di Maria Pellegrini.

La prostituzione dilaga in tutti marciapiedi delle città e sarà capitato a ognuno di noi di vedere ragazze passeggiare e parlare fra loro in attesa dei clienti. Ne ho viste spesso passando in macchina lungo la Salaria: ridevano e chiacchieravano. Mi sono chiesta che cosa si stessero dicendo quelle disgraziate, avviate a questo antico mestiere in seguito a chissà quali circostanze. Mi è tornato in mente il titolo di una breve opera “Dialoghi delle cortigiane” di Luciano di Samosata, un autore siriano vissuto nel II secolo dopo Cristo nell’età degli Antonini, quando la Siria faceva parte dell’impero romano. L’ho ripreso in mano e riletto: è stata la riscoperta interessante di uno scrittore ironico che rappresentò vizi e virtù della società in cui viveva divenendo l’ultima voce critica contro le tendenze irrazionalistiche di un periodo di crisi politica, economica, morale e religiosa che caratterizzò il II secolo d.C. dell’impero romano.

Chiunque abbia frequentato il liceo classico ricorderà di essersi cimentato, nei primi anni dello studio del greco antico, nella traduzione di brani tratti dalle opere di questo scrittore nato a Samosata, città sulle rive dell’Eufrate, intorno al 125 d. C., scelti per lo stile semplice, caratterizzato da un periodare agile e breve. Nonostante avesse appreso il greco a scuola, Luciano divenne un esponente di rilievo della Seconda Sofistica, corrente filosofica e letteraria affermatasi in Asia Minore, fondata sullo studio della retorica rivolta al culto della bella forma, allo sfoggio di abilità stilistica in argomenti futili o di scarsa importanza. In assenza di una nuova visione filosofica del mondo, la retorica, cioè l’arte della parola, diventò una disciplina fondamentale per chi volesse intraprendere la carriera politica, amministrativa o letteraria. I retori viaggiavano da una parte all’altra dell’impero per tenere conferenze sui più svariati argomenti facendo della retorica una forma di intrattenimento e di spettacolo.

Luciano viaggiò in parecchie città procurandosi grande fama e notevoli guadagni, ma poi abbandonò tale professione, si ritirò ad Atene, che divenne sua patria d’adozione, per dedicarsi alla scrittura di opere satiriche spesso indirizzate a smascherare i professionisti della cultura e gli intellettuali del suo tempo vicini al potere e, tra questi, i filosofi ai quali rimproverava la loro incapacità di interpretare il mondo. La sua opera più nota è il romanzo “La storia vera”, scritto con l’intento polemico di parodiare i romanzi d’avventura ma finito per essere il più bizzarro, estroso, divertente e fantasioso racconto, antenato dei romanzi di fantascienza. Il protagonista, che è lo scrittore stesso, scrive un resoconto di un viaggio - come se fosse realmente accaduto - intrapreso insieme a cinquanta suoi compagni. L’allegra compagnia arriva in luoghi sconosciuti e oltrepassa le colonne d’Ercole. Tempeste e uragani sconvolgono le acque e sollevano in cielo il battello che sbarca insieme ai viaggiatori sulla luna, ma quando il vento si placa torna sul mare ed è inghiottito da una enorme balena. Usciti dal ventre della balena, il viaggio prosegue toccando altri strabilianti luoghi fino a che una tempesta non scaraventa il battello sul lido fracassandosi. Il racconto termina bruscamente con la promessa di un seguito in un prossimo libro.

Quest’opera ha rappresentato il modello di tutti gli autori che si sono confrontati con il tema dei viaggi immaginari, anticipando le avventure di Gulliver di Swift, quelle di Pinocchio di Collodi, e il romanzo “Dalla terra alla luna” di Verne.

L’originalità di questo autore dallo spirito mordace e scettico che si beffa di tutto e di tutti, degli dei e degli uomini, dei filosofi e dei letterati, è maggiormente evidente nei “Dialoghi” (Dialoghi degli Dei, Dialoghi Marini, Dialoghi dei morti, Dialoghi delle cortigiane) nei quali tratta nella forma seriosa del dialogo filosofico, contenuti dai risvolti comici tipici umoristici tipici della commedia e della satira. Tra questi vorremmo qui prendere in esame i quindici brevi “Dialoghi delle cortigiane”.

Con uno stile semplice e diretto l’autore ritrae in modo esemplare il mondo equivoco delle cortigiane (Luciano, che scrive in greco, le definisce ἑταίραι, etère, ma quelle cui dà voce in questi dialoghi indicano nella realtà prostitute più o meno raffinate, spesso danzatrici o suonatrici chiamate ad animare banchetti, non certo le etère mantenute da uomini potenti che godevano di privilegi e di uno status molto diverso da quello delle semplici prostitute).

