di Maria Pellegrini.

“Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” «Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?» è l’incipit della prima orazione contro Catilina, pronunciata da Cicerone dinanzi al Senato l’8 novembre del 63 a.C., e divenuto il passo più celebre della sua oratoria. Meno nota è la domanda che Catilina - quasi ironicamente allusiva a quell’incipit ciceroniano - rivolge ai suoi sostenitori: “Quae quousque tandem patiemini, o fortissimi viri?” «Fino a quando dunque sopporterete queste cose, o fortissimi uomini?» un’esortazione a non sopportare i soprusi di un potere concentrato nelle mani di pochi. A riportarla non è Cicerone ma Sallustio nella sua monografia sulla congiura. In queste due interrogazioni retoriche sono sinteticamente espresse le motivazioni dell’oligarchia senatoria che si sente minacciata dai dissidenti, e quelle dei cospiratori che progettano un cambiamento.

Cicerone e Sallustio, con i loro ritratti a tinte fosche, hanno consegnato ai posteri un’immagine spregevole di Catilina che ha incarnato nel corso dei secoli un eversore privo di scrupoli, d’indole malvagia e depravata. Al pari di Pompeo e di Crasso, Catilina era stato luogotenente di Silla, lo spietato dittatore, il duro aristocratico che s’era poi ritirato a vita privata mentre i suoi più alti ufficiali erano diventati capi di potenti consorterie che ormai spadroneggiavano in una società in profonda e inarrestabile crisi: chi in campo almeno in apparenza tradizionalista, chi con prospettive rivoluzionarie. Ma intorno a Catilina si erano stretti soprattutto gruppi di scontenti, di indebitati e disperati, di legionari senza legione e senza stipendio, di caporioni eletti sul campo da masse di contadini senza terra, di braccianti affamati sparsi in tutti i distretti e municipi d’Italia. In tale inquietante contesto sociale, Catilina si trovava a suo perfetto agio, e preparava la tessitura d’una vasta rete di rapporti con l’obiettivo di un radicale mutamento o addirittura rovesciamento dell’assetto sociale della repubblica fondata sul potere pressoché incontrastato dell’aristocrazia senatoria.

Dopo aver percorso la sua carriera istituzionale (il “cursus honorum”) fino al penultimo gradino della scala gerarchica, l’inquieto rivoluzionario s’era proposto di diventare console, il vertice dei poteri magistratuali romani. Sconfitto per ben tre volte con pretesti e persino con veri e propri brogli escogitati a suo danno, decise di rompere gli indugi e di tramare nell’ombra per prendere con la forza ciò che le vie legali continuavano a negargli. Sallustio si dimostra incline a forzare esageratamente i toni e le tinte del suo racconto. Catilina non era certo quel mostro da lui descritto: era anzitutto un combattente di grandi virtù militari, un uomo dalla volontà di ferro, di straordinaria intelligenza e ambizione personale, la stessa di Pompeo, Crasso, e in generale di ogni “civis romanus” che intendesse coronare la sua carriera con il consolato. Non essendo di carattere arrendevole, egli decise di passare dal terreno della legalità a quello della illegalità. Il suo programma - che non ci è attestato da nessuna fonte attendibile e diretta - poteva dirsi, tuttavia, racchiuso in una sola formula: giustizia sociale, potere ai poveri, guerra ai ricchi e al Senato divenuto covo di parassiti e sfruttatori senza scrupoli.

