di Maria Pellegrini.

Sulle permanenti fratture tra ricchi e poveri il rapporto dell’Ong Oxfam, una confederazione internazionale di organizzazioni non profit, mostra come le disuguaglianze economiche e sociali si stiano ampliando nel nostro pianeta: il numero di miliardari è aumentato a ritmo impressionante: uno ogni due giorni. Non di meno, si allarga sempre di più la forbice tra l’1% dei ricchi che possiede più del 99% restante. Nell’attuale sistema economico, il costante incremento dei profitti di azionisti e top manager corrisponde a un peggioramento altrettanto costante dei salari e delle condizioni dei lavoratori.

Questo annuncio getta nello sconcerto e risulta tanto più sconfortante se ripercorrendo le vicende storiche di tutti i popoli troviamo che il divario economico tra ricchi e poveri è una nota costante. Affiorano alla nostra memoria le lotte tra patrizi e plebei della storia romana, nate al tempo della monarchia quando il potere è saldamente nelle mani di pochi.

Il conflitto tra le due classi sociali si protrae a lungo. I patrizi sono soprattutto grandi proprietari terrieri, appartenenti ad antiche famiglie, il loro nome patricii dal latino pater, li indica discendenti dei primi senatori nominati da Romolo. L’autorità di alcune famiglie è basata sull’antichità e con il tempo sulla propria affermazione sociale ed economica e il rafforzamento dei propri privilegi di casta. I plebei sono braccianti, artigiani, piccoli produttori, dediti ai mestieri più umili, sottoposti all’arbitrio dei patrizi che hanno il controllo del potere religioso e del diritto. «Sui sette colli i patrizi avevano messo la loro Curia per il senato, i loro templi per gli dei, qualche agiata casa civile. Ma arrampicate ai pendii, nell’ombra delle convalli, tra la melma della riva fluviale, le capanne di graticcio e di paglia accoglievano i plebei»: realistica descrizione che cito da L’essenza del romanesimo di Aldo Ferrabino. La maggioranza dei plebei è nullatenente e costituita da uomini che per sopravvivere sono costretti a diventare “clienti” di un signore patrizio al quale offrono i loro servizi ricevendone in cambio protezione e sostegno economico.

Dopo la cacciata dei re (fissata secondo tradizione al 509 a. C.) e l’istaurazione della repubblica, il nuovo ordinamento politico vede il predominio del patriziato che ha creato uno stato di cose atto a mantenere al proprio ceto sociale quei privilegi dai quali sono esclusi tutti i plebei. Il Senato è formato da esponenti dell’aristocrazia, i consoli e le maggiori cariche dello stato sono in mano ai patrizi che con le conquiste aumentano sempre di più le loro ricchezze, anche i territori tolti ai nemici sono riservati a loro. Agli inizi del V secolo la repubblica romana deve affrontare una lunga serie di guerre con le popolazioni vicine: Latini, Vei, Equi, Volsci, guerre che compromettono seriamente la sua prosperità economica. I ceti che più soffrono sono quelli più poveri, «un formicaio famelico e inquieto che conduce una vita simile a quella degli schiavi» li definisce Ferrabino, ma anche gli artigiani e i commercianti che risentono della stagnazione degli affari. Di giorno in giorno si fanno più tristi le condizioni economiche di gran parte dei plebei. Quasi ogni anno i cittadini atti alle armi sono reclutati per formare l’esercito che deve marciare in guerra contro i popoli vicini, perciò i campi trascurati o abbandonati rendono misere le condizioni delle famiglie. Il disagio economico è tale che molti diventano debitori dei patrizi e cadono in loro schiavitù. Per ottenere la liberazione dai debiti i plebei passano dalla renitenza alla leva alla secessione vera e propria, cioè all’uscita di tutti dalla città, che non sentono propria, accampandosi sul Monte Sacro o sull’Aventino. Il contrasto deriva anche dalla mancanza di fondamentali diritti giuridici. I plebei economicamente più forti vogliono conquistarsi il diritto di accedere alle magistrature riservate solo ai patrizi e il movimento di rivolta contro il patriziato inizia proprio dai plebei più benestanti che lottano per l’uguaglianza politica più che economica. A questo scopo trascinano con sé la massa dei miserabili e dei piccoli proprietari indebitati ed esasperati dalla miseria che aspirano invece a benefici economici e alla cancellazione del debito.

