare come non sia ben chiaro come il meccanismo di assegnazione della proprietà possa aver effetto sul lavoro minorile: se il tempo dei bambini viene considerato come un bene normale, si potrebbe giungere agli stessi risultati (riduzione del lavoro minorile) conseguente a un aumento del reddito delle famiglie dovuto all’aumento delle ore lavorate (di uomini e donne all’interno della famiglia).

L’occupazione ha diverse ripercussioni sociali. Uno dei maggiori problemi correlati all’occupazione di case riguarda il mercato del lavoro con diverse conseguenze per le famiglie: secondo la studiosa, la garanzia da parte delle istituzioni del diritto di proprietà può aumentare il welfare economico. Nella sua ricerca in Perù (Entitled to work: Urban property rights and labor supply in Perù) vengono studiate circa un milione di famiglie dividendo il campione tra famiglie squatter e famiglie non squatter. Tra il 1993 e il 2003 il governo peruviano implementò un programma di titling o meglio di assegnazioni di proprietà alle famiglie, il primo programma al mondo per il riconoscimento dei diritti di proprietà nei Paesi in via di sviluppo. Uno dei più grandi problemi dell’occupazione abusiva, secondo la studiosa Erica Field è l’aumento del costo opportunità del lavoro poiché la protezione della case implica una redistribuzione poco efficiente delle ore lavorative per i diversi tipi di lavori.

Uno dei risultati più importanti derivante dal riconoscimento della proprietà, riguarda la riduzione delle ore passate a casa dedicate al lavoro: le famiglie che usufruirono del programma diminuirono del 30,3% le ore dedicate al business casalingo con un conseguente aumento delle ore lavorative fuori casa (+23,33%). Altri risultati interessanti emergono se si analizzano gli effetti del riconoscimento dei diritti di proprietà sulla distribuzione delle ore lavorative all’interno delle famiglie. L’assegnazione di una casa aumenta di 11 ore (a settimana) il tempo trascorso al lavoro per i membri adulti maschi e di 13,8 ore lavorative per i membri adulti femmine. Considerando i bambini di età compresa tra i cinque e i sedici anni, invece, le ore lavorative diminuiscono di quattro ore. La riduzione del lavoro minorile è in linea con l’aumento del 23,3% delle ore lavorative lavorate fuori casa: se le famiglie non sono costrette a mantenere la sorveglianza per la casa non ci sono incentivi a mandare i figli al lavoro al posto dei genitori che mantengono la sorveglianza della casa. È importante però notare come non sia ben chiaro come il meccanismo di assegnazione della proprietà possa aver effetto sul lavoro minorile: se il tempo dei bambini viene considerato come un bene normale, si potrebbe giungere agli stessi risultati (riduzione del lavoro minorile) conseguente a un aumento del reddito delle famiglie dovuto all’aumento delle ore lavorate (di uomini e donne all’interno della famiglia).

Sono questi alcuni elementi che ci aiutano a capire quanto sia importante porre in essere strumenti adeguati per garantire il diritto alla casa a tutte e a tutti.
Negli ultimi anni Governi e Parlamento hanno sistematicamente sottovalutato questo problema con l'illusione che l'alto numero dei cittadini proprietari dell'appartamento in cui vivono e la prosecuzione di una politica di incentivo alla proprietà della casa avrebbe sostanzialmente risolto il problema abitativo nel nostro Paese. Ma così non è. Oltre al crescente numero di famiglie che rischiano di perdere la casa per la difficoltà nel pagamento del mutuo, basterebbe citare l'impressionante numero di sfratti per morosità emessi ed eseguiti negli ultimi anni per dimostrare il contrario. Senza aggiungere i problemi della sicurezza e della accessibilità delle abitazioni per anziani e portatori di handicap, il degrado dei quartieri di edilizia popolare, l'aumento delle coabitazioni, la scarsa qualità urbana e l'assenza di politiche organiche e non episodiche mirate al contenimento dei consumi energetici e dello spreco di territorio.

La Regione Umbria è in prima fila, nonostante le difficoltà in cui siamo costretti ad operare, per garantire il diritto alla casa, sia attraverso interventi diretti con finanziamenti per l’acquisto della casa, sia attraverso la convenzione con gli istituti di credito per facilitare l’accesso ai mutui, sia attraverso il ruolo dell’Ater sotto il profilo dell’edilizia sociale.
Questo, però purtroppo non basta ed i dati citati stanno lì a dimostrarlo.

Ci aspettiamo che il nuovo Parlamento ponga il problema dell'abitare tra le priorità da affrontare e faccia proprie le proposte già avanzate dalle organizzazioni sindacali:
1) L'ampliamento dell'offerta di abitazioni in affitto compatibile con i redditi della domanda attraverso un piano poliennale, finanziato con un apposito fondo, che preveda programmi con una quota prevalente di edilizia residenziale pubblica a canone sociale integrati da altri interventi di edilizia sociale indirizzati prioritariamente alla locazione.
2) Il contrasto all'ulteriore espansione e consumo del territorio privilegiando l'aumento dell'offerta abitativa in affitto attraverso operazioni di rigenerazione urbana su aree già urbanizzate ed il recupero qualitativo e funzionale del patrimonio abitativo esistente a partire dalle periferie degradate e dai quartieri di edilizia pubblica.
3) Una riforma della legge sulle locazioni che affermi la contrattazione collettiva come strumento di regolazione del mercato delle locazioni private e dell'edilizia sociale in partenariato (Social Housing), accompagnata da una riforma del regime fiscale sui redditi da locazione e dell'IMU che sostenga la riduzione del livello degli affitti, penalizzi gli alloggi tenuti sfitti oltre un certo periodo, sconfigga l'evasione fiscale nel settore, anche alla luce dei deludenti risultati prodotti dall'introduzione della cedolare secca
4) Il rifinanziamento del Fondo di sostegno alla locazione.
5) La costituzione di un Osservatorio nazionale sulla condizione abitativa, strumento fondamentale per programmare, attivare ed indirizzare le iniziative in materia di politiche abitative.
Occorre riportare al centro del dibattito politico il tema della difesa del diritto all'abitare, che in un Paese civile dovrebbe essere garantito a tutte e a tutti per ridurre povertà e disagio sociale.

 

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