Coalizione unitaria a sinistra, il tempo stringe.
L’ultima sconfitta elettorale rischia di condannare la sinistra all’irrilevanza permanente. La comprensione delle cause del declino non è difficile e però bisogna nominarle con nettezza per ripartire. C’è un vizio originario imputabile ala stagione di Veltroni. Egli progettò un partito del leader senza organizzazione (dai circoli ai gazebo), con una carenza di identità («mai stato comunista», cancellò il volto di Togliatti, e non solo, dai padri nobili), privo di radicamento sociale (candidatura del falco padronale Calearo, in omaggio all’archiviazione del conflitto di classe proprio mentre scoppiava la grande contrazione economica del 2007). Forte fu poi l’impronta veltroniana nello sterilizzare la sinistra radicale in nome della vocazione maggioritaria del Pd. L’espulsione delle frange più radicali dalle istituzioni produsse un vuoto a sinistra che poi sarà occupato dal M5S.
La pregiudiziale a sinistra fu in parte tagliata da Bersani che promosse con Sel il fronte Italia Bene comune (una più ampia convergenza fu bloccata dalla reazione di molti parlamentari dell’area veltroniana ostili all’alleanza con i gruppi ancora comunisti). Questa alleanza, anche dopo lo strappo della foto di Vasto, fu percepita dall’establishment come“neosocialdemocratica” e troppo sbilanciata a sinistra.
E, anche per questo timore, dinanzi alla crisi del berlusconismo si preferì l’invenzione incerta del governo tecnico e non il voto a vincitore annunciato.
Il passaggio al potere del tecnico, che indebolì irreversibilmente la sinistra (altro che rigore a porta vuota sbagliato da un capo senza carisma), alimentò la rapida ascesa del M5S. La coalizione vinse solo grazie alla legge elettorale. E però, dopo il voto, un altro fendente, l’incarico dimezzato conferito a Bersani che mai ha potuto presentarsi in aula anche per le resistenze alla sua “irresponsabile” apertura al M5S, accelerò la disgregazione del Pd, vide l’accantonamento del segretario ostile al governo di larghe intese con Fi, e l’ascesa di Renzi.
Con il suo partito del leader, il rottamatore ha accumulato responsabilità enormi nel disastro. E’ raro trovare nella storia dei partiti altri capi che, in pochi anni, abbiano distrutto alla radice la propria organizzazione senza trovare ostacoli. Da corpo estraneo è diventato corpo contundente. Ha spezzato il legame con il mondo del lavoro (Jobs Act, cancellazione dell’articolo 18, guerra per la disintermediazione, precarizzazione come destino crescente), ha travolto il rapporto con la scuola (la liturgia del preside-capo e la trovata della buona scuola), ha urtato contro le sensibilità ambientali (invito a disertare il referendum sulle trivellazioni), ha spezzato la cultura della Costituzione (con le riforme imposte con voto di fiducia e culminate nella scenografia del plebiscito per l’acclamazione del capo).
Renzi ha cercato la salvezza nella via del populismo dall’alto inscenando battaglie da operetta contro i burocrati di Bruxelles (ha accantonato la bandiera europea dalle riprese ufficiali), per depistare dalle grane dell’Etruria ha messo sotto processo i vertici della Banca d’Italia convocando surreali commissioni parlamentari di inchiesta, ha giocato la carta della rivolta contro la casta proseguendo il cammino di Letta per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Ha celebrato un referendum sulla sua persona e, dopo averlo perso, non ha mantenuto la promessa di abbandonare la scena.
Dopo la batosta di marzo, non ha lasciato davvero lo scettro, ha ordinato un ulteriore atto distruttivo: rifiuto pregiudiziale di ogni contatto con il M5S per la creazione del nuovo governo. La sua linea demolitrice suggerisce di aspettare, con i pop corn in mano, che il governo dei peggiori vada a sbattere. Con questi gesti di pura follia ha regalato gratis i pentastellati (che non hanno esitato un attimo al gran salto) alla destra radicale.
La crisi del Pd a impronta renziana era una condizione necessaria per il riavvio di una politica di convergenza a sinistra. E però, senza la capacità politica di seppellire un cadavere, luoghi di discussione per una svolta, la distruzione del Nazareno non trova sbocchi positivi e anzi si inserisce essa stessa nel processo più generale di decomposizione democratica. Il tempo è una risorsa scarsa. Bisogna sfruttare l’accelerazione, senza compiere altri passi falsi.
La sinistra non rinasce se non è percepita come portatrice di un progetto maggioritario. I cantieri nel suo campo plurale possono essere anche diversi, le persistenze organizzative vanno riconosciute, ma l’approdo a una coalizione unitaria che aspira alla conquista del governo deve essere la prospettiva comune. Dalle ceneri del Pd, a Leu, ai comunisti, alle culture ecologiste deve maturare un processo per la costruzione di una soggettività in grado non solo di rispondere all’emergenza democratico-costituzionale che si delinea con nettezza ma anche di ridefinire uno spazio, un’organizzazione e una cultura che manca dall’89.
Intrecciare la contingenza (sfaldamento democratico) e il progetto (costruzione della rappresentanza politica dei ceti subalterni) significa ridefinire il contorno del partito del lavoro, con il coinvolgimento indispensabile del sindacato del conflitto accanto ad altre esperienze, azioni di lotta. Senza un ruolo attivo del sindacato la sinistra non dispone oggi di forze sufficienti per rialzarsi. Protagonista delle battaglie per i diritti, la Costituzione, il lavoro, la scuola pubblica, l’ambiente, la sanità il sindacato può assicurare una regia per la mobilitazione di esperienze civiche come quelle avviate a Bologna e altre città, per raccogliere momenti di conflitto delle generazioni precarie, per saldare le sensibilità per le nuove libertà civili.
Interessi sociali e diritti non sono alternativi: non fu il semiasiatico Lenin, in un batter d’occhio, a introdurre un nuovo diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, la libertà sessuale, lo jus soli, il diritto di voto agli stranieri? La sinistra ha perso non perché ha pensato troppo ai diritti ma perché ha rimosso il problema della soggettività politica del lavoro oggi. Il suo deficit non è di avere il sostegno dei ceti medi più acculturati e cosmopolitici (meno male che c’è questo fronte di resistenza dinanzi all’oscurantismo del governo giallo-verde) ma di non avere più il consenso dei lavoratori a causa della rinuncia a pensare una critica del capitalismo post-moderno.
articolo tratto da Il Manifesto
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