Sia pur lentamente i plebei riescono a far riconoscere alcuni loro diritti. Ottengono l’istituzione di due magistrati, chiamati “tribuni della plebe”, ai quali i patrizi garantiscono la sacrosanctitas, cioè l’inviolabilità della loro persona, lo ius auxili, cioè la facoltà di intervenire in aiuto di qualche plebeo minacciato dai magistrati patrizi, lo ius intercessionis, cioè il diritto di veto a ogni legge che ritengano nociva ai plebei, e lo ius coercitionis, cioè il diritto di agire in sede penale contro chiunque contravvenga alle leggi stabilite, chiamate leges sacratae (leggi sacre) perché legate al giuramento di farle rispettare.

La grande vittoria dei plebei si ha nel 451 quando è affrontato il problema della codificazione scritta delle leggi, sino allora basate sulle consuetudini tradizionali e tramandate oralmente dai magistrati patrizi. La pressione esercitata dalla plebe induce il patriziato a istituire una commissione di dieci persone (Decemviri), incaricata di regolarizzare e promulgare le leggi, cioè fondare giuridicamente lo Stato. Nel corso degli anni 451 e 450 a. C. ad opera dei decemviri legibus scribundis, dieci uomini che hanno funzione di organo politico costituente con pieni poteri, sono compilate le XII Tavole delle leggi che costituiscono il più antico codice di diritto romano; incise su tavolette di bronzo (o di legno secondo alcuni) ed esposte nel Foro romano rimangono in vigore per quasi mille anni pur con numerose modifiche. Sono distrutte dai Galli durante il sacco di Roma nel 390 a.C., ma una parte del loro contenuto ci è pervenuta grazie ai riferimenti e alle citazioni nella letteratura latina successiva. Nonostante siano improntate a uno spirito di rigido conservatorismo, esse sono una conquista per i plebei, perché le leggi fissate per iscritto evitano l’arbitrio dei giudici dei patrizi, prima unici depositari del diritto spesso interpretato secondo i loro interessi.

Si ritiene che ad ispirare la prima codificazione del diritto romano sia stata la legislazione di Solone, uomo politico ateniese del VII secolo a. C. L’influsso greco sicuramente c’è stato, ma lo spirito nazionalistico spinge a escludere qualsiasi influenza greca come testimoniano le orgogliose parole di Cicerone nel De Republica: «Il piccolo testo delle XII Tavole, a parer mio, supera da solo le biblioteche di tutti i filosofi. Se si confrontano le fonti e i principi basilari delle leggi, capirete assai felicemente quanto i nostri antenati abbiano superato le altre genti. […] È sorprendente infatti quanto ogni altro diritto civile al di fuori del nostro sia rozzo e quasi ridicolo». L’ammirazione di Cicerone è basata anche sulla considerazione che la costituzione greca è il frutto dell’ingegno di un solo uomo e non il risultato di una collaborazione costata tempo e compromessi come quella romana. Senza dubbio le leggi delle XII tavole non sono state compilate tutte in una volta, ma sono il prodotto di un lungo sviluppo storico. Anche dopo il V secolo a. C. saranno apportate delle aggiunte ma il nucleo fondamentale rispecchia l’epoca dei primi anni della repubblica come dimostra l’arcaismo della lingua e le condizioni di vita rappresentate.

