Correzione di rotta. Finanza, economia e democrazia in Europa
di Mario Pianta da sbilanciamoci.info
PERUGIA - Poco – in apparenza – è successo al G20 di Cannes, il 3-4 novembre, se non un lento, progressivo spostamento degli equilibri: la Germania sempre rigida, ma d’accordo a estendere gli interventi di salvataggio; la Cina sempre cauta, ma disponibile a un ruolo maggiore; gli Stati uniti sempre più ai margini della scena; la Grecia in un’emergenza caotica; l’Italia screditata, al centro della speculazione e ora messa sotto tutela da Commissione europea e Fondo monetario. Di fronte alla crisi europea, governi e autorità di Bruxelles seguono ancora la via dei piccoli passi, sempre in ritardo di fronte alla rapidità con cui la finanza attacca volta a volta debito pubblico e listini di Borsa.
La politica europea non ha dato alcuna risposta all’altezza della crisi. Non ci sono state risposte alle domande che Rossana Rossana ha posto aprendo nel luglio scorso la discussione sulla “rotta d’Europa” lanciata dal Manifesto e Sbilanciamoci.info e ripresa daOpenDemocracy: dove si è sbagliato nella costruzione europea? E come si rimedia? A conclusione di quel dibattito, possiamo valutare che cosa è cambiato nell’economia e nella politica, e quali strade abbiamo davanti.
La spirale della crisi
Rispetto al luglio scorso, la crisi finanziaria si è aggravata. Gli indici di borsa hanno perso oltre il 10% del valore, più in Europa che negli Usa. I tassi d’interesse sul debito pubblico sono ora dell’1,88% in Germania, del 6,23% in Italia, del 30,88% in Grecia, con lo spread (la differenza rispetto ai titoli tedeschi) triplicato in pochi mesi: per l’Italia quest’andamento ha assorbito da solo le nuove entrate delle manovre estive di Tremonti.
Si è aggravata la recessione: l’indice composito Ocse dell’andamento economico segnala un rallentamento in tutto il mondo, è sotto il livello di un anno fa nell’area euro (-3,4%), con un pessimo dato in Italia (-5,5%), ma cattivo anche in Germania (-4,1%). Naturalmente la disoccupazione è a livelli record e in Italia è ripartita anche l’inflazione (ora al 3,4%, anche per effetto dell’aumento dell’Iva nella manovra di agosto). La depressione insomma è più vicina e questa volta neanche l’export verso i paesi emergenti potrebbe riuscire a salvare le economie più forti.
Che cosa si è fatto sul fronte della crisi finanziaria? Niente tassa sulle transazioni finanziarie – a Cannes, solo buone intenzioni – nessuna stretta contro i paradisi fiscali, né vincoli alle operazioni delle banche e della Borsa. Anzi, la Banca centrale europea (Bce) ha inondato di liquidità proprio le banche private, dandosi la priorità di evitare il fallimento di quelle – francesi e tedesche – più esposte. Per i paesi in crisi, la Bce ha fatto a singhiozzo acquisti di titoli pubblici per contenere, con scarsi risultati, l’esplosione degli spread. Il cambiamento più importante è stato l’arrivo, il primo novembre, di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea e la sua prima decisione è stata di tagliare i tassi d’interesse – rovesciando l’approccio tenuto fino all’ultimo dal suo predecessore Trichet e avvicinandosi all’azione della Fed americana: una svolta da seguire con attenzione.
Per il paese più travolto dall’emergenza debito pubblico – la Grecia – la vera novità è stata la rottura del tabù dell’intoccabilità del debito: l’accordo europeo del 27 ottobre prevede che le banche private – sia greche che straniere, non invece le istituzioni pubbliche come Fondo monetario e Bce – accettino “volontariamente” una riduzione del 50% del valore dei titoli greci che hanno in portafoglio; in cambio avranno titoli europei garantiti dai paesi euro. Ma l’accordo, che prevede nuove misure di austerità per la Grecia, dovrà essere approvato dai parlamenti dei paesi europei e definito meglio con le banche creditrici. Il tentativo del leader greco George Papandreou di sottoporlo a un referendum – una buona idea che ridava voce ai processi democratici – ha scatenato il crollo delle borse e attacchi politici di ogni tipo; l’idea è caduta e, con lei, potrebbe cadere anche il governo socialista.
