di Fausto Bertinotti

Non si vede l’alba nella sinistra politica del paese. Neppure quando è un accadimento che pretenderebbe una reazione almeno per segnalarne l'esistenza in vita. Eppure, è accaduto qualcosa che sembrerebbe proporre un'insorgenza di pensiero e di azione. Sono state aperte delle indagini su presunte tangenti arrivate da due paesi extraeuropei, il Qatar e il Marocco, per influenzare la politica di Bruxelles. Inutile agire la presunzione di innocenza, sebbene necessaria, per le personalità politiche e istituzionali investite dell'inchiesta, mentre il consueto coro che vuole che la giustizia faccia il suo corso risulta un'invocazione svuotata di ogni fondamento. Il processo reale è intanto quello mediatico, quello che vede quotidianamente protagonisti le televisioni, i grandi giornali che vorrebbero far vivere un permanente tribunale del popolo senza popolo, il tribunale dell'opinione suscitata. Mai citazione è più propria, è la società dello spettacolo. La politica è sfidata nella sua capacità di visione, di analisi sulle tendenze di fondo della società, della vita democratica. Eppure è capace solo di balbettare. Dovrebbe avere imparato, dovrebbe sapere che, nello spazio pubblico, la morale è politica. È molto citata l'intervista a Eugenio Scalfari di Enrico Berlinguer che pure, allora comprensibilmente, fu molto discussa nello stesso Pci, ma sembra che proprio l'essenziale di essa, venga trascurato. L'essenziale riguardava proprio il degrado della politica. Quel che veniva denunciato era «l'occupazione del potere di clientele, di programmi vaghi, di scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, di sentimenti e passione civile zero». Allora, e ora? Nulla di imprevedibile è accaduto. Un autorevole commentatore - certo non prevenuto nei confronti della sinistra politica - Ezio Mauro, ha scritto. «la miscela esplosiva era già pronta per la sinistra italiana: perdita di consenso unito a perdita di identità, col risultato evidente di una perdita di orizzonti. Chi cercava il detonatore lo ha infine trovato a Bruxelles».

Ora il campo scosso dovrebbe poter apparire in tutta la sua ampiezza, dalla crisi della democrazia rappresentativa a quella della sinistra politica, fino ai profili politico-culturali delle sue classi dirigenti. A ognuno di questi si aggiungono altri fattori specifici di crisi. La democrazia rappresentativa vede disvelato l'inquinamento prodotto dal sistema delle lobbies. Esso ha preteso di essere considerato fisiologico quando, invece, è una profonda alterazione della democrazia rappresentativa nel momento in cui questa fa entrare nei suoi processi decisionali soggetti privi di trasparenza e di democrazia interna. Questi si sono affermati con l'uscita di scena - o, quantomeno, con la loro drastica perdita di influenza - dei soggetti nei quali era organizzata la società civile. Si è trattato di un processo per nulla innocente e per niente spontaneo. C'è stato prima l'attacco ai sindacati e ai partiti. Essi, presenti sia sulla scena sociale che su quella politica, concorrevano, con la partecipazione e il conflitto, al formarsi delle decisioni pubbliche. Le loro scelte erano note, costruite, per quanto con i limiti denunciati, attraverso processi di partecipazione dei loro aderenti, erano democratiche. Non senza loro responsabilità, sono, queste organizzazioni, messe in un angolo. Sotto la definizione meno impegnativa e solenne come quella che aveva voluto il Costituente, hanno, nella fase conclusiva del dopoguerra, vissuto sotto la definizione di “corpi intermedi”. La tenaglia costituita, da un lato, dalla vittoria del mercato che ha invaso lo spazio pubblico e, dall’altro, del decisionismo che ha invaso i luoghi della rappresentanza fino a soppiantarli con la governabilità, ha cacciato, dal processo decisionale dei soggetti democratici, praticamente sostituiti da soggetti opachi e totalmente interni al mercato, appunto le lobbies. Esse vivono e proliferano sullo scambio, su un do ut des che per essere efficace deve restare segreto. Esse costituiscono, dunque, una sistematica lesione dell'ordinamento democratico e l'ingresso in esso, dall'interno, della cultura e della pratica dell'affare.