Per i romani le leggi delle XII Tavole definite da Livio, storico d’età augustea, «fonte di tutto il diritto privato e pubblico», sono un patrimonio culturale fondamentale, quasi un testo sacro tanto che, all’età di Cicerone - ben quattro secoli dopo la loro stesura - sono imparate a memoria nelle scuole. Non possediamo un testo integro della legislazione ma solo frammenti provenienti da fonti successive, che spesso li riportano in un latino che non è quello del V secolo a.C. È andata inoltre perduta per sempre la sequenza delle varie norme. Quello che resta tuttavia rappresenta un documento di eccezionale importanza su alcuni aspetti della società romana in età arcaica: il sistema ereditario, l’importanza della proprietà privata e del mantenimento dell’asse patrimoniale, l’esclusione delle donne dal diritto ereditario, la patria potestà che rende i figli sottoposti totalmente alla volontà del padre, l’esistenza della legge del taglione, la regolazione dei confini delle proprietà. Le norme, come vedremo da qualche esempio, sono scritte con periodi brevi, spesso manca il soggetto, c’è l’uso dell’imperativo; lo stile sentenzioso e solenne è quello delle prescrizioni sacrali. Resta comunque il primo tentativo di prosa latina.

Non è qui il caso di riprodurre il testo di tutte le leggi che si può trovare anche in rete o in biblioteca si può consultare il libro di Salvatore Riccobono, Fontes iuris Romani anteiustiniani, vol. 1, Firenze 1942. Ne citiamo alcune particolarmente interessanti:

Le disposizioni riguardanti i debitori, sempre più numerosi tra la classe povera, sono davvero spietate.

-In caso del riconoscimento del debito in giudizio o di condanna pronunziata, vi saranno trenta giorni fissati dalla legge (per l’adempimento).

-Dopo tale termine abbia luogo la cattura (del debitore). Venga condotto avanti al magistrato.

-Se non adempie al giudicato o se nessuno dà garanzia per lui avanti al magistrato, il creditore lo porti con sé e lo leghi con corregge o ceppi di quindici libbre, non più pesanti, ma se vuole di minor peso.

-Il debitore è poi condotto per tre volte al mercato, perché qualcuno lo riscatti o lo acquisti come schiavo. Se questo non accade, può essere ucciso, e se i creditori sono più di uno, il suo corpo sia squartato.

Come in tutte le società arcaiche, alcuni risarcimenti sono effettuati attraverso la pratica del taglione (la legge fissa tuttavia i limiti): se qualcuno infligge una mutilazione a un altro, quest’ultimo può infliggergli la stessa mutilazione, ma solo se il colpevole si rifiuta d’indennizzarlo:

-Se uno rompe ad un altro un membro e non viene ad un accordo con lui, subisca la pena del taglione.

-Chi con la mano o con un bastone ha rotto un osso di un libero paghi una pena di trecento (assi), se di uno schiavo di centocinquanta (assi).

-Se uno ha arrecato una lesione (meno grave delle precedenti) subisca la pena di venticinque assi.

Il potere del padre è assoluto, può mettere a morte o vendere come schiavo il proprio figlio. In questo caso se poi il padrone lo libera, il figlio torna sotto il potere del padre che può venderlo ancora, ma con una limitazione espressa da questa legge:

-Se il padre avrà posto in vendita il figlio per tre volte, il figlio sia libero dal padre.

Un ruolo importante avevano le disposizioni testamentarie. Dimostrano la prevalenza dei parenti di parte paterna. Tutta la cultura romana è caratterizzata da un sistema di parentela di tipo patrilineare. Il figlio alla morte del padre acquisisce tutte le caratteristiche della condizione sociale del genitore. Ma il padre può decidere del suo patrimonio come vuole:

-Se il pater familias ha disposto circa il proprio danaro e circa la tutela delle sue cose, ciò abbia valore legale.