A differenza di altri suoi scritti, insieme alla consueta vena pungente troviamo una particolare delicatezza e sensibilità nella descrizione dei caratteri e dei sentimenti, degli amori, delle gelosie, delle speranze e aspettative di questo mondo femminile: giovani ragazze o donne più mature, che suonano il flauto, cantano, danzano, offrono a pagamento il proprio corpo appagando i desideri degli uomini. Luciano offre un autentico spaccato di vita di questo particolare mondo dell’Atene del II sec. d.C., in modo da coinvolgere il lettore e suscitare un sorriso malizioso o umana comprensione per i contrastanti sentimenti che condizionano chi vive tali esperienze. Finezza e buon gusto non vengono mai meno, nemmeno quando si affrontano argomenti scabrosi, come l’omoerotismo femminile, senza ricorrere all’oscenità e alla volgarità. In queste ironiche e brevi conversazioni sfilano ragazze alle prese con giovanotti della buona società di cui s’innamorano e con i quali sperano di sposarsi, ma il più delle volte sono deluse e si arrendono al loro destino, altre volte si apre per qualcuna uno spiraglio di felicità.

In uno dei dialoghi Glicera confida a Taide di essersi innamora di un bel soldato e si mostra gelosa quando vede l’amato scegliere un’altra ragazza molto più brutta di lei. Adirata con chi gliel’ha portato via esclama: “Gorgona quella perfida che fa tanto l’amica, me l’ha strappato portandomelo via con l’inganno”. Taide la consola: “Che avrà mai trovato di bello in lei questo militare? Deve essere cieco del tutto se non ha visto che i capelli li ha radi, le labbra le ha livide, il collo scarno e il naso lungo. Però il sorriso è seducente”. Esperta com’è di quanto accade di solito a chi di loro s’innamora, le toglie ogni illusione e la riporta alla realtà: “C’è da aspettarselo, fra noi cortigiane si usa così, cara Glicera, non angosciarti troppo, te ne prenderai un altro, e a questo tanti saluti!”.

Un’altra ragazza, Mirtio è addolorata perché le è stato riferito che il giovane Panfilo, dopo averle giurato amore eterno l’ha abbandonata per sposare la figlia di un armatore e ora dovrà pensare da sola al bambino che aspetta. Si rivolge stizzita a lui: “Sono incinta di otto mesi. Ecco tutto quello che ho acquistato col mio amore per te! Se sarà maschio lo chiamerò Panfilo e me lo terrò per consolarmi di questo amore”. Poi si sfoga sbeffeggiando la bruttezza della futura sposa: “Dalle un’occhiata e osservale il volto e gli occhi che sono strabici tanto che si guardano tra loro”. Panfilo la rassicura, la notizia è falsa non è lui che si sposa, ma un suo vicino di casa. Mirtio sollevata: “M’hai ridato la vita, Panfilo. Mi sarei impiccata, se fosse accaduto qualcosa del genere”.

La povertà spinge alcune madri disinvolte e intraprendenti ad avviare una giovane figlia al mestiere più antico del mondo, pronte a dare consigli pratici per avere successo. Ne è un esempio il dialogo tra Corinna e sua madre Crobile. A una vita decorosa e misera Crobile preferisce il tenore di vita garantito dalla professione di meretrice e per ottenere questo non si fa scrupoli a sacrificare la giovinezza della figlia. Corinna ha appena avuto il suo primo rapporto sessuale - senza sapere che fosse stato organizzato dalla madre - con un bel giovanotto di cui è innamorata dal quale ha avuto in dono una moneta d’argento. La madre le promette che potrà acquistare una graziosa collana e la figlia è felice di poter avere un bel monile di pietre rosse e splendenti, ma non ha capito le intenzioni della madre che subito decide di darle i suoi preziosi consigli al fine di assicurare a se stessa e alla figlia una vita priva delle ristrettezze alle quali sono state costrette fino a quel momento. Crobile subito scopre le sue vere intenzioni: “Ho fatto il calcolo che hai l’età giusta per provvedere a me e per essere facilmente tu stessa ricca, piena di gioielli, con tanti vestiti di porpora e tutte le serve che vorrai”. La reazione della ragazza è di sconcerto: “Mamma, che intendi dire? Cosa devo fare?” “Andare con giovanotti, bere con loro e dormirci insieme dietro compenso”, risponde la madre subito pronta a elencarle consigli perché possa distinguersi dalla massa informe e volgare di prostitute comuni: “Per prima cosa devi acconciarti con gusto, essere gentile e gioviale con tutti, ma non scoppiare in risate per un nonnulla com’è tua abitudine… se sei pagata per andare a un festino, non ubriacarti esponendoti al ridicolo, non rimpinzarti di cibo … bevi lentamente senza tracannare, ma sorseggiando …. Quando sei a letto non essere sguaiata e sciatta, ma cerca solo di sedurre l’uomo per farne il tuo amante”. Per chiudere la rassegna di consigli pratici, Crobile invita la figlia a selezionare i propri clienti in base alla disponibilità di denaro. Se seguirà i suoi avvertimenti diverrà in breve tempo straordinariamente ricca.