Ma l’accordo sulla Grecia è una riorganizzazione del debito o un default? A deciderlo non è l’Europa, e tantomeno Atene: è un oscuro comitato dell’International swaps and derivative association composto da 15 rappresentanti delle maggiori banche e fondi d’investimento mondiali (nessuna italiana). Sono proprio i protagonisti della speculazione finanziaria a decidere se l’accordo va interpretato come default e farà quindi scattare il pagamento dei Credit default swaps, le “scommesse” sull’insolvenza di Atene vendute per miliardi di euro alimentando gli attacchi alla Grecia.
Nello scontro tra finanza e politica, insomma, è la prima che continua a vincere. La finanza non ha subito alcun colpo, la svalutazione del debito greco era già stata anticipata e compensata da tassi d’interesse alle stelle. Con la speculazione sul debito pubblico e il precipitare della sfiducia, è stata la finanza a mettere nell’angolo i governi dei paesi della periferia, tutti ora allineati alle direttive europee e letteralmente sconfitti sul piano politico. In Portogallo il governo socialista ha perso le elezioni, si prevede lo stesso esito nel prossimo voto spagnolo, mentre in Grecia l’instabilità politica potrebbe portare al voto. L’Italia di Berlusconi è rimasta un’eccezione, con pressioni per il cambiamento che vengono da Bruxelles, Confindustria, grande stampa e dalle consultazioni a tutto campo di Napolitano; questa volta il regime di Berlusconi potrebbe davvero avvicinarsi al suo 25 luglio.
Spread, haircut e default
Il prossimo scontro tra finanza e politica sarà su come affrontare il debito degli stati. Qui è opportuno evitare una discussione “ideologica” sul default e considerare le diverse ipotesi di ristrutturazione del debito pubblico. Quando i mercati finanziari chiedono tassi d’interesse del 30% sui titoli pubblici della Grecia, come avviene oggi, quel rendimento incorpora già una parte del rimborso del capitale prestato che ci si aspetta non sarà restituito. Se la politica europea lascia fare i mercati, l’esito non può che essere un taglio del valore nominale del debito: una ristrutturazione del debito limitata e concordata, come avvenuto per la Grecia e come avverrebbe nel caso di imprese private. È per questo che l’unica decisione presa finora da Berlino, Parigi e Bruxelles è stata quella di riconoscere che il valore del debito greco è dimezzato. Se invece il debito venisse lasciato intatto, la Grecia – come già i paesi del Terzo mondo negli anni ’80 – si troverebbe a dover ripagare più volte il suo debito estero, prima con gli interessi alle stelle, poi con il rimborso del capitale, con effetti devastanti sull’economia nazionale.
Di fronte alla crisi del debito ci sono tre possibili vie d’uscita. La prima è che l’Europa garantisca collettivamente il debito pubblico dei paesi dell’area euro; la seconda è una ristrutturazione concordata del debito; la terza è l’insolvenza generale degli stati debitori.
Nel primo caso è necessario che i paesi dell’eurozona dichiarino che garantiscono insieme il loro debito pubblico, realizzino una maggior integrazione politica e introducano politiche fiscali comuni – rassicurando la Germania sul “buon comportamento” della periferia. In parallelo, è necessario l’impegno della Banca centrale europea ad acquistare senza limiti titoli dei paesi euro sul mercato primario e secondario; l’emissione di euro nel sistema andrebbe così a finanziare gli stati e non solo la speculazione delle banche private. Immediatamente gli spread cadrebbero e un “normale” rimborso del debito diventerebbe possibile. Piccoli segnali verso questa direzione sono stati la proposta sugli eurobond di Prodi e Quadrio Curzio (Sole 24 Ore del 22 agosto 2011) e il fatto che sarà l’eurozona nel suo insieme a emettere i titoli da scambiare con la metà del valore di quelli greci nelle mani delle banche private.