Nel 63 a. C. la pressione sempre più energica di Cicerone contro quello che si stava rivelando come un pericoloso attentato ai poteri istituzionali, e la dura arringa in Senato passata alla storia come la “Prima Catilinaria”, costrinse Catilina a lasciare Roma e a raggiungere un piccolo esercito accampato presso Fiesole. Restarono a Roma gruppi di cospiratori a continuare l’opera del loro capo; ma essi commisero un errore che fu loro fatale: i catilinari furono arrestati, nei loro confronti fu istruito un processo “per direttissima”, ma in Senato non tutti erano d’accordo sulla pena capitale da infliggere loro. Su questo dissenso Sallustio ci offre la testimonianza dei due discorsi contrapposti di Cesare e di Catone iunior, la difesa e l’accusa. Il parere di Cesare era che, per quanto orrendo fosse il delitto dei congiurati, essi non dovessero essere giustiziati ma confinati per sempre in diversi municipi della penisola perché la loro esecuzione sommaria era contro il loro diritto di difesa. In tale appassionata contesa dialettica, Catone ebbe la meglio. Cicerone, investito di poteri straordinari, conclusa la seduta con la decisione di giustiziare i catilinari arrestati, ordinò che la sentenza fosse eseguita la sera stessa. E fu un ordine illegale: la “lex Sempronia” che Caio Gracco aveva fatto approvare nel 123 a. C. nel tentativo di evitare assassini legali ordinati dal senato, proibiva di sottoporre a giudizio capitale dei cittadini romani senza l’autorizzazione del popolo (“iniussu populi Romani”). Tale diritto di difesa (“provocatio ad populum”) non fu riconosciuto ai colpevoli. Era fondamentale per Cicerone che quei congiurati non restassero in vita, non poteva attendere e rischiare che i congiurati rimasti vivi potessero fuggire e lasciarlo senza la gloria di aver salvato lo Stato. Il 5 dicembre del 65 a.C. fece condurre i congiurati nel carcere Tulliano dove, calati nella stanza della morte, furono strangolati con un laccio. Cicerone uscì e alla folla in attesa ne annunciò la morte con questa lapidaria espressione: “vixerunt” (vissero)

I giuristi che tenevano al principio di legalità trovarono inaccettabile l’esecuzione di cinque cives romani, senza regolare processo e sollevarono serie questioni relative all’interazione tra diritto e politica e alla tutela delle libertà individuali, ma per il momento Cicerone vinse la sua battaglia.

Se si riesamina la figura di Catilina con una più attenta valutazione della sua avventura politica e umana evitando l’ottica parziale e faziosa dei suoi nemici, se si ripercorrono gli eventi che hanno preceduto l’insurrezione, e si rievoca l’atmosfera di quegli anni di grave crisi della repubblica e di aspre lotte fra l’oligarchia senatoria e gli uomini emergenti del partito popolare, si metterà in evidenza il vasto malessere economico e sociale diffuso in tutta la penisola, e ciò che Cicerone e Sallustio chiamarono «congiura» in realtà era uno stato di fatto, un diffuso scontento con ribellioni in tutta l’Italia, una minaccia dunque per la stabilità del governo oligarchico.

Se Cicerone insorse con veemenza contro il nemico politico perché intravide nel suo movimento i germi d’uno sconvolgimento sociale senza precedenti, Sallustio imputò alle masse, insoddisfatte del proprio stato, di sperare in qualcosa di nuovo con l’appoggio al sedizioso piano di Catilina. Sia l’oratore che lo storico furono inclini a forzare i toni delle loro invettive. L’estrema avventura di Catilina si concluse nel 62 a.C. combattendo come un eroe epico, contro gli eserciti consolari inviati in Etruria: «sul volto l’indomita fierezza che aveva da vivo» scrive Sallustio.

La repressione della congiura, se procurò in un primo tempo il titolo di “padre della patria” a Cicerone, poi gli causò gravissime amarezze. Infatti nel 58 a. C. Publio Clodio, eletto tribuno della plebe, propose e fece approvare una legge nella quale si decretava: «Chi ha mandato a morte un cittadino romano senza regolare processo, sia condannato all’esilio». Si voleva colpire Cicerone che aveva fatto giustiziare in prigione, dopo un processo sommario, i complici di Catilina, e che ora non poteva più sperare nell’aiuto dei consoli, uomini deboli e patteggianti con Clodio, né di Pompeo, che non volle neppur concedergli udienza, né di Cesare, che cedette alle pressioni di Clodio, infatti la “lex Clodia de exilio Ciceronis” fu approvata e disponeva che l’esiliato dovesse restare al difuori di un raggio di 500 miglia dai confini d’Italia, che il suo patrimonio e le sue case fossero confiscate. Cicerone prese la via dell’esilio (dal marzo del 58 al settembre del 57). Tornerà a Roma, divenne un avvocato famoso, ma nel 43 a. C. appena costituito il secondo triumvirato tra Ottaviano, Antonio e Lepido, finì nelle liste di proscrizioni tra i nemici dei triumviri e fu barbaramente trucidato. La testa e le mani vennero portate a Roma e appese sul palco degli oratori nel Foro dove Cicerone aveva tante volte fatto udire le sue arringhe.

Resta il dubbio negli storici: Catilina, efferato cospiratore o eroico paladino degli oppressi?

NOTA: Immagine: Catilina, affresco di Cesare Maccari (Palazzo Madama, Roma)

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