Di Franco Calistri

(tratto da Micropolis di dicembre 2010)


“La cultura non si mangia e con la Divina Commedia non ci si riempie la pancia”, ha di recente sentenziato l’ineffabile ministro Giulio Tremonti a giustificazione della sua dissennata politica di tagli. Di cultura come fatto di conoscenza, creatività, ricerca, innovazione, partecipazione, riconoscimento, identità e sviluppo (perché la cultura è tutte queste cose messe insieme, checché ne pensi l’impareggiabile ministro) si è discusso a Spoleto in occasione della Conferenza regionale della cultura, dal 9 all’11 dicembre. Nella interessante relazione introduttiva l’assessore Fabrizio Bracco ha ricordato come Kant, nella Critica del Giudizio, spiegasse che ciò che viene indicato come cultura è in realtà un continuum al cui interno è possibile distinguere tre strati: la cultura delle abilità da apprendere, perfezionare e tramandare perché necessarie alla sopravvivenza; la cultura delle discipline e delle tecniche di produzione e, infine, la cultura delle arti, delle lettere, delle scienze, della filosofia, la “meno necessaria” ai fini immediati del sopravvivere, ma nella cui elaborazione e fruizione è riposto il fine supremo di una vita umana degna d’essere vissuta. E di questo dovevano essere ben consapevoli i nostri padri costituenti, quando individuarono la cultura come bene costituzionalmente protetto affidando alla Repubblica il compito della sua promozione e sviluppo, come recita l’articolo 9 della Carta (sia detto per inciso lo stesso letto dal maestro Daniel Barenboim alla prima della Scala). Quindi, innanzitutto, la cultura come diritto di cittadinanza che, attraverso la formazione di cittadini consapevoli, favorisce integrazione e senso di appartenenza, rafforza processi di democrazia e partecipazione.
Su questa linea nel nostro Paese, durante gli anni Sessanta e Settanta, si è venuta caratterizzando una strategia di politica culturale che faceva perno sul territorio e sul ruolo e funzione degli enti locali. In Umbria si costituì l’Audac (Associazione umbra per il decentramento artistico e culturale), vennero realizzati il progetto di recupero dei teatri storici, il sistema bibliotecario regionale e la messa in rete dei musei regionali. Sempre in quegli anni nacquero nuovi festival ed eventi culturali fortemente radicati nel territorio, si pensi alle prime stagioni di Umbria Jazz, e si sviluppò anche una certa attenzione, poi smarrita, nei confronti dell’arte contemporanea. In tutto questo l’istituzione pubblica, l’ente locale svolgeva un ruolo centrale, di promozione, di organizzazione e di sostegno finanziario.
Questo processo di costruzione della cultura come parte integrante del generale complesso dei diritti di cittadinanza a partire dagli anni Novanta ha subito una pesante battuta d’arresto. Le cause, si è ragionato a Spoleto, vanno ricercate da un lato nell’affermarsi, anche in campo culturale, dell’ideologia liberista del “meno stato, più mercato” con il progressivo ridimensionamento dell’intervento pubblico anche in campo culturale, dall’altro nel mutamento dei modelli di consumo culturale, a sua volta conseguenza di una trasformazione della struttura sociale del Paese. Ne consegue, come sottolineato con forza dall’assessore Bracco, che dietro i tagli dei finanziamenti alla cultura operati da questo Governo non c’è soltanto una questione finanziaria, un problema di risparmi, ma una scelta precisa, coerente con un disegno politico generale di continuo abbassamento della soglia dei diritti di cittadinanza - dalla salute al lavoro, dall’istruzione alla cultura - e di restringimento dei luoghi della democrazia e della partecipazione. Non è un caso che l’ignoranza, come diceva il fondatore del moderno welfare state, William Beveridge, “è un’erbaccia che solo i dittatori possono coltivare”. Quindi la battaglia per il diritto alla cultura è in primo luogo una battaglia di democrazia e civiltà. E non è un caso che attorno a tale battaglia si stia sviluppando un movimento che va al di là degli schieramenti politici consolidati.