Sono presenti in questa legislazione molti aspetti della vita civile come le norme concernenti i funerali: la sepoltura è vietata in città per motivi magico-religiosi e igienici. Inoltre per dare dignità al dolore è abolito l’uso delle prefiche, è vietato il lusso post mortem, ponendo nelle tombe ornamenti d’oro:

-Non si seppellisca e non si cremi un defunto entro la città.

-Le donne non si graffino le guance, né traggano lamenti.

-Non si metta oro (nelle tombe) Ma se qualcuno ha i denti legati in oro e lo si seppellirà o cremerà con quell’oro, non sarà contro la legge.

La legislazione sulla proprietà privata contempla il principio dell’inviolabilità del domicilio. Il derubato può uccidere il ladro se lo acciuffa di notte (ricorda una legge proposta di recente!) ma anche di giorno se ci sono testimoni chiamati in aiuto, e con alcune eccezioni:

- Se alcuno ha commesso un furto di notte e se il ladro è stato ucciso, l'uccisione sia legittima.

-Di giorno [è legittima l'uccisione] se il ladro si difende con un'arma e [il derubato] ha lanciato grida di aiuto.

- Per gli altri ladri colti in flagrante, i decemviri stabilirono che se essi erano liberi venissero fustigati e aggiudicati al derubato [come schiavi]; se erano schiavi che venissero prima fustigati e poi gettati dalla rupe [Tarpeia]; invece i giovani impuberi, a giudizio del pretore, venivano fustigati e dovevano risarcire il danno.

Molti storici sono concordi nel considerare le ultime due leggi, la XI e la XII un’aggiunta successiva realizzata da una seconda commissione nel 450 perché sono molto crudeli, Cicerone le indica come “disumane”, infatti mantengono il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei e la servitù per debiti. In realtà queste prime leggi rappresentano la codificazione del diritto privato romano nel periodo in cui l’oligarchia patrizia domina quasi incontrastata. L’impostazione filoaristocratica si manifesta proprio nel divieto di matrimonio fra le due classi sociali, divieto che è probabilmente un tentativo di mantenere i patrizi come un gruppo chiuso nel momento in cui il loro potere si sente minacciato. Difatti più che una forza rappresenta una loro debolezza e prova che già in quel periodo esistono plebei sufficientemente ricchi e autorevoli da poter aspirare a un matrimonio patrizio. Tale divieto durerà poco, infatti con una legge sarà riconosciuto ai plebei lo ius connubi con i patrizi, nonostante una violenta opposizione da parte degli aristocratici che in essa vedono un sovvertimento sociale.

Stupisce in proposito leggere nella storia romana di Livio (Ab urbe condita) orribili parole di discriminazione sociale: «L’accordo dei matrimoni misti è un mescolare il sangue delle famiglie aristocratiche, uno sconvolgimento delle cose umane e divine. Così i figli nascendo non sapranno qual è il loro sangue, quale il loro culto; saranno per metà patrizi e per metà plebei, senza trovare accordo neppure dentro di loro».

La lotta per ottenere maggiore uguaglianza tra le due classi prosegue con alterne vicende. Nel 366 a. C. c’è l’ammissione dei plebei al consolato e di conseguenza alle altre cariche. Rimangono nelle mani del patriziato le cariche sacerdotali, ma nel 300 anche i plebei possono entrare a far parte del Collegio dei Pontefici e degli Auguri, che influiscono non poco nelle vicende politiche dello Stato. Altra vittoria importante ottenuta qualche anno prima è l’abolizione della schiavitù originata dal debito.

A distanza di secoli il divario tra classi sociali esiste ancora in Europa e in tutto il pianeta, e spesso si alzano muri reali o simbolici per dividere i ricchi dai poveri. “Viviamo nel migliore dei mondi possibili”, sosteneva Leibniz, ma oggi, a tre secoli di distanza, non è possibile affermarlo.

Nota: nell’immagine Bottega di un macellaio (bassorilievo proveniente da Ostia Antica). Il macellaio era uno dei mestieri della plebe romana.

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