di Fausto Bertinotti

Carla Fracci è stata innanzitutto l’étoile della Scala. La Scala è stata la sua casa, ci era arrivata per caso, quando ancora era possibile per la figlia di un tranviere milanese arrivare fin lassù. E da là, scalare il mondo per essere applaudita ed acclamata su tutti i suoi più grandi palcoscenici. Ha interpretato Giselle come nessuna. I più grandi ballerini da Nureev a Vasiliev l’hanno accompagnata ammaliati dalla sua danza.

Il sodalizio di una vita con Beppe Menegatti l’ha condotta per le strade di una crescita culturale e artistica. Grandissima ballerina romantica, è stato detto. Il dono di una leggerezza che sembrava portare sul palcoscenico nella danza, quella leggerezza di Calvino che si è accompagnata per tutta la vita a una ferrea disciplina e a un lavoro che non ammetteva pause, fino alla fine. A questa grandissima artista, Eugenio Montale aveva dedicato una poesia, “La danzatrice stanca”: «Torna a fiorir la rosa/ che pur dianzi languia…».

La sua Milano l’aveva incoronata con la partecipazione, la vicinanza, la condivisone della sua migliore intellettualità, quella che dalla Scala al Piccolo Teatro ha segnato un intero capitolo della storia culturale del Paese. Il suo popolo vedeva in lei la stella che era diventata, ma anche la bambina che in essa era cresciuta. Un’altra Milano le ha negato quello che le era dovuto, ma è rimasta la sua città, illustrata nel mondo come il suo Paese dal suo leggiadro volo.
Esserle stati amici è il dono che ha lasciato a noi. A tutti, ha lasciato quello di una visione, la visione che ci ha parlato dell’umana possibilità di volare.

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