Tuttavia c’è anche un altro aspetto. Non è assolutamente vero che investire in cultura sia uno spreco di risorse. Anzi, stando ai numeri, pare proprio il contrario, se è vero che 1 euro investito in cultura produce reddito tra i 4 e gli 8 euro. Il professor Bracalente, intervenendo nella prima giornata della conferenza, ha riportato i dati relativi ad una ricerca svolta sulle ricadute economiche di due importanti eventi culturali realizzati in Umbria: la mostra del Pinturicchio ed Umbria Jazz edizione 2008. Per la prima, che è durata molto a lungo, il reddito prodotto è stato di ben sette volte la spesa di investimento; nel caso di UJ il ritorno economico è stato pari a tre volte l’investimento iniziale. Nel complesso delle due manifestazioni si è trattato di circa 11 milioni euro, l’equivalente del fatturato annuo di un’azienda manifatturiera di 3/400 dipendenti. Va però tenuto conto che, nonostante il grande successo di pubblico, la somma dei contributi di sponsor privati e dei ricavi dalla vendita dei biglietti ha coperto solo il 70% del fabbisogno di investimento iniziale. Il che sta a significare che, a differenza di altri settori, senza il sostegno pubblico è praticamente impossibile realizzare un evento culturale. Altro che “meno stato e più mercato”. Nel caso della cultura senza l’intervento pubblico il mercato non esiste, fallisce.
Degli 11 milioni di euro di reddito prodotti dalle due manifestazioni non tutto è però restato in Umbria, più o meno la metà è finito altrove. E questo mette in luce un altro problema che riguarda specificamente l’Umbria ed il suo modello di sviluppo. Da tempo si ragiona sulla necessità di far recuperare competitività al sistema regionale, battendo strade diverse da quelle tradizionali, in particolare puntando alla valorizzazione di quella che, genericamente, viene definita come risorsa Umbria, di cui la cultura è parte a pieno titolo. Valorizzare significa investire e, nel caso specifico, promuovere la realizzazione di sistemi di servizi di terziario avanzato in grado di gestire ed implementare processi di valorizzazione. Il fatto che nel caso dei due grandi eventi culturali analizzati un 40% del reddito prodotto, che non è cosa di poco conto, vada fuori regione sta a significare che per la gestione complessiva di questi eventi (pensiamo all’allestimento degli stessi, o alla campagna pubblicitaria, al design, e così via) l’Umbria si rivolge, o è costretta rivolgersi, all’esterno. A causa di una carenza di sevizi avanzati una quota consistente di reddito, attivato grazie ad investimenti pubblici locali, non resta in Umbria ma prende altre strade. Ed è qui che sta la sfida per le politiche culturali della regione, che poi rappresentano buona parte dell’economia delle città umbre.
Per cui se da un lato, come riaffermato nelle conclusioni della conferenza, è necessario mettere a sistema il patrimonio culturale di cui l’Umbria si è dotata in questi anni (un’indagine Aur del 2008 individuava 208 emergenze culturali, tra musei, siti archeologici, aree monumentali, sparsi nel territorio regionale), razionalizzando l’esistente, eliminando duplicazioni e sovrapposizioni di eventi, figlie di un campanilismo ormai difficile da sostenere, dall’altro si tratta, soprattutto, di impegnarsi per lo sviluppo di sistemi di servizi avanzati, di imprese culturali in grado non solo di gestire la valorizzazione dell’esistente ma di essere loro stesse momento di attrazione verso l’esterno per la produzione di eventi culturali. Negli anni Settanta l’Umbria presentava una grande concentrazione di attività manifatturiere nel campo della moda e con buona probabilità sarebbe potuta diventare uno dei centri europei della settore se accanto alla abilità manifatturiera ci fosse stato un investimento in servizi avanzati. Questo investimento, per mancanza di lungimiranza, non ci fu e di lì a poco il comparto moda, per un complesso di vicende, scomparve. Ci auguriamo che nel caso della cultura ci sia una maggiore capacità di vedere oltre la punta del naso.
 

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