IL CONFLITTO UCRAINO CAMBIA LA VECCHIA GLOBALIZZAZIONE
di Alfonso Gianni - Il Manifesto - 03.04.2022
Il paradosso per cui l’unica certezza è l’assenza di certezza è tornato di moda. L’ha usato anche il ministro dell’economia Daniele Franco, per giustificare l’imminente presentazione di un Def che dimezzerà le previsioni di crescita dello scorso autunno, derubricandole a una cifra fra il 2 e il 3%, con un aumento record dell’inflazione al 6,7%, mai così in alto dal 1991. Ma l’espressione può essere riferita all’intero quadro mondiale, politico ed economico. La storia punisce gli incauti. Obama definì la Russia una potenza regionale. Non era solo quella, come si vede di fronte alle conseguenze globali dell’invasione dell’Ucraina. Larry Fink, il fondatore di BlackRock, il più grande fondo di investimenti mondiale, ha scritto agli azionisti che “L’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine alla globalizzazione come l’abbiamo sperimentata negli ultimi trent’anni”. Molto dipende da come si concluderà e con che tempi la guerra ucraina. Intanto circolano varie formule dal “multipolarismo competitivo” alla “concorrenza tra blocchi”, tutte basate sullo sconvolgimento dei vecchi assetti, del resto già minati dai processi di de-globalizzazione antecedenti alla pandemia.
In questo quadro così friabile tuttavia qualche certezza si fa strada. Nessuno più osa affermare che l’incremento dell’inflazione sia congiunturale e passeggero. Nell’Eurozona l’inflazione è salita a marzo al 7,5% partendo dal già robusto 5,9% di febbraio. Le previsioni ottimistiche della Bce su un suo drastico ridimensionamento il prossimo anno – che peraltro contraddicono il preannunciato contenimento della politica monetaria espansiva – non vengono credute dai mercati finanziari che prevedono per il febbraio del 2024 non meno del 4% di inflazione. Visto i bassi tassi di crescita la prospettiva di un periodo non breve di stagflazione da probabile si è fatta certa. Negli Usa l’inflazione è quasi all’8%, ma almeno la situazione occupazionale è migliore e persino le retribuzioni sono aumentate del 5%. Si fa sempre più drammatico il dilemma per la Fed e la Bce: se intervenire rialzando i tassi per raffreddare la spinta inflazionistica con l’avvio più che probabile di un processo recessivo, oppure ampliare il rimbalzo economico, chiamato crescita, lasciando le briglie libere all’incremento dei prezzi. Nell’uno e nell’altro caso le conseguenze sociali sono pesanti. Ma non nello stesso modo. I falchi del ritorno all’austerity sono pronti ad aggredire le colombe. E sarebbe un nuovo disastro devastante, un’implosione per l’Europa. Ci vorrebbe una visione diversamente orientata dal punto di vista degli interessi di classe da difendere e di medio-lungo periodo per riuscire a risolvere il problema. Ma questa non si vede, seppure per ragioni e con caratteri diversi, né sull’uno né sull’altro versante dell’Atlantico. Le conseguenze del conflitto bellico si fanno sentire anche sul lato asiatico del globo. In Cina l’indice manifatturiero delle piccole imprese private, più sensibile agli smottamenti, si colloca sotto quota 50, lo spartiacque tra crescita e recessione. Infatti Morgan Stanley taglia le stime della crescita cinese per l’anno in corso di un punto rispetto al target ufficiale (dal 5,5% al 4,6%). Il rallentamento dell’economia mondiale e gli effetti della guerra ucraina riducono le esportazioni cinesi, mentre i flussi di capitale invertono la rotta alla ricerca di porti più sicuri. In Giappone si rileva un calo di fiducia che potrebbe preludere a una riduzione del Pil che pareva in leggera ripresa. In questa situazione si riaccende la guerra delle valute. Anche qui le cose non saranno più come prima. La creazione del denaro dal nulla che sta alla base delle politiche di espansione monetaria non è detto che sopravviva alla crisi. Lo indica già la mossa sul rublo avanzata da Putin, che non va presa sottogamba. L’intenzione ritorsiva russa è evidente ed è legata alla necessità urgente di sostenere il rublo. Comunque vada, ciò non esaurisce il significato e i possibili effetti della manovra. Infatti, come osservato da alcuni economisti, per acquistare gas bisogna procurarsi rubli, quindi chiederli a una banca russa che a sua volta potrebbe avere la necessità di richiederli alla banca centrale. Il che comporterebbe non un semplice cambio tra divise monetarie, ma un prestito in rubli da rimborsare necessariamente attraverso l’esportazione di beni in Russia ricevendo rubli in pagamento. La divisa russa diverrebbe moneta per lo scambio, con un “sottostante” rappresentato da fonti energetiche fossili. Il tutto comporterebbe un indebolimento dell’euro e della Ue – il che di per sè non dispiacerebbe affatto agli Usa -, annullerebbe l’effetto delle sanzioni economiche, riproporrebbe in termini rinnovati il superamento della centralità del dollaro. Ci vorrebbe un novello Keynes per sbrogliare la matassa. In assenza dovremmo tutti puntare su un esito positivo della trattativa di pace. Non altrimenti la Ue potrebbe contribuire a un nuovo ordine mondiale, con un ruolo autonomo.
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