La loro regolamentazione costituisce la foglia di fico del sistema, sempre proposta e ancora riproposta, non riesce a fare ciò che non può. Se il mercato occupa la politica e comanda le istituzioni, esso porta con sé la pratica dello scambio e le lobbies proliferano in esso come pesci nell'acqua. Andrebbero dunque abrogate, invece che regolamentate, per ricostruire una legge fondamentale della democrazia rappresentativa, il carattere democratico di tutte le sue componenti. Lo erano i partiti, i sindacati, i corpi intermedi. Nessuno è, per definizione, immune dal rischio di corruzione, perciò è importante poter contare sugli anticorpi che essi possono attivare al loro interno. Ed è altrettanto importante indagare le condizioni esterne ad essi, le condizioni presenti nella società e nelle istituzioni che ne favoriscono comportamenti virtuosi o almeno ineccepibili anche sul terreno dei costumi, della moralità pubblica. Quando Pier Paolo Pasolini poteva parlare del Pci come di un “paese nel paese”, parlava di un paese sano in un paese malato. Se anche non tutto era proprio così, perché così poteva apparire al più grande poeta civile del paese? Perché quel che veniva così descritto, lo era per tanta parte del paese, tanto da essere ancora così proposto da Giorgio Gaber in quella straordinaria bollata che è "Qualcuno era comunista". Quella realtà era il frutto di una diversità dichiarata, se si vuole di una doppiezza, quella di essere dentro il sistema ma di volerne essere anche fuori. Se cerchi gli anticorpi ai processi degenerativi li trovi in questa diversità. Come vive e di che cosa vive una grande organizzazione con una rete ampia e diffuse di funzionari, di “militanti a tempo pieno”? Quella è una storia ormai da lungo tempo irripetibile. Essa contava su un contributo senza eguali del suo popolo e dei suoi militanti e dei suoi dirigenti. Le feste dell'Unità, il lavoro volontario, le sottoscrizioni di massa. Oggi non se ne può neppure avere l'idea. Il versamento obbligatorio di una parte consistente del proprio emolumento mensile al partito da parte di tutti gli eletti. E tanto altro ancora. Nell'economia di ciò che qui si vuole dire, si possono trascurare le criticità di quel sistema perché si vuole indicare gli argini che esso esigeva per difendere la sua autonomia, l'autonomia del partito. Ad esso concorreva pure una diversa gerarchia delle funzioni e dei ruoli nella composizione dei suoi gruppi dirigenti che scoraggiava il primato dell'apparenza sulle concretezze del lavoro politico, che favoriva il privilegio del ruolo nel partito rispetto a quello nelle istituzioni e la qualità del lavoro politico sulla sua remunerazione. Un Segretario di federazione di partito o di Camera del lavoro godevano di una considerazione assai maggiore di quella di un parlamentare o di chi ricoprisse un pur importante incarico pubblico. Ma l’attività politica di un partito, specie quando è una forza influente sull'intera società, è molto onerosa. Senza finanziamento pubblico è impossibile da sostenere. Allora poteva riuscire, oltreché per quella straordinaria costituzione materiale del partito, anche per le caratteristiche delle relazioni internazionali, quelle della “guerra fredda” e della contesa tra le società capitaliste e quelle del socialismo reale. Quel che oggi è il finanziamento di una potenza straniera, deplorevole per mezzi e fini, allora era, quale che voglia essere il giudizio, altra cosa, era parte della grande contesa, almeno fino a un certo tempo, per la storia del movimento operaio. Non tutti i finanziamenti esterni sono corruttivi o deplorevoli. Senza gli aiuti internazionali non sarebbe vissuta la CUT, il sindacato di Lula in Brasile, senza i soldi del Vaticano, Solidarność avrebbe avuto vita ben più dura in Polonia, senza gli aiuti dell'Urss, molte forze anticolonialiste avrebbero faticato molto di più ad affermarsi.

Quel mondo non esiste più. Le lobbies sono vive, l'autonomia dei partiti è stata fagocitata dal sistema economico-sociale-politico-istituzionale che governa-comanda questa parte del mondo. I grandi argini alla penetrazione affaristica nella politica e nelle istituzioni sono saltati. Anche senza poter pensare, come pure sarebbe necessario ad un'alternativa di modello di società, un'alternativa alla società del profitto, bisognerebbe almeno ripensare criticamente gli attuali rapporti per riformarli, memori della grande lezione del tempo della politica forte. Sugli anticorpi interni alla politica c’è un intero campo da indagare, ma sul finanziamento pubblico dell'attività politica c'è poco da pensare. Bisognerebbe fare prima che la morte della politica istituzionale e della sinistra politica si consumi definitivamente per deficit di protagonismo ed eccesso di affarismo cioè per sottomissione al mercato in ogni sua manifestazione.

Pubblicato da Il Riformista

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