di Diego Alhaique

Dopo il lutto e il cordoglio, possiamo iniziare a ragionare sulle lezioni che si possono trarre dai terremoti del 20 e del 29 maggio che hanno sconvolto l’Emilia Romagna, con ripercussioni in tutto il Nord Italia. Partendo da un punto: la fatalità è inaccettabile. E la parola chiave che dobbiamo usare, come per la sicurezza sul lavoro, è “prevenire”.

La stessa Protezione civile avverte che negli ultimi 40 anni, a partire da quello del Belice del 1968, i terremoti hanno provocato in Italia circa 4.500 vittime, con una spesa attorno ai 150 miliardi di euro, e che l’unica azione efficace per ridurre le conseguenze dei terremoti è la prevenzione, costituita principalmente dal realizzare costruzioni capaci di resistere a scosse violente.

I terremoti dell’Emilia Romagna hanno fatto crollare non solo i capannoni che hanno ucciso gli operai, ma hanno distrutto fra il 70 e l’80 per cento degli edifici industriali delle province più colpite di Ferrara e Modena, danneggiando in misura gravissima il tessuto imprenditoriale e il mondo del lavoro in quest’area. I terremoti sono avvenuti in una zona a bassa pericolosità sismica, con una magnitudo inferiore ai sei gradi della scala Richter. Secondo gli esperti scosse così in altri paesi sismici, ad esempio il Giappone, molto probabilmente non avrebbero provocato nemmeno lievi danni architettonici, perché gli edifici vengono lì costruiti con criteri antisismici e si è investito sulla sicurezza strutturale delle abitazioni.

In Italia, invece, pur essendo note le aree sismicamente attive (la catena appenninica e gran parte della Sicilia), non vengono praticati i criteri costruttivi e ristrutturativi adeguati. Allo scopo ci sarebbero le mappe elaborate oggi con la tecnica della “microzonazione”, che suddivide in modo dettagliato il territorio in sottozone a diversa pericolosità sismica locale. Ciò permette di conoscere le possibili interazioni tra terremoto, terreno e costruzioni, un requisito indispensabile per un’effettiva opera di prevenzione.

Sotto questo profilo risulta che la Regione Emilia Romagna dal 2004 ha emanato indirizzi perché fosse realizzata la microzonazione, finalizzandola alla pianificazione territoriale e urbanistica, per contenere costi e tempi e impiegarla nella scelta delle aree e del tipo di interventi. Purtroppo la normativa nazionale in materia ha avuto un iter lunghissimo e faticoso. L’entrata in vigore delle “Nuove norme tecniche per le costruzioni” sono state rinviate più volte e sono andate a regime solo dopo la tragedia dell’Abruzzo (dal 1 luglio 2009). Esse classificano il territorio in zone sismiche in cui varia il rischio, e con esso variano gli accorgimenti tecnici minimi da rispettare.

Nessuna parte del territorio risulta oggi non più classificata, per cui diventa obbligatorio, per ottenere un “permesso di costruire”, che sia verificata la resistenza sismica della struttura. E il costo maggiore di edificare in questo modo si misura attorno al 10 per cento, ben meno dei danni che provoca un sisma. È significativo, infine, che proprio in questi giorni un’esposizione itinerante, “Terremoti d’Italia”, realizzata dal Dipartimento della Protezione civile, abbia fatto tappa nella provincia immediatamente più a Sud di quella colpita, a Pesaro, e lanci l’appello per un “nuovo e sostanziale impegno politico ed economico, con la partecipazione decisa e consapevole di tutti i cittadini, per abbattere il rischio sismico di scuole, ospedali, case, ponti, impianti industriali, per non parlare mai più di catastrofi, tragedie annunciate, disgrazie per il nostro amato paese”.

 

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