Una scelta di questo tipo sarebbe stata relativamente semplice un anno fa, al primo manifestarsi della crisi greca, e avrebbe evitato il disastro avvenuto da allora. È responsabilità del governo tedesco e del vertice della Bce aver impedito allora una soluzione di questo tipo. È responsabilità dell’asse Merkel-Sarkozy – impostosi senza legittimazione al comando dell’Europa – non scegliere oggi questa via d’uscita. Sarebbe questa la via preferibile, anche oggi con un costo politico (oltre che economico) più alto, forse troppo per Germania e Francia, entrambe alla vigilia di elezioni.
Nel secondo caso, in assenza di garanzie europee e con tassi d’interesse sul debito pubblico oltre la soglia dell’usura, la ristrutturazione del debito diventa necessaria e tuttavia, si noti, non equivale a una dichiarazione d’insolvenza generalizzata: il default. Una ristrutturazione limitata, che colpisca i protagonisti della speculazione – l’“haircut” per le banche private – potrebbe non avere effetti negativi sui singoli risparmiatori e sui soggetti pubblici, come ad esempio gli istituti di previdenza. I paesi in difficoltà si troverebbero alleggeriti di parte del debito; con un’Europa capace di guardare lontano e meno ossessionata dai tagli, potrebbero ridurre le politiche di austerità e avviarsi a una ripresa restando all’interno dell’Unione monetaria. Come ha spiegato Domenico Mario Nuti i costi di un intervento tempestivo di questo tipo sono inferiori a quelli di un’insolvenza non concordata e generalizzata, anche quando essa sia rimandata nel tempo da misure di rifinanziamento del debito.
Anche qui i tempi contano: più si rimanda la riduzione del debito, più si avvicina l’insolvenza generale dello stato, la terza conclusione possibile della crisi. Essa avrebbe effetti a catena – interni e internazionali – difficilmente controllabili e devastanti. In quelle condizioni si presenterebbe un’emergenza economica analoga al caso argentino: l’uscita dall’euro e il ritorno a monete nazionali, il default sul debito estero imposto anche agli operatori privati, il blocco dei movimenti di capitale per evitare fughe di capitali dal paese, la fine dell’accesso ai mercati finanziari esteri, restrizioni alle importazioni per difendere i conti con l’estero, un’alta inflazione e una lunga recessione, un drastico calo di redditi, consumi e occupazione, fino a quando le capacità produttive e la domanda interna siano ricostituite, in misura ridotta, su basi nazionali.
La depressione che avanza
Se le prospettive finanziarie sono pessime, quelle dell’economia reale non sono migliori. Sul fronte della crescita economica in Europa si è fatto pochissimo, e proprio nulla per rilanciare la domanda. Ci si aspetta che i mercati facciano il solito “miracolo” di tornare a crescere da soli; di politiche per la ripresa e di eurobond la Germania non vuole sentire parlare. Ci si aspetta che l’occupazione possa riprendere attraverso un calo dei salari reali sul mercato del lavoro – come se le imprese assumessero di più lavoratori quando possono pagarli meno, anche se non hanno a chi vendere i prodotti. E per far scendere i salari, soprattutto nei paesi della periferia che hanno avuto produttività stagnante, la ricetta principale – esplicita nella lettera della Bce al governo italiano e nelle misure preparate da Palazzo Chigi – è lo smantellamento dei contratti nazionali, con più potere alle imprese e meno al sindacato per decidere salari e condizioni di lavoro.
Anche nel precipitare della crisi, non vengono scalfiti i due pilastri della costruzione europea degli ultimi vent’anni: finanza e neoliberismo. Anzi, vengono riproposti in dosi ancora maggiori – salvataggi delle banche, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica – come soluzioni della crisi attuale. Le élite politiche ed economiche, e le loro politiche monetarie, macroeconomiche e del lavoro, restano ferme ai dogmi del passato e stanno portando l’Europa dritta alla depressione.
Le vie del cambiamento
Ma qualche altra cosa è successa, da luglio a questa parte. È il ritorno sulla scena della “seconda superpotenza mondiale” – i movimenti dal basso che il 15 ottobre 2011 hanno manifestato in 950 città di 80 paesi del mondo per dire che questo sistema non funziona, che le politiche devono cambiare. “Indignados”, “occupanti” di Wall street e di cento altre piazze – compresa la grande manifestazione italiana, purtroppo sequestrata da gruppi violenti – sono la voce che non si sentiva l’estate scorsa, e che può creare le condizioni per un cambiamento. Ma quale cambiamento? Con quali strumenti e quali vie per realizzarlo?
