Che il virus non contagi la democrazia.
di Vincenzo Vita.
In questi giorni di emergenza da Covid-19 si stanno restringendo diversi diritti, a cominciare da quello della libertà di movimento. Del resto, l’emergenza sanitaria è talmente grave (e inedita) da rendere inevitabile la compressione di talune libertà. Tuttavia, ogni limitazione deve essere limitata, transitoria e –va aggiunto- saldamente controllata, nel suo perimetro e nella sua invadenza, dalla sfera pubblica.
La questione diviene particolarmente delicata e per ciò che concerne la circolazione e il trattamento dei dati personali. Il Garante Antonello Soro si è mosso scrupolosamente fin dallo scorso febbraio, indicando i criteri generali alla Protezione civile. Si tratta di combinare due diritti costituzionali altrettanto cruciali: la salute e la riservatezza. Come può accadere in casi omologhi, in simili situazione è inevitabile scegliere il diritto prevalente. E la vita di un essere umano prevale sempre. Tuttavia, il tema della raccolta delle tracce che ognuno di noi lascia in giro magari senza esserne cosciente (vedi il caso limite della Corea del Sud in merito alla tracciabilità degli spostamenti) è particolarmente serio. Perché l’identità digitale è parte integrante della cittadinanza e della coscienza.
E’ indispensabile, quindi, uscire da una stretta polarità dialettica, che metta in contrasto elementi ugualmente fondamentali per il tessuto civile. Serve una via di congiunzione garantita dalle istituzioni e dalla sfera statuale. Guai ad appaltare i servizi di condivisione dei dati, pur per finalità nobili, ai soliti Over The Top: da Google, ad Amazon, a Facebook in poi. Ne ha scritto su il manifesto dello scorso giovedì 12 marzo Michele Mezza e ci ha ragionato sul sito del “Centro per la riforma dello Stato” il direttore di quest’ultimo Giulio De Petra. Ci sentiremmo più tutelati ora e si correggerebbe la disastrosa linea privatistica che ha condizionato le politiche digitali (imposte dalla televisione) negli ultimi venticinque anni, contribuendo al disastro italiano. Diversi commentatori in questo periodo sembrano riscoprire i difetti teorici e pratici degli approcci liberisti, piangendo sull’assenza in numerose zone della banda larga e di una seria rete infrastrutturale aperta e “bene comune”. Ne risentono i pur buoni propositi sull’educazione a distanza e sullo smart working, a prescindere dalle sacrosante problematiche pedagogiche e sindacali.
E’ il caso di rimettere il naso nelle modeste esperienze delle “Agende digitali” e di coordinare meglio (anzi, coordinare) i differenti centri decisionali, che già hanno fatto spendere cifre meglio utilizzabili per comprare i software proprietari di Microsoft, invece di utilizzare i gratuiti programmi free.
Insomma, il dramma è anche l’occasione per cambiare radicalmente rotta, rendendoci indipendenti dagli oligarchi della rete, usi a commerciare i dati con obiettivi meramente commerciali o direttamente politici. La repentina discesa dei consensi nelle primarie democratiche degli Stati Uniti di Elizabeth Warren, che ha più volte proposto lo “spezzatino” di Facebook, troppo grande e prepotente per rimanere in mani così ristrette, fa pensare. Così pervasivi i social? Certamente sì.
L’economista controcorrente Mariana Mazzucato scrive chiaramente (“Il valore di tutto”, Bari-Roma, Laterza, 2018, p.239) che “…il punto critico è di assicurare che la proprietà e la gestione dei dati rimangano collettivi come la loro origine: il pubblico…”.
Un’ipotesi. Antonello Soro dispone a normativa vigente di rilevanti funzioni. E se gli fossero conferiti poteri straordinari?
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