Le cortigiane di Luciano hanno a che fare con un vasto campionario di amanti: il bellimbusto giovane senza soldi, l’uomo anziano ma ricco e generoso, quello geloso. Naturalmente le cortigiane preferiscono i giovani di bell’aspetto con i quali hanno l’impressione di comportarsi come fossero innamorati. Le madri che invitano le figlie alla prostituzione consigliano invece gli amanti di una certa età: anche se poco attraenti, sono più ricchi e generosi. Così in un altro dialogo sono messe a confronto una madre-mezzana e la figlia, Musario, innamorata di Cherea, un giovanotto di bell’aspetto, figlio di un membro dell’Areopago, che gode dei suoi favori senza mai donarle nulla perché il padre non allarga i cordoni della borsa. La madre tenta di ricondurre alla ragione la figlia sconsiderata che sospira e prevede un futuro felice come le ha promesso il giovane una volta che il padre sarà defunto ed egli entrerà in possesso del suo patrimonio. La madre non si lascia abbindolare dal comportamento del giovane e rammenta alla figlia “che con le parole non si saldano i debiti”, e cerca di proporle altre relazioni più redditizie, ma la figlia indispettita le risponde: “Dovrei lasciare Cherea e accogliere, perché paga, quel bracciante che puzza come un caprone?” Di fronte alla testardaggine della ragazza alla madre non resta che augurarle di non avere una delusione, ma minacciosa aggiunge: “Ma quando accadrà, te lo ricorderò”.

I motivi ricorrenti di questi dialoghi di cui abbiamo dato solo qualche esempio sono: la rivalità fra cortigiane, che si accusano a vicenda di bruttezza e di ricorrere a trucchi per camuffare l’età, o alla magia per riconquistare l’amore perduto, la gelosia di clienti e delle prostitute, i pianti, le suppliche dell’innamorato respinto perché a corto di denaro, i difficili rapporti con i soldati tracotanti. I personaggi sono per lo più gli stessi: la cortigiana giovane e bella e quella anziana, spesso la madre che funge da mezzana, il giovane squattrinato, il soldato violento, il ricco mercante o agricoltore, talvolta anche il filosofo rappresentato come “un ciarlatano dal viso scuro per la fitta barbaccia”, che tiene lontano da una prostituta un giovane alunno ammonendolo ad “anteporre la virtù al piacere”, in realtà vorrebbe conquistarlo perché “è uno cui piacciono i ragazzi”. In un altro dialogo, interessante e malizioso è lo scambio di battute tra due ragazze, Leena e Clonario, la prima racconta sconcertata all’amica l’esperienza saffica avuta con una ricca signora che l’ha pagata profumatamente; nel dialogo lo sconcerto si alterna ad una morbosa curiosità di sapere i particolari dell’incontro, ma la ragazza che giustifica l’incontro per il pagamento ricevuto risponde alla curiosa amica: “Non chiedere dettagli: sono cose vergognose che, per Afrodite celeste, non riuscirei a dire”.

Luciano considerato da Marx “il Voltaire dell’antichità classica” ci parla di un mondo lontano nel tempo, ma molto vicino a noi nei sentimenti e nelle azioni.

Leopardi ne apprezzò lo spirito e lo stile, lo cita nello Zibaldone come uno degli “scrittori elegantissimi, di eleganza non affettata, non impura, non corrotta, non malsana” e arriva ad accostare la sua ricchezza linguistica a quella ineguagliata dei latini d’età classica. Nel 1819 annunciò il suo progetto letterario di realizzare dei “Dialoghi satirici alla maniera di Luciano”, che saranno poi le sue “Operette morali”.

 

Nota: nell’immagine “Scena di un banchetto con una prostituta”, Pompei, Casa dei casti amanti

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