Il cambiamento più grande è il ritorno della politica, con istituzioni e soggetti pubblici – in Europa e negli stati – all’altezza dell’economia globale, capaci di intervenire e condizionare l’azione delle imprese, della finanza e dei mercati. Questa nuova politica deve restituire ai cittadini il potere di decidere sul proprio futuro, deve essere al servizio degli obiettivi decisi dai cittadini. Ridimensionare la finanza, riprendere il controllo dell’economia, praticare la democrazia sono i tre obiettivi di fondo – i nuovi pilastri su cui ricostruire l’Europa – che emergono dalle proteste e dalle alternative avanzate dalle reti europee di società civile. E sono i temi delle proposte emerse nei 50 interventi alla discussione sulla “rotta d’Europa” riassunte da Claudio Gnesutta.
Finanza da legare
Ridimensionare la finanza. La finanza dev’essere messa nelle condizioni di non devastare più l’economia. Le transazioni finanziarie devono essere tassate, devono essere ridotti gli squilibri prodotti dai movimenti di capitale, eliminati i paradisi fiscali, serve il ritorno alla divisione tra banche d’affari e commerciali, una regolamentazione più stretta contro le attività più speculative e rischiose, si deve creare un’agenzia di rating pubblica europea.
Di fronte all’aggravarsi della crisi del debito pubblico, bisogna considerare le alternative discusse sopra. La prima richiesta è all’Europa: il debito pubblico dei paesi che adottano l’euro dev’essere garantito collettivamente dall’eurozona. Se l’Europa non agisce in questa direzione, si deve proporre la ristrutturazione del debito dei paesi in crisi, con il taglio di quello nelle mani delle banche private e con il ricorso a eurobond che alleggeriscano il debito degli stati. Sulla base dell’esperienza dei paesi del Terzo mondo, la situazione del debito – chi lo detiene, a quali condizioni – dev’essere oggetto di una “Commissione d’inchiesta” composta da esponenti della politica, dell’economia e della società civile che faccia un’”audit” pubblica del debito, mettendolo al centro di consultazioni e deliberazioni che coinvolgano i cittadini.
All’interno dell’Europa, i paesi in crisi devono creare un “Vertice dei debitori” che negozi collettivamente con banche private, Bruxelles e Fmi il piano di aggiustamento, e faccia da contrappeso allo strapotere dell’asse Merkel-Sarkozy nelle decisioni dell’Unione. Creditori e debitori sono i due lati dello stesso problema e non si può consentire che si ripeta in Europa il modello usato per il debito del Terzo mondo, con il Club di Parigi, il cartello dei creditori occidentali, che affrontava compatto i singoli paesi poveri, imponendo i piani di aggiustamento strutturale del Fondo monetario. Per questa via si può affrontare la questione del debito pubblico in modo che sia sostenibile per i paesi in crisi, accettabile per i paesi forti e attento a non distruggere l’Unione monetaria e l’euro.
Se anche questa strada non venisse presa, l’insolvenza di alcuni paesi potrebbe trascinare a fondo l’Unione monetaria e l’euro, con un drammatico scenario di frammentazione dell’Europa, depressione dell’economia e disordine della politica.
L’economia da controllare
Controllare l’economia. L’economia dev’essere messa nelle condizioni di non devastare più la società. Con la semplificazione delle manifestazioni contro Wall street, si può dire che il 99% dei cittadini – le vittime della crisi – deve togliere il controllo dell’economia all’1% che decide per tutti. Con un po’ più di precisione, si può dire che il 90% degli europei sta peggio di dieci anni fa e che il 10% più ricco ha incamerato tutti i benefici della crescita. In molti paesi europei e negli Stati uniti le disuguaglianze sono tornate ai livelli degli anni trenta; ora una “grande redistribuzione” dev’essere messa in agenda, cambiando i destinatari delle politiche di austerità, tutelando il lavoro e i salari, difendendo il welfare.
In campo fiscale occorre spostare il carico fiscale dal lavoro alla ricchezza – con una tassazione regolare dei patrimoni e, in caso di emergenza, con un’imposizione straordinaria. Ci si deve spostare verso la tassazione delle risorse non rinnovabili e dei combustibili fossili (a partire dalla carbon tax), per favorire sistemi produttivi più efficienti e sostenibili. In Europa si deve armonizzare la tassazione e trovare nuove entrate che finanzino la spesa a livello europeo. La spesa pubblica – a livello nazionale e europeo – dev’essere utilizzata per rilanciare la domanda, difendere il welfare, estendere le attività e i servizi pubblici. Una parte della spesa europea può essere finanziata da eurobond, che devono essere introdotti non solo per ristrutturare il debito, ma per finanziare la riconversione ecologica dell’economia europea, con investimenti capaci di creare occupazione e tutelare l’ambiente.
Le decisioni su che cosa si produce, come e per chi, non devono essere lasciate al “mercato”, cioè alle grandi imprese multinazionali, ma vanno indirizzate da politiche industriali e dell’innovazione – europee e nazionali – che puntino alla convergenza tra le capacità produttive dei paesi europei, a produzioni sostenibili, efficienti e con maggiori competenze dei lavoratori.
I diritti del lavoro e il welfare sono elementi costitutivi dell’Europa. Dopo decenni di politiche che hanno creato disoccupazione, precarietà e impoverimento, serve mettere al primo posto la creazione di un’occupazione stabile, di qualità, con salari più alti e la tutela dei redditi più bassi.
Un’Europa che voglia avere il consenso dei cittadini – e non solo della finanza, delle grandi imprese e del 10% di privilegiati – deve riprendere il controllo dell’economia e costruire le sue strategie comuni su queste basi, con politiche coordinate di domanda, di offerta e del lavoro che sostituiscano il Patto di stabilità e crescita.
La democrazia da praticare
Praticare la democrazia. L’Unione europea è nata con un deficit di democrazia che è diventato drammatico nella crisi attuale. Con l’erosione delle sovranità nazionali, le forme della democrazia rappresentativa, attraverso partiti e governi nazionali, sono sempre meno capaci di dare risposte ai problemi. A livello europeo, la crisi toglie legittimità alle burocrazie – Commissione e Banca centrale – che esercitano poteri senza risponderne ai cittadini, mentre il Parlamento europeo non ha ancora un ruolo adeguato. In questi decenni la società civile europea ha sviluppato movimenti sociali e pratiche di democrazia partecipativa e deliberativa – dalle mobilitazioni dei Forum sociali alle proteste degli indignados – che hanno dato ai cittadini la possibilità di essere protagonisti.
Queste esperienze hanno bisogno di una risposta istituzionale. Occorre superare il divario tra i cambiamenti economici e sociali di oggi e gli assetti istituzionali e politici che sono fermi a un’epoca passata. È il momento di trovare forme più dirette di espressione e di decisione democratica, costruendo sull’esperienza dei referendum in Italia contro la privatizzazione dell’acqua e l’energia nucleare. È forse il momento di promuovere un nuovo Forum sociale europeo in cui i movimenti che sono stati protagonisti della protesta e le reti europee portatrici di alternative possano incontrarsi, mettere a punto le proprie proposte, costruire la nuova politica europea. Si può pensare a un confronto al Parlamento europeo con le istituzioni dell’Unione e le forze politiche europee, proporre una nuova “costituente” che dia voce alla società civile e disegni l’Europa da cambiare.
A una giornata di discussione in tutta Europa che occupi le piazze, le televisioni e il web per coinvolgere tutti in una discussione sul nostro futuro. A una serie di azioni dirette e di comportamenti individuali diversi: il 5 novembre era il “Bank transfer day”, un giorno per spostare il proprio conto corrente dalle banche che sono protagoniste della speculazione finanziaria a quelle un po’ meno tossiche per l’economia.
Questa nuova ondata di partecipazione deve durare nel tempo, costruire alleanze sociali – con sindacati , precari, soggetti economici aperti al cambiamento – e creare le condizioni per la nuova politica, capace di dare voce e protagonismo a quel “99%” dei senza-potere. È questa la “correzione di rotta” che serve all’Europa, se non vuole naufragare. E al timone, questa volta, non potrà più esserci una classe dirigente – politica ed economica – che ha sbagliato quasi